venerdì 12 luglio 2013

Vincent Peillon, che ci combini?

di Silvio Brachetta

Finalmente abbiamo un uomo-simbolo o uomo-sintesi della nostra epoca. Potremo così dare un volto almeno ad uno di coloro che stanno trasformando il mondo in un enorme campo di rieducazione collettiva. È il socialista francese Vincent Peillon, Ministro dell’Educazione (appunto), che va apprezzato per la schiettezza con cui comunica il piano suo e dei suoi colleghi, rispetto al quale la Rivoluzione culturale di Mao fu un’allegra scampagnata estiva per maturandi cinesi.
Il piano, in realtà, era già noto dal 2008, rivelatoci dal Peillon in una delle sue numerose videointerviste. Emerge dirompente, almeno in Italia, soltanto ora nell’analisi, tra le altre, che ne fa Tempi (articolo di Leone Grotti): dice dunque Peillon - ufficializzando a parole la notissima intenzione laicista - che, dopo la «rivoluzione politica», è giunto il tempo per la «rivoluzione morale e spirituale». La Chiesa cattolica, ovviamente, va sostituita e rimpiazzata dalla «religione repubblicana», cioè dalla «nuova chiesa con i suoi nuovi ministri, la sua nuova liturgia e le sue nuove tavole della legge».
Da dove partire? Il nuovo monte Sinai è la scuola: «La rivoluzione - dice Peillon, citato da Grotti - implica l’oblio per tutto ciò che precede la rivoluzione. E quindi la scuola gioca un ruolo fondamentale, perché la scuola deve strappare il bambino da tutti i suoi legami pre-repubblicani per insegnargli a diventare un cittadino». Sembra quasi d’intravvedere Robespierre come il nuovo Mosè.
Dalle parole ai fatti, Peillon propone una legge sulla «Rifondazione della scuola della Repubblica», che naturalmente prevede un «insegnamento obbligatorio» di «morale laica», per «strappare l’allievo a tutti i determinismi familiari, etnici, sociali, intellettuali» in modo da «produrre un individuo libero». Progetto, insomma, di vecchia data, per l’edificazione dello «stato etico» hegeliano con prassi rivoluzionaria.
L’originalità del Ministro sta nel fatto che sia un politico (ateo) a presentare apertamente il progetto come «religione». La richiesta di valutare, nella scelta politica, le radici cristiane dell’Europa pare, sotto questa luce, un’ingenua rivendicazione del passato. Marx-Aronne sta costruendo il vitello d’oro nel deserto delle anime.
Ma qual è il primo passo per la rieducazione collettiva imposto da Peillon? Dal mese di settembre di quest’anno saranno operative le Scuole superiori di pedagogia e dell’educazione - Écoles Supérieures du Professorat et de l’Education (Espe). Il sito ufficiale del Ministero dell’Educazione assicura che «le iscrizioni agli Espe sono già cominciate in alcune università» francesi. È previsto un «vasto pubblico» interessato alla «ricostruzione della didattica». Si può intuire su che basi la didattica sarà ricostruita.
Difatti - si legge - ogni Esp è «uno dei luoghi a partire dai quali sarà diffusa l’innovazione pedagogica, chiave della rifondazione della scuola». L’obiettivo - qua viene il bello - è di «affermare e costruire una cultura comune», così da accelerare «l’appropriazione delle innovazioni pedagogiche e dei principi di rifondazione per tutte le parti interessate della comunità educativa».
Un lavaggio del cervello, par di capire.


mercoledì 10 luglio 2013

Biffi: catechismo secondo Pinocchio

di Filippo Rizzi

Quest’anno ricorre un importante anniversario, dall’alto valore simbolico per la biografia del cardinale Giacomo Biffi: i 130 anni (era il febbraio del 1883) dalla prima edizione de Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi, alias Carlo Lorenzini. Un anniversario che tocca nel profondo le corde più intime della sua memoria di «pinocchiologo», come ama definirsi il cardinale. Lo spunto di questi 130 anni (1883-2013) rappresenta l’occasione per l’arcivescovo emerito di Bologna (che da poco, il 13 giugno scorso, ha compiuto 85 anni) di riprendere in mano e di rileggere il suo saggio, pubblicato dal 1977 dalla Jaca Book e ristampato ininterrottamente in varie edizioni fino ad oggi, Contro Maestro Ciliegia. L’ammirazione per Le avventure di Pinocchio è nata in Biffi nel 1935 e non si è mai sopita, tanto che il cardinale è sempre tornato a parlarne e discuterne in dibattiti pubblici, molto dei quali dedicati al nostro Risorgimento, negli anni del suo lungo ministero di arcivescovo di Bologna (1984-2003) e non solo. «Del mio primo incontro con il libro di Pinocchio conosco con esattezza la data: 7 dicembre 1935. Me lo comprò mio padre alla fiera di Sant’Ambrogio, quando avevo sette anni – rammenta dalla sua abitazione sulle colline bolognesi il porporato di origini milanesi –. Ricordo che era un’edizione economica. Fu così che il fatale burattino entrò nella mia vita, e vi rimase». Una passione maturata negli anni successivi, tanto da rileggere il testo di Collodi come un vero «capolavoro teologico e di introspezione» già tra i banchi di scuola: «Una prima illuminazione la ebbi in terza liceo dalla lettura di un saggio di Piero Bargellini: Pinocchio ovvero la parabola del figliol prodigo. Poi vennero gli studi di teologia. La mia tesi di dottorato su "Colpa e libertà nella condizione umana" fu tutta debitrice al libro di Collodi. Solo che dovetti scriverla in un linguaggio accademico, col risultato che fu apprezzata da tutti e letta da nessuno…».

Come nacque, sul finire degli anni Settanta, l’idea di un libro proprio su Pinocchio?

«Rammento che ne parlai con il cardinale Giovanni Colombo, di cui in quegli anni ero vescovo ausiliare a Milano, e la sua risposta alle mie esitazioni: "Dipende da quello che scriverà". Tutto ciò mi spinse a compiere l’impresa di un commento teologico. L’idea mi solleticava da tempo. E infatti in quel racconto riscontrai da subito non solo il carattere giocoso di intrattenimento e pura evasione: conteneva un messaggio che svelava il mistero centrale dell’universo. Ai piccoli lettori non diceva tanto come dovessero comportarsi, bensì narrava la storia dell’uomo e presentava il senso dell’esistenza. Ed era in fondo la storia che ci è insegnata dalla Rivelazione cristiana. Il successo di Pinocchio è ancora, a 130 anni dalla sua pubblicazione, un enigma straordinario. Nacque per caso, scritto di malavoglia da Collodi per un giornale di bambini, a puntate irregolari e interrotto due volte, la prima con la convinzione di concluderlo per sempre. E invece è l’unico libro uscito in Italia dopo l’Unità che abbia avuto un successo mondiale. La spiegazione è una sola. Contiene un messaggio eterno, che tocca le fibre del cuore di tutti gli uomini di ogni tempo e cultura».

Un libro, eminenza, che insomma suggerirebbe di leggere anche ai ragazzi di oggi presi da ben altre distrazioni: videogiochi, internet…

«Certamente, anche perché si tratta di un magnifico catechismo adatto ai bambini come agli adulti. Pinocchio è la verità cattolica che erompe travestita da fiaba. E soprattutto facciamo bene a darlo in mano ai ragazzini, in una società come la nostra così distratta, affascinata dalla civiltà dell’immagine e catturata più dalle cose superficiali che da quelle sostanziali. In quelle pagine vi è in fondo, a mio giudizio, la sintesi dell’avventura umana. Comincia con un artigiano che costruisce un burattino di legno chiamandolo subito, sorprendentemente, figlio. E finisce con il burattino che figlio lo diventa per davvero. Ma c’è anche molto di più. C’è, ad esempio, Lucignolo che rappresenta la perdizione: dove il destino dell’uomo non sempre è a lieto fine. C’è la figura di Maestro Ciliegia, vero maestro dell’antifede: un personaggio che non vuole andare al di là di ciò che vede e tocca. Quello che mi ha sempre colpito è l’oggettiva concordanza di struttura tra la fiaba e l’ortodossia cattolica».

Un testo che per buona parte del Risorgimento ha rappresentato una specie di «Bibbia mazziniana» e in cui lei ha invece scovato una profonda e sotterranea «anima cattolica»…

«La tesi del mio saggio è stata quella di uscire da una certa retorica risorgimentale e sfatare qualche luogo comune. Già nel 1860 Collodi appare deluso dagli esiti dell’avventura unitaria (alla quale aveva dato il suo apporto partecipando alle due prime guerre di indipendenza). Successivamente, a poco a poco, dimostra di non aver più fiducia negli uomini che contano; pare addirittura essersi convinto che gli adulti sono "irredimibili" e perciò decide di rivolgersi nei suoi scritti soltanto ai ragazzi. Chi sono i suoi lettori? Sono i ragazzi del 1881, l’anno in cui Collodi scrive Pinocchio; non sono né sabaudi né repubblicani né anticlericali né clericali: nessuna ideologia li aveva ancora raggiunti. Ma non sono dei barattoli vuoti. Sono i ragazzi del catechismo, delle prediche del parroco, delle preghiere delle mamme, dei dipinti delle chiese. Non conoscono le ideologie, conoscono la verità cattolica. L’autore vuole così entrare in comunione di spirito con loro. Collodi ha voluto dunque scrivere una storia che, per parlare alla mente e al cuore dei piccoli, li andasse a trovare dove di fatto stavano, nel loro mondo spirituale con le loro persuasioni».

Una figura chiave della fiaba è la Fata turchina. Cosa rappresenta nella vicenda di Pinocchio questo personaggio?

«Ne Le avventure di Pinocchio compare con la Fata turchina l’idea della redenzione e il "principio femminile della salvezza"; in lei vi è la salvezza donata dall’alto: e quindi Cristo, la Chiesa, la Madonna. Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini è posto appunto a indicare l’esistenza di questa salvezza che è donata dall’alto e può guidare al lieto fine la tragedia della creatura ribelle. Il protagonista raggiunge così il suo riscatto, e in tal modo scampa alla sorte di Lucignolo che non si è ravveduto; tutto si conclude con il ritorno al padre».

Un libro che ci aiuta anche a riflettere sul mistero del male e sul tema della libertà. Quale è la sua considerazione a riguardo?

«Nella favola le forze malefiche sono rappresentate vivacemente nelle figure del Gatto e della Volpe. Ma più di tutti l’Omino, corruttore mellifluo, insonne. Memorabili sono le sue parole: "Tutti la notte dormono, io non dormo mai". E poi c’è il tema della libertà. Basti pensare alla scelta di un burattino legnoso come protagonista della narrazione, anch’essa una cifra: è in fondo il simbolo dell’uomo, che da ogni parte viene condizionato, è schiavo degli oppressori e dei persuasori occulti. E rimane legato a fili invisibili che determinano le sue decisioni e rendono illusoria la sua libertà. Se Pinocchio non resta prigioniero del teatrino di Mangiafuoco è perché a differenza dei suoi fratelli di legno riconosce e proclama di avere un padre. È questo il segreto della vera libertà, che nessun tiranno può portar via».

Eminenza, si può parlare di un Collodi credente e «cattolico a modo suo»?

«Collodi aveva una sua fede. "Non sono miscredente. Stia tranquilla che ci credo", disse una volta alla madre Angiolina Orzali. A questa figura il Lorenzini rimase sempre legato. Un po’ tutti questi uomini del nostro "laico" Ottocento dovevano vedersela con una madre dalla fede limpida e viva. E poi nella sua formazione cattolica ha sicuramente contato, negli anni giovanili, la frequentazione del seminario di Colle Val d’Elsa e lo studio di retorica e filosofia presso i padri scolopi a Firenze. L’ipotesi più semplice è che proprio nei mesi della stesura finale del libro, magari con l’affettuosa e illuminante assistenza della mamma che in quel tempo gli è sempre stata vicina, il Collodi abbia riscoperto la visione e le certezze della sua prima età. E il successo e la diffusione universale di Pinocchio forse trovano qui la "ragione sufficiente". In questa favola, fantasiosamente immaginata e scritta splendidamente, tutte le genti intuiscono che c’è qualcosa di eterno e di cosmicamente vero».


martedì 9 luglio 2013

La Fede ha l’intrinseca capacità di allargare gli orizzonti della Ragione

di Silvio Brachetta

Più di qualsiasi altro documento prodotto dalla Chiesa, c’è il sospetto che la Lettera Enciclica “Lumen Fidei” sia posta dalla Provvidenza per indicare cosa sia la continuità dottrinale del Magistero. Gli autori - due, per esplicita ammissione di Papa Francesco - diversissimi nella personalità, nella prassi pastorale e nella formazione culturale, si ritrovano infatti concordi su tutti gli aspetti fondamentali della prima virtù teologale - la fede.
Joseph Ratzinger (Benedetto XVI), al netto delle contingenze umane e storiche, sente così realizzato il desiderio di vedere pubblicata la terza enciclica dedicata, assieme alle prime due (“Spe Salvi”, sulla speranza e “Caritas in Veritate”, sulla carità e sulle sue implicazioni sociali), all’insegnamento apostolico sulle tre virtù teologali. Eppure la firma in calce è di Papa Francesco, non solo per il proprio contributo alla stesura dell’opera, ma in quanto unico Pontefice regnante, il solo che possa oggi «confermare nella fede» i suoi fratelli. È consuetudine storica e prudenziale che le lettere encicliche siano opera di più redattori e però, allo stesso tempo, che il Pontefice regnante sia l’unica persona in grado di apporre un valido sigillo di autorità apostolica allo scritto, per evidenti motivi legati al suo ministero petrino. La “Lumen Fidei” è intrisa di verità, nel senso che la parola «verità» ricorre settantatre volte in meno di novanta pagine e nel senso che la luce della fede è fortemente messa in relazione alla luce della verità.

I Patriarchi conobbero Dio dopo averlo ascoltato

Nel testo si preferisce il riferimento alla «luce della fede» - da cui il titolo dell’Enciclica - piuttosto che alla «fede» in generale, per rivedere e scavalcare l’equivoco della modernità, secondo cui la fede sarebbe in opposizione alla ragione: mentre alla ragione la modernità associava e associa la sola luce in grado di dissipare le tenebre dell’ignoto, la fede veniva lentamente accomunata al buio, alle tenebre stesse dell’irrazionalità (parte introduttiva, nn. 2, 3). Ci si accorse tuttavia e con sempre maggiore evidenza che la «ragione autonoma», sganciata dalla fede, si limita ad accendere «piccole luci», incapaci di «illuminare abbastanza il futuro». In tal modo «l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande», che è la dimensione della fede, il «dono soprannaturale» concesso da Dio (n. 4).
Il documento dunque chiarisce che la luce vera giunge a noi dal «vero sole», da Gesù Cristo, senza il quale anche la luce della ragione non può sussistere, né servire ad alcunché. Una infatti è la sorgente - Gesù Cristo - della «vera fede» (come insegnava Paolo VI) e uno il canale - il Magistero della Chiesa - attraverso il quale la fede si mantiene integra (n. 1).
Sorgente, canale, acqua che scorre: la fede corre lungo il letto dei secoli ed è sempre comunitaria; coinvolge le persone in modo peculiare, per cui il lungo «racconto dei benefici di Dio», a favore del popolo d’Israele, è trasmesso «di generazione in generazione», in sincronia col «compiersi progressivo» delle promesse divine (capitolo primo, nn. 12, 13). La fede nasce in modo simile all’esperienza di Abramo, come «ascolto» della Parola di Dio. Poi si sviluppa, quando Dio si dimostra fedele; cioè Dio realizza fedelmente le promesse e l’uomo, a seguito di questa fedeltà, crede nel Dio della Promessa (cf. S. Agostino, n. 10). La fede di Abramo, di Mosè e dei Patriarchi era misteriosamente orientata verso il Cristo. Dice anzi S. Agostino, che «i Patriarchi si salvarono per la fede […] in Cristo che stava per venire» nel mondo. Questo perché la «fede cristiana è centrata in Cristo», l’«Amen finale di Dio», ovvero la «roccia» (in ebraico ’emûnah) che sostiene Israele (nn. 10, 15).

La questione della verità è al centro della fede

Così come la fede non è un «fatto privato», nemmeno è un’«opinione soggettiva». Il capitolo secondo dell’Enciclica ritorna estesamente sul malinteso moderno e contemporaneo, secondo cui la fede sarebbe irragionevole. Questo dipende - osserva il Papa - dalla «crisi di verità in cui viviamo». Per questo il Magistero si vede qui impegnato a comprovare che è del tutto «ragionevole avere fede in Lui», in Gesù Cristo, nell’uomo-Dio incarnato, crocifisso, morto e resuscitato, nel «Dio-Amen». Già il profeta Isaia - si legge nell’Enciclica - metteva «la questione della conoscenza della verità al centro della fede» (n. 23). Isaia, dinnanzi al re Acaz, specifica nel merito che la saldezza del Regno d’Israele dipende dalla «comprensione dell’agire di Dio». E la comprensione prevede la ragione. Tutto l’uomo è coinvolto nell’adesione a Dio: sentimento, prudenza, intelligenza, speranza. In particolare, il Pontefice insegna che «l’uomo ha bisogno di conoscenza» e «di verità», al punto che «la fede, senza verità, non salva» (n. 24).
Sbagliava dunque il filosofo Ludwig Wittgenstein nel ritenere che l’amore avesse a che fare con i sentimenti, ma non con la verità. Tutt’altro: c’è un «tipo di conoscenza proprio della fede», per cui essa «conosce in quanto è legata all’amore», poiché «l’amore stesso porta una luce» (nn. 26, 27). Se infatti l’amore non avesse rapporti con la verità (e con la ragione), allora esso sarebbe «soggetto al mutare dei sentimenti», non superando «la prova del tempo». Certamente, quanto all’amore, si tratta di una logica nuova, superiore al ragionare ordinario. Ma il Papa precisa, comunque, che «amore e verità non si possono separare» (n. 27).

Trasmissione della fede e necessità del Magistero

Proprio in virtù del profondo legame tra fede e ragione - sul quale anche Giovanni Paolo II aveva dedicato un’Enciclica (“Fides et Ratio”, 1998) - il cristianesimo primitivo, «nella sua fame di verità», ha trovato «nel mondo greco un partner idoneo per il dialogo» (n. 32). Oggi, più che nel passato, è necessario quindi ricordare agli uomini quanto la fede abbia l’intrinseca capacità di allargare gli orizzonti della ragione, poiché la fede trasporta in se la luce e soddisfa il desiderio umano di «vedere» la realtà.
Dal legame tra fede e ragione è scaturita poi la teologia, che è tale solo quando è condotta in umiltà e non abbandona la fede stessa che l’ha generata. In questo senso, si parla di teologia come «scienza della fede» e, giacché «vive della fede», non è opportuno - dichiara il Santo Padre - che il teologo «consideri il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco» (n. 36).
Similmente alla fiamma, la fede si trasmette «da persona a persona», come l’intera Sacra Scrittura dimostra (capitolo terzo, n. 37). È un’illusione quella secondo la quale si giunge alla fede per via privata ed è quindi «impossibile credere da soli» (n. 39). E su tali assunti l’Enciclica si esprime su tre insegnamenti notevoli per importanza. Il primo ci ricorda la necessità dei Sacramenti, il primo dei quali è il Battesimo, per mezzo del quale ci viene trasmessa la fede. Con il Battesimo non solo rinasciamo a nuova vita e diveniamo figli adottivi di Dio, ma riceviamo pure «una dottrina da professare» (n. 41). In secondo luogo, è ribadita l’importanza di battezzare i bambini (n. 43). Infine, è confermato che la Chiesa e la successione apostolica sono a servizio della «trasmissione integra» della fede, per annunciare «tutta la volontà di Dio»: questa volontà «ci può arrivare integra» per mezzo e «grazie al Magistero della Chiesa» (n. 49).

Dottrina sociale

Alcuni temi dell’insegnamento sociale della Chiesa sono contenuti nel quarto e ultimo capitolo della “Lumen Fidei”. In particolare, si tratta del rapporto tra fede e «bene comune», al quale la fede offre il proprio servizio (tema già introdotto al capitolo secondo). Il bene comune, però, è tale solo quando esprime l’autentico progresso umano, ottenibile a condizione di rispettare la verità sull’uomo. Ad esempio, la forma di un governo è «giusta» nella misura in cui riconosce che l’«autorità viene da Dio», dall’alto e non dal basso (n. 55). O quando si ammette che «solo da Dio […] può trovare fondamenta solide e durature la nostra società» (n. 57). Se dunque non si edifica la città terrena sul modello della città di Dio, i rapporti tra le persone non sono illuminati (n. 57), la giustizia e la pace latitano (n. 51), la famiglia è mortificata (n. 52), la fraternità e l’uguaglianza restano utopie infantili (n. 54).
Se davvero, invece, desiderassimo affrancare lo sviluppo da basse logiche di profitto, dovremmo riconsiderare che «la fede» stessa «è un bene comune» (n. 51).


venerdì 5 luglio 2013

San Tommaso e gli altri apostoli

di Silvio Brachetta

«Era un testardo. Ma, il Signore ha voluto proprio un testardo per farci capire una cosa più grande». Il testardo in questione, secondo Papa Francesco, è San Tommaso Apostolo, del quale oggi (3 luglio) ricorre la festa liturgica. Il Santo Padre, presso la cappella della Domus Santa Marta, ha commentato estesamente il brano evangelico noto come l’«incredulità di San Tommaso» (Gv 20, 24-29): solo quando l’Apostolo (conosciuto anche con il nome di Dìdimo) si ritrovò dinnanzi Gesù Cristo risorto, lo riconobbe come Signore e come Dio.

Ma il San Tommaso, su cui riflette il Papa, è forse assai meno incredulo di quanto possa sembrare o, comunque, superata l’incredulità, è «il primo dei discepoli» che confessa la divinità di Cristo, dopo la Risurrezione. Non si è limitato, cioè, come gli altri Apostoli, a constatare la Risurrezione di Gesù, ma - dice il Pontefice - «è andato più oltre. Ha detto: “Dio!”». A ciascuno il Signore, nella propria sapiente Provvidenza, concede il tempo sufficiente alla conversione e, nel caso di San Tommaso, «ha voluto che aspettasse una settimana».

Nessuno è in grado di valutare il criterio con cui Dio sceglie i tempi e le persone, ma è anche erroneo credere che Egli voglia lasciare l’uomo nelle tenebre dell’ignoranza: e, difatti, si comprende - dice il Santo Padre - «qual era l’intenzione del Signore nel farlo aspettare» e, cioè, evidenziarne l’«incredulità per portarla» all’«affermazione della sua divinità». In ogni caso, l’attenzione deve andare verso le piaghe di Gesù. Anzi, il «cammino per l’incontro con Gesù-Dio sono le sue piaghe. Non ce n’è un altro».

Eppure molti si sono incamminati su strade differenti e non hanno considerato a fondo il valore salvifico, beatificante, delle piaghe di nostro Signore. Papa Francesco ha elencato alcuni «sbagli» nei quali possono incorrere coloro che cercano Dio con sincerità. C’è, ad esempio, il «cammino della meditazione», perseguito dagli gnostici, ovvero da coloro che reputano sufficiente la propria intelligenza per conoscere pienamente il vero Dio. O la «strada della penitenza» - soltanto della penitenza - per cui molti digiunano e compiono ogni sacrificio, credendo di poter incontrare Dio sostenuti dalle sole proprie forze materiali o spirituali. Fu il caso dei Pelagiani, che proposero un cammino di conversione fondato sulla volontà umana, convinti di poter fare a meno della Grazia, dello Spirito Santo.

Non che meditazione e penitenza siano d’ostacolo all’autentica conversione. Tutt’altro. Ma nulla è sufficiente - afferma il Papa - senza le «opere di misericordia» a favore «del tuo fratello», perché «piagato, perché ha fame, perché ha sete, perché è nudo, perché è umiliato, perché è schiavo, perché è in carcere, perché è in ospedale». Queste - dice - «sono le piaghe di Gesù oggi». Per cui il Signore, tramite queste piaghe, «ci chiede di fare un atto di fede» e di non rimanere, però, solo sul piano filantropico, della buona azione per se stessa.

L’obiettivo è un altro: «toccare le piaghe di Gesù», carezzarle, curarle con tenerezza, baciarle - «letteralmente», soggiunge. Così come accadde a San Francesco e, prima ancora, allo stesso Dìdimo. Entrambi cambiarono vita solo dopo l’abbraccio con il lebbroso o con l’ammalato che, in realtà, è lo stesso Gesù piagato e ferito.

Del tutto concorde su tali questioni è l’insegnamento dei Dottori della Chiesa, tra i quali si potrebbe citare San Gregorio Magno (Papa): alla fede devono seguire le opere, poiché «crede infatti davvero colui che mette in pratica con la vita la verità in cui crede» (dalle “Omelie sui Vangeli”, Om. 26, 7-9). Per provare tale affermazione San Gregorio cita San Paolo - «[gli ipocriti] dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti» (Tt 1, 16) - e San Giacomo - «la fede senza le opere è morta» (Gc 2, 26).

San Gregorio, inoltre, rileva il ruolo della Provvidenza nella vicenda di San Tommaso: «No, questo non avvenne a caso, ma per divina disposizione. La clemenza del Signore ha agito in modo meraviglioso, poiché quel discepolo, con i suoi dubbi, mentre nel suo maestro toccava le ferite del corpo, guariva in noi le ferite dell’incredulità. L’incredulità di Tommaso ha giovato a noi molto più, riguardo alla fede, che non la fede degli altri discepoli» (ibidem.).


Sui laici non siamo d’accordo

La ricaduta mediatica del Caminetto della settimana scorsa

DIFFILE CHE UN LAICATO ALL’ALTEZZA DELLE SFIDE DI OGGI NASCA DA QUESTE IDEE
La replica di Luigi Alici

Ha avuto una ricaduta mediatica molto forte il Caminetto dell’Arcivescovo della Settimana scorsa. Ripreso da numerose testate nazionali e blog, è rimbalzato moltissimo sui social networks. Luigi Alici ha risposto alle rilevazioni dell’Arcivescovo nel proprio blog. Riportiamo qui la controcritica del Prof. Alici e un intervento di replica del nostro Direttore.

Sono costretto, mio malgrado, a entrare in dialogo a distanza con l’arcivescovo di Trieste, mons. Crepaldi, dopo l’intervista da lui rilasciata al giornale della sua diocesi. Lo faccio malvolentieri: lo stile ecclesiale che preferisco è quello di un dialogo diretto, volto a chiarire eventuali fraintendimenti e incomprensioni. Debbo però fare i conti con la ricaduta mediatica dell’intervista, che mi attribuisce posizioni non corrispondenti allo spirito e alla lettera del mio libro I cattolici e la politica, e che per puro amore di verità debbo chiarire pubblicamente.

Desidero anzitutto precisare che l’affermazione di essere «a favore del riconoscimento delle convivenze tra omosessuali» non corrisponde minimamente al mio pensiero. In passato sono state criticato da associazioni gay per aver coniato l’acronimo OSGM (= organismi sociali geneticamente modificati) a proposito delle convivenze tra omosessuali. Nel libro mi chiedo se sia possibile collocare le unioni civili a un livello più alto di un individualismo atomistico, continuando a riconoscere la differenza sessuale come un dato «che non può essere declassato a pura preferenza soggettiva». Ho aggiunto che «pretendere uguali diritti rispetto a una “famiglia naturale” … equivarrebbe a neutralizzare la differenza sessuale».

Non è altresì esatto quanto mons. Crepaldi mi attribuisce: «Secondo lui una coppia di omosessuali non ha diritto ad essere considerata famiglia in quanto non lo è, ma ha diritto ad essere considerata qualcosa di più di due studenti che condividono lo stesso appartamento». Ho scritto invece, cercando di identificare i termini del problema: «Due gay che vogliono vivere insieme non accetterebbero mai di essere posti, in termini di diritti sullo stesso piano di due single o di un gruppo di studenti universitari che condividono per motivi puramente economici lo stesso appartamento». La differenza di attribuzione mi pare sostanziale.

Riconosco, è vero, l’importanza di convenire su una “logica graduata dei diritti” entro una differenza di fondo tra pubblico e privato (questo è il capitolo in cui affronto la questione), concludendo – in modo a mio giudizio inequivocabile – con queste parole: «Qualcuno vorrà forse rinunciare all’idea della famiglia naturale come culla della vita? Con quale altro modello intende sostituirla? Vorremmo vedere le carte, please». Ammetto invece una differenza di approccio alla questione, ritenendo che un credente debba ricercare dei margini di confronto e di dialogo entro questo intervallo tra pubblico e privato. La stessa citazione del cardinale Martini (che mons. Crepaldi sembra singolarmente contrapporre ai “Vescovi italiani”) va in questa direzione: «gerarchia di valori», non «parità di diritti».

A un livello più generale, non mi riconosco in un atteggiamento che consisterebbe nell’«affermare i principi nello stesso momento in cui si aprono fessure per non rispettarli» e mi sento personalmente ferito nel leggere che la mia esposizione sarebbe «sempre volutamente ambigua». Due avverbi che pesano.

L’ambiguità può essere il risultato di affermazioni oggettivamente equivoche, ma la pretesa di giudicare in modo così assertorio l’intentio auctoris, senza la benché minima presunzione del dubbio, mi lascia stupito. Non ho nessuna intenzione di essere un apostolo dell’ambiguità e non sto girando «tutta l’Italia»; ho fatto solo cinque o sei presentazioni del libro, tenendole sempre ben distinte da altri interventi, frutto di inviti a livello ecclesiale, in molti casi sollecitati da Vescovi, che non sarei propenso a ritenere tutti degli sbadati o peggio sostenitori di un cristianesimo equivoco del “Sì, ma…”.

Mons. Crepaldi giustamente mette in guardia contro il pericolo di un’adesione condizionata alla fede, espressa efficacemente nella formula del “Sì, ma…”. Personalmente ritengo che l’adesione incondizionata al patrimonio irrinunciabile della tradizione cristiana non solo non escluda ma addirittura richieda, proprio in nome di tale fedeltà, che si cerchi continuamente di purificare tale patrimonio da infiltrazioni improprie. Come credente debbo essere disposto a dire un sì senza riserve – anche a costo della vita – nell’obbedienza alla fede, mentre forse è il caso di continuare a dire dei “ma…” dinanzi a una richiesta diversa di obbedienza: alle cordate, alle consuetudini e ad ogni sovrastruttura disciplinare opinabile che tende fare corpo unico con il depositum fidei (come, ad esempio, le preferenze politiche di un pastore).

Un valore ben più importante hanno invece le parole di mons. Crepaldi sull’Azione Cattolica, che a mio giudizio debbono essere tenute ben distinte da quelle che egli ha ritenuto di dedicare al mio libro. Il profilo istituzionale ed ecclesiale è completamente diverso e sono dispiaciuto che una valutazione su un libro (intenzionalmente non pubblicato con la casa editrice dell’Ac) possa riverberarsi negativamente sull’associazione. In ogni caso, come semplice socio di Azione Cattolica, quale sono ora, m’interroga profondamente il fatto che un vescovo, anziché cercare forme d’interlocuzione diretta nelle sedi più proprie, preferisca rilasciare una intervista pubblica in cui afferma che l’Ac «abbia bisogno di riconsiderare la propria linea e il proprio ruolo».

Infine, come non riconoscere, con mons. Crepaldi, che «questa è l’ora del laicato in modo particolare»? Le sue parole attestano una richiesta di laici “all’altezza”, che c’interpella tutti ma lascia aperta una domanda che non si può eludere: quali laici? Una domanda che dobbiamo altresì contestualizzare: nel frattempo, si dà il caso che nella Chiesa stia accadendo qualcosa. Non possiamo far finta di nulla dinanzi al processo di rigenerazione profonda, iniziato con la rinuncia di papa Benedetto e proseguito con l’elezione di papa Francesco, che segna – com’è ovvio – per noi tutti un “nuovo inizio”. Al magistero di papa Francesco, che ci sta richiamando all’essenziale della fede e che non vuole “dogane” improprie sulla strada che collega miseria e misericordia, dobbiamo assicurare tutti un “sì senza se e senza ma”. Sono certo che, su questo punto, mons. Crepaldi sia d’accordo con me.

Luigi Alici

***

La replica del nostro Direttore

Inaccettabile quella contrapposizione tra Papa Francesco e Papa Benedetto

Ho letto il libro di Luigi Alici, il Caminetto dell’Arcivescovo e, infine, la replica di Alici che pubblichiamo qui sopra. Faccio alcune osservazioni.

Partiamo da un caso concreto. Come può dire Alici che non c’è contraddizione tra quanto dichiarato dai Vescovi nella Nota del 2007 ai tempi dei Dico e quanto proposto dal Cardinale Martini (e fatto proprio da Alici stesso) nel libro-intervista “Conversazioni notturne a Gerusalemme”? Là i Vescovi chiariscono che eventuali diritti delle persone omosessuali devono essere soddisfatti nell’ambito del diritto privato, qui invece il Cardinale Martini apre alla possibilità di riconoscere la coppia, ed anche la coppia gay. E’ una differenza abissale. Come ha chiarito proprio in questi giorni il Cardinale Ruini: «Tutti i diritti che si dice di voler tutelare possono benissimo essere tutelati – e in gran parte già lo sono – riconoscendoli come diritti delle persona e non delle coppie». Nel libro di Alici ci sono parole molto belle sulla famiglia naturale. Ma poi c’è il riconoscimento della convivenza, anche omosessuale. Insomma c’è il “sì… ma”. Gerarchie di valori e non di diritti, le chiama Alici, ma l’omosessualità non è un valore. Sulla base di quello che si legge nel suo libro, se domani ci fosse un nuovo Family Day, Alici non vi parteciperebbe.

Il Prof. Alici riconosce e accetta i principi non negoziabili – è inutile che qui sopra ce lo ricordi, lo abbiamo letto -, ma poi afferma (p. 30) che essi devono essere «rilegittimati, rivisitati, rettificati». Il diritto alla vita e la famiglia fondata sul matrimonio devono essere “rettificati”? E chi rettifica i Comandamenti? Alici? Ecco un altro formidabile “Sì … ma”. Ecco un’altra fessura, un’altra ambiguità.

L’Arcivescovo Crepaldi aveva quindi ragione. Inutile offendersi. Bisognava aver scritto cose diverse. Tutto il libro del Professore è costruito su dei né … né che lasciano spazio a mille compromessi. Faccio qualche esempio tra i tanti. Il contributo della fede cristiana non può essere “quello integralistico dell’egemonia e della rivalsa”, ma nemmeno “quello disincarnato del disinteresse e della diaspora” (p. 26). Il cristiano non può “arrendersi ad una visione machiavellica” ma nemmeno ad una “concezione evasivamente spiritualistica” (p. 130). Il rapporto tra fede e politica non deve né essere fatto di “nostalgie anacronistiche di regimi di cristianità perduta”, né di “forme di disimpegno sociale e scetticismo politico” (p. 132). E così via. Parlando così, ci si lascia le mani libere su quasi tutto.

Nel suo libro, Alici dice che la politica ha la «responsabilità del bene possibile» (p. 31). Questa è la Madre di tutti i “tuttavia”, la fessura di tutte le fessure. Da qui passa di tutto. Benedetto XVI aveva invece insegnato che «se il compromesso può costituire un legittimo bilanciamento di interessi particolari diversi, si trasforma in male comune ogni qualvolta comporti accordi lesivi della natura dell’uomo» (24 marzo 2007). Il bene possibile è lecito, quando si tratta del bene.Ma quando comporta la negazione di principi della legge naturale si trasforma in male comune.

La cosa decisamente inaccettabile nella replica di Alici è tuttavia la sua conclusione. Questa idea – irriverente per Benedetto XVI ma anche, e forse ancor di più, per Papa Francesco – che con quest’ultimo ci sia un “nuovo inizio” piuttosto che una continuità nella trazione, è assolutamente da respingere. Come se Papa Francesco insegnasse qualcosa di diverso da Benedetto XVI. Come se ora ci fossimo liberati di Benedetto XVI.
Nel Caminetto della settimana scorsa, l’Arcivescovo aveva preso il libro di Alici solo come esempio per fare un discorso molto più ampio e profondo, che aveva esteso all’Azione cattolica e al laicato organizzato in genere. Difficile che un laicato all’altezza nasca da queste idee.

Stefano Fontana


giovedì 4 luglio 2013

Lo Stato laico e democratico? E’ finito

Questa la tesi del filosofo Pasqualucci, nel saggio “Unita e cattolica. L'istanza etica del Risorgimento e il Rinnovamento dell'Unità d'Italia”

di Giuseppe Brienza

«Lo Stato laico democratico, sopravvissuto (per ora) al crollo del suo antagonista comunista; questo Stato che viene ancora proposto come il modello di Stato, anzitutto perché attua una democrazia fondata sulla separazione tra Chiesa e Stato (tra valori religiosi e vita civile) è in realtà arrivato ad un punto di non ritorno. Esso è sprofondato nel materialismo più crasso e non sembra più in grado di suscitare alcun ideale».

Questo è quanto conclude il filosofo e storico del diritto Paolo Pasqualucci, nel saggio “Unita e cattolica. L'istanza etica del Risorgimento e il Rinnovamento dell'Unità d'Italia”, appena edito dalla “http://www.fondazionespirito.it/Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice” nella sua collana di studi storici (“Cooperativa Nuova Cultura”, Roma 2013, pp. 102, € 11).

L’autore, già ordinario di Filosofia del Diritto nell’università di Perugia e curatore di una monumentale opera sulla “Metafisica del Soggetto” nella quale ricostruisce la dinamica che ha soggiogato la storiografia cattolica al criticismo kantiano (ne sono usciti i primi due volumi per le Edizioni Spes-Fondazione Capograssi di Roma nel 2010 e nel 2013), polemizza in questo libro con le correnti “revisionistiche” del risorgimento, neolegittimistiche e regionalistiche, ribadendo la necessità storica e morale dell'unità d'Italia. Il “rinnovamento etico” dell’Italia-nazione andrebbe però a suo avviso condotto mediante la rifondazione di uno Stato autenticamente cristiano, stante la crisi irreversibile dei valori del laicismo. «Senza contraddirsi - scrive infatti Pasqualucci -, i Cattolici possono riproporsi oggi il rinnovamento dell’unità nazionale secondo l’ideale dello Stato cristiano, che corrisponde alla concezione autenticamente cattolica dello Stato. Un ideale, un modello che in verità si dovrebbe realizzare in ogni nazione, non solo in Italia, poiché la verità rivelata dalla quale esso discende è stata predicata per la salvezza degli uomini».

Pur da posizioni cattoliche, quindi, il saggio giustifica pienamente l’unità imposta con la forza dai Savoia e da Cavour, in nome dell’istanza del riscatto morale del nostro Paese dalle plurisecolari umiliazioni ripetutamente subite dai vari “padroni” stranieri, dagli spagnoli, ai francesi alla casa d’Asburgo d’Austria.

L’originalità dello studio di Pasqualucci, comunque, come richiama lo storico Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice nella sua introduzione, risiede comunque nelle «salutari incursioni» che, dalle argomentazioni storico-filosofiche, deduce per l’analisi dell’attualità. E, quindi, principali nemici dell’Italia “unita e cattolica” di oggi, sono individuati nel saggio tanto nel movimento espropriativo delle sovranità nazionali condotto direttamente dalla tecnocrazia europea ed indirettamente dai poteri forti della globalizzazione, quanto dal secessionismo ricorrente alimentato dai fenomeni leghisti di varia estrazione. «L’unità nostra - commenta al proposito Pasqualucci - è minacciata dall’esterno e dall’interno. L’Unione europea, che a prudente avviso di molti avrebbe dovuto restare elastica Comunità; questo Superstato militarmente insistente, frutto ibrido dell’Utopia e degli interessi di potenti élites economico-finanziarie; ultralaico ed anticristiano sia nei suoi principi fondamentali che in diverse sue politiche, esercita com’era inevitabile un’azione disgregante nei confronti degli Stati nazionali che lo compongono […] All’interno, come noto, siamo minacciati dall’autonomismo-secessionismo della Lega e dei suoi surrogati ed affini».

Rinnovare l’unità italiana in uno “Stato cristiano” non significa comunque riproporre un nuovo nazionalismo, questa volte contrapposto a quello ottocentesco perché anti-massonico e cattolico-romano. L'istanza etica del risorgimento nel XXI secolo, piuttosto, secondo Pasqualucci, dovrebbe rimanere aliena da «chimeriche superiorità o “primati” da rivendicare [e] territori da conquistare», ma reagire immediatamente alla globalizzazione incalzante «con tutti i suoi mali». Tanto più in un periodo come l’attuale di crisi e disgregazione economica ed etica, «ognuno dovrebbe cercare di salvaguardare l’unità della Patria […] preoccupandosi innanzitutto di instaurarvi l’ordinamento politico e morale che piace a Dio».


martedì 2 luglio 2013

Due articoli su Paolo Zellini

Nella dialettica tra finito e infinito si rispecchia l’atto di Dio che chiama all’immensità tutte le sue creature

di Silvio Brachetta

Le speculazioni attorno alla questione dell’infinito sono disseminate per tutta l’estensione storica del pensiero umano e coinvolgono le più disparate tradizioni filosofiche, teologiche e matematiche. Due linee concettuali sono, però, rintracciabili trasversalmente alle varie scuole teoretiche e fanno capo ai due sensi tradizionali d’intendere l’infinito. C’è, nella prima tesi, l’idea di un infinito «potenziale», incompleto, inquietante, retaggio forse del timore umano dinnanzi all’incommensurabile. E c’è, al contrario, un concepire l’infinito in senso «attuale», chiuso, quasi rassicurante, che richiama invece un ritorno al finito e all’ordine delle cose.
Così Paolo Zellini, matematico e scrittore triestino, torna a parlare dell’infinito (non è la prima volta), dopo averne scritto parecchio tempo fa e con discreto successo (sette edizioni e il Premio Viareggio), nella sua “Breve storia dell’infinito” (Adelphi, 1980). Zellini, su invito dell’Associazione culturale “Studium Fidei”, ha trattato il 16 maggio scorso di “Infinito e finito nella scienza e nella filosofia” presso il Centro pastorale Paolo VI a Trieste. Il contributo del professore alla cultura è peculiare: la sua opera tende a dimostrare che è del tutto sterile (e falso), ai fini della conoscenza, considerare la matematica come una disciplina fine a se stessa, esaurita nel suo ambito tecnico-computativo. Zellini rileva come la matematica fu determinante per lo sviluppo della filosofia greca - si pensi solo a Pitagora, più filosofo che matematico, o al concetto di logos che, in origine, era legato all’azione del contare.
L’infinito, spesso contrapposto dai filosofi al numero, compare nella scuola ionica con Anassimandro - spiega Zellini - che indica come «arché» (come principio sostanziale del cosmo) l’«apeiron», l’illimitato, l’indefinito. Anassimandro apre così ad un’«idea negativa e problematica dell’infinito», assunta poi da buona parte della filosofia. Aristotele, in modo speciale, diffida dell’infinito, in quanto «pura potenza» perennemente diveniente. L’«alpha privativo» di Anassimandro (l’«a» di «apeiron») coinvolgerà, in epoca cristiana, anche la teologia, che spesso preferirà parlare di Dio in termini negativi (apofatismo): Dio come non finito (infinito), non mortale (immortale), non mutabile (immutabile), eccetera. Indicativa, a questo proposito, è la «tenebra di Dio» dello Pseudo-Dionigi o la divina «notte oscura» di san Giovanni della Croce.
In ogni caso però - a parere del professore - la tradizione biblica presenta l’infinità di Dio come sussidio al limite creaturale. Si ha, cioè, la «sensazione che il potere di Dio si esplichi all’infinito, non per generare un infinito smisurato, ma per arrivare fin dove l’infinito arriva, arginandolo e riportandolo a se». Lo si comprende, ad esempio, dal Nuovo Testamento: «avrete forza dallo Spirito Santo […] e mi sarete testimoni […] fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). Dio non intende condurre gli uomini ai confini dell’infinito per oltrepassarlo, ma per riportarli indietro presso di Lui. Questa visione «attuale» dell’infinito, sebbene più attinente ai Testi sacri, non ha inciso molto nella storia del pensiero matematico, se non per l’arco temporale che va dal secolo XVII agli inizi del XX. Con Leibnitz (scienziato e filosofo) infatti - osserva Zellini - «fa l’ingresso nella matematica l’infinito attuale», in netto contrasto con la sensibilità aristotelica. E, alla fine del secolo XIX, Cantor introduce la teoria sugli insiemi infiniti, attingendo anche alla tradizione biblica.
Nel frattempo i filosofi continuano ad essere scettici: secondo Hegel l’infinità è comunque «cattiva» e per Croce «quando il matematico si mette a calcolare smette di pensare». Non solo, ma già con Platone l’infinito è in rapporto con l’«alterità», intesa come «cosa da nulla» e, dunque, relazionabile al nulla. Per questo sant’Agostino propone di ritornare in se stessi, poiché «in interiore homine habitat veritas» - «nel profondo dell’uomo abita la verità».

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Il numero va ben oltre la semplice logica e ci apre ad una sapienza che coinvolge anche la religione

di Silvio Brachetta

Sembra scontato che la matematica sia solo una questione di calcolo. O, almeno, così hanno insegnato alla maggior parte di noi. Pitagora? Quello del teorema: «In ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è sempre equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti». Logica indiscutibile e dimostrabile. Che altro c’è da dire?
In effetti, qualcosa ci sarebbe. Stavrogin, che nei “Demonî” di Fëdor Dostoevskij si rivolge a un certo Fed’ka, esclama: «Quello sì che è un demonio calcolatore! Un ragioniere»! C’è dunque qualcosa d’aggiungere sul calcolo, ma in ambito etico ad esempio, non matematico. Dostoevskij è qui citato da Paolo Zellini nel breve saggio “La matematica del Grande Inquisitore”, (in “Adelphiana”, 2002). Sembra quasi che vi sia un nesso tra il male e la logica aritmetica. E difatti il professor Zellini si riferisce al “Grande Inquisitore” (sempre ideato da Dostoevskij) che, «nella sua requisitoria contro Cristo», denuncia il «dono divino» della «libertà di coscienza». Per l’Inquisitore, Dio ha scelto tutto ciò che v’è di «più misterioso» e «indefinito» e, per questo, agisce come se non amasse affatto l’uomo. Sorvolando sull’amore di Dio, del quale l’Inquisitore comprende poco, è interessante notare come il bene (Dio) sia qui relazionato con l’indeterminatezza. La «determinatezza» invece - fa capire Dostoevskij - è sintomatica del «male e del demoniaco» che, in fondo, si presenta «ridotto in formule, geometrizzato», così come si pianificano le stragi e le torture sovietiche.
A prescindere se Dostoevskij abbia avuto ragione o meno, qua è importante rilevare la notevole intuizione del professore: sul numero e sulla matematica, oltre il calcolo, c’è ancora molto altro (e di profondo) da dire. Soprattutto nel campo della filosofia. E Zellini lo dimostra nelle sue opere maggiori, pubblicate da Adelphi. È del 1980 la “Breve storia dell’infinito”, dove il problema è posto nella sua originale sistemazione filosofica. Nel 1985 è dato alle stampe “La ribellione del numero”. Ma perché mai, a che cosa, il numero si sarebbe dovuto ribellare? Soprattutto al tentativo di essere ingabbiato dai matematici: in epoca moderna (da Leibnitz in poi) la speculazione matematica raggiunse successi tali - calcolo infinitesimale e geometrie non euclidee - da far pensare che il mondo dei numeri non avesse un’esistenza oggettiva. Si ritenne cioè, idealisticamente, che la scoperta di un qualche sistema matematico avesse a che fare con la libera creazione umana e che le nuove teorie fossero «entità mentali», prive di contraddizione reciproca. Nel XX secolo, però, il numero si «ribellò» e rivendicò autonomia propria: fu dimostrato che tra i vari sistemi teorici sorgevano alcuni «paradossi», finché Kurt Gödel (nel 1931) provò come tali contraddizioni logiche fossero insopprimibili. Più che di calcolo, dunque, il libro sembra trattare del contrasto tra idealismo e realismo filosofico.
In “Gnomon” (1999) Zellini tratta dell’essenza del numero e dell’invarianza del mutamento, proprio come quel particolare ente geometrico (lo gnomone) che, aggiunto a una qualche figura, ne genera una simile, immutata nella forma. Nel 2010 esce “Numero e logos” dove si ritrova l’evidenza di una grandissima affinità tra il contare, il pensare e persino il pregare. Dai miti delle antiche civiltà e dai testi sacri religiosi, fino alle moderne teorie matematiche di Cantor o Dedekind, l’Autore rintraccia nel numero qualcosa che va ben oltre la semplice logica, per approdare a una sapienza che coinvolge necessariamente anche la religione.
Paolo Zellini, triestino, classe 1946, è per tutte queste ragioni, assai critico nei confronti della «scienza moderna» che, rinunciataria del logos autentico, sapienziale e religioso, «non è la semplice prosecuzione della parola biblica o del credo pitagorico, bensì la sua caricatura, […] una immane quanto inavvertita superstizione» (in “La Repubblica”, 05/05/2011). Un’altra voce autorevole, insomma, a favore di una ragione fondata sul trascendente.


lunedì 1 luglio 2013

Giovanni XXIII, visione ed eredità della “Pacem in terris” cinquant’anni dopo

di Giuseppe Brienza

Il 3 giugno di cinquant’anni fa moriva a San Pietro il Beato Giovanni XXIII. Di lui Papa Francesco, in occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della sua scomparsa, ha detto: “custodite il suo spirito, imitate la sua santità, approfondite lo studio della sua vita” (Discorso ai pellegrini della Diocesi di Bergamo, Basilica di San Pietro, 3 giugno 2013).

Raccogliendo l’invito del regnante Pontefice ripercorriamo in questo articolo alcuni spunti di quel passaggio fondamentale del Magistero di Papa Roncalli che è l’enciclica “Pacem in terris”, della quale pure nelle scorse settimane è caduto il cinquantesimo anniversario dalla promulgazione, essendo stata pubblicata l'11 aprile 1963. Pensiamo infatti sia utile approfondire lo studio della vita di Giovanni XXIII focalizzandone soprattutto l’insegnamento dottrinale, cercando così di contribuire a superare in parte quell’etichetta riduttiva di “Papa buono”, capace tutt’al più di sorridere a tutti e mandare carezze ai bambini, che non coglie appieno la profondità del suo Magistero sul soglio di Pietro. Si ricordi, infatti, che nei quattro anni e mezzo del suo Pontificato Giovanni XXIII ha scritto ben otto encicliche, delle quali la “Pacem in terris” è l’ultima, pubblicata a meno di due mesi dalla morte.

“Senza altro mezzo per ricondurre la pace, chiamiamo giusta e santa la guerra”.

Il Pontefice come noto si rivolge all’inizio dell’enciclica a «tutti gli uomini di buona volontà», credenti e non credenti, perché la Chiesa deve guardare ad un mondo senza confini, non diviso da muri o cortine. «Cerchino, tutte le nazioni, tutte le comunità politiche, il dialogo, il negoziato», scrive il Papa, convinto che bisogna sempre cercare ciò che unisce, tralasciando ciò che divide. Quando parla della guerra, Giovanni XXIII non costruisce una casistica per determinare se la si può giustificare nel caso in cui le circostanze obbligassero a farla, discostandosi in ciò con la “casistica scolastica” del passato. L’enciclica cambia del tutto il punto di vista, in chiave eminentemente pastorale: parte e parla solo della pace, «anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi» (n. 1).

Qualcuno si è chiesto perché tanto ottimismo nel Papa se il mondo, nel 1963, è ancora ostilmente diviso in due blocchi, le due superpotenze, direttamente e “per interposta persona”, si combattono in Oriente, in Vietnam ed altrove e, solo due anni prima dell’enciclica, era stato eretto il muro di Berlino, che spaccava il mondo a metà tra i Paesi del Patto di Varsavia e quelli della Nato. Conflitti e tensioni sobillate dal marxismo internazionale si diffondevano in Africa e in America latina e, su tutta la popolazione mondiale incombeva il terribile incubo nucleare. Insomma, guardando alla serie numerosa e sanguinosa dei conflitti e di minacce che hanno lacerato il mondo nell’ultimo quarantennio del secolo scorso, l’ottimismo di Giovanni XXIII non appariva certo così “razionale” o politicamente sensato ma, si sa, l’infallibilità dei Papi riguarda solo le materie della Fede e della morale.

Detto questo, sarebbe comunque utile interrogarsi su quanto ci sia di vero nel pacifismo unilaterale attribuito a Giovanni XXIII che, nel suo temperamento e formazione sacerdotale, era invece pienamente convinto della dottrina tradizionale della Chiesa sulla “guerra giusta”, quando naturalmente finalizzata alla legittima difesa. Lo ha ricordato in una recente intervista anche il pronipote, Marco Roncalli che, rispondendo ad una domanda sulla sensibilità per la “questione sociale” di Giovanni XXII, ha dichiarato: «Credo che per rispondere a questa domanda sia sufficiente riportare brevemente quanto scrisse nel 1909 sostenendo lo sciopero di Ranica [piccolo comune della provincia di Bergamo] insieme al suo vescovo: “La pace è la missione del sacerdote. Ma la pace è la tranquillità dell’ordine e ordine vuol dire rispetto della giustizia e dei diritti di ciascuno.

Noi siamo tutt’altro che amici di qualunque sciopero, ci auguriamo che questo sia l’ultimo, perché lo sciopero è la guerra, e la guerra è sempre terribile e dannosa. Ma quando non ci fosse altro mezzo per ricondurre la pace e fosse apertamente violata la giustizia, rivendichiamo il nostro diritto di dire la verità a tutti, di chiamare giusta e santa la guerra, legittimo lo sciopero, e di aiutare chi combatte per ricomporre quell’ordine sociale di cui si avvantaggiano insieme il capitale ed il lavoro”» (cit. in Fabrizio Anselmo, Giovanni XXIII, idee ed eredità cinquant’anni dopo, in Formiche.net, 8-6-2013).

La “Pacem in terris” individua comunque quattro punti cardine per orientare l'umanità sul cammino della pace: la centralità della persona inviolabile nei suoi diritti, ma titolare anche di doveri; il bene comune da perseguire e realizzare ovunque, sulla terra; il fondamento morale della politica; la forza della ragione e il faro illuminante della fede.

L’enciclica che precorre l’irrompere della globalizzazione.

Un elemento storico-politico che Giovanni XXIII vede e presenta in maniera molto lungimirante nella “Pacem in terris”, è quello dell’interdipendenza fra i sistemi socio-produttivi delle nazioni che, per vari fattori, già inizia a presentarsi così da permettere agli Stati di esercitare pressioni su determinate aree utilizzando esclusivamente mezzi economici e finanziari. Ciò permette di innescare e gestire conflitti senza il ricorso sistematico alle armi. Emergono quindi altri tipi di guerra di cui parla il Papa, quella alimentare, quella monetaria, quella dei migranti, eccetera.
Anche in tali nuove dinamiche e contesti Giovanni XXIII richiama l’insegnamento della Chiesa in materia sociale, specialmente sui testi del suo predecessore Pio XII, ma anche su quelli di Leone XIII, insistendo sull’imperativo di rispettare sempre i diritti fondamentali dell’uomo, il bene comune internazionale, l’identità delle minoranze nazionali, il diritto alla salute dei migranti e dei rifugiati politici, etc.

“I cattolici devono impegnarsi nella vita politica”, parola di Giovanni XXIII

Come ultimo spunto, quasi mai richiamato nelle presentazioni ed interpretazioni della “Pacem in terris”, riprendiamo l’invito di Giovanni XXIII ai cattolici ad impegnarsi nella vita pubblica, partecipandovi con competenza e capacità e, soprattutto, componendo l’unità interiore fra fede e azione temporale (nn. 50-57). Per questo hanno bisogno di una solida formazione cristiana, che li orienti anche sulle possibilità e limiti della loro collaborazione con i non cattolici in campo economico e sociopolitico.

Puntualizziamo su questi punti dell’enciclica perché, anche negli approfondimenti apparsi in questi ultimi mesi sulla “Pacem in terris”, non paiono essere richiamati assieme a quelli successivi (nn. 82-85), contenuti nel molto più citato quinto e ultimo capitolo del documento dedicato ai “Richiami pastorali”, nel quale si affronta sotto tale prospettiva pastorale, appunto, l’ambito dei rapporti fra cattolici e non cattolici nell’azione sociale. Ebbene, se quello che viene solitamente considerato il punto culminante di tutta l’enciclica, cioè la distinzione tra le ideologie, «false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo», e i «movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche» (n. 84), andrebbe a mio avviso richiamato il maggiore valore, perché dottrinale, dell’insegnamento prima delineato da Giovanni XXIII sull’“unità di vita” nell’azione pubblica del cattolico.

Questo anche perché sarebbe ora di consegnare alla storia il giudizio “transeunte” attribuito al Papa sul movimento storico dei popoli nei Paesi socialisti o comunisti di allora, che avrebbe potuto distinguersi dall’ideologia marxista, condannabile nei suoi principi, al fine di poter perseguire realizzazioni pratiche comuni con possibili vantaggi reali per il bene comune. Il comunismo, anche nelle sue realizzazioni storiche, sociali ed economiche, come ebbe efficacemente ad affermare fin dal 1985 l’allora cardinal Ratzinger, è stato e rimane «la vergogna del nostro secolo».


La sacra Liturgia, culmine e fonte della vita e della missione della Chiesa

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'Em.mo Autore, l'intervento tenuto dal Cardinale Malcolm Ranjith al Convegno "Sacra Liturgia 2013, culmen et fons vitæ et missionis ecclesiæ" a Roma, presso la Pontificia Università della Santa Croce, il 25 giugno 2013.

di Card. Malcolm Ranjith

Miei cari amici,

Papa Benedetto XVI nella sua Esortazione Apostolica Postsinodale 'Sacramentum Caritatis' (22 febbraio 2007) così parla della Liturgia: “Nella Liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione ... modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore” (Sacramentum Caritatis, n.35), mostrandoci la vera natura della vita liturgica cristiana che egli chiama “veritatis splendor” e “l’affacciarsi del Cielo sulla Terra” (Sacramentum Caritatis, n.35).

La bellezza della Liturgia, quindi, risiede non primariamente in ciò che facciamo noi o quanto interessante e soddisfacente essa sia per noi, bensì in quanto veniamo attratti intimamente in qualcosa di profondamente divino e liberante. La Liturgia è allora più grande di noi e ci porta con sé verso una trasformazione totale, che spesso noi non siamo in grado di comprendere pienamente. È la vittoria pasquale di Cristo celebrata nel cielo e sulla terra. A questo punto, farei un excursus biblico per mostrare quanto la missione della Chiesa, continuazione di quella di Israele, è intimamente legata alla celebrazione della sua Liturgia.

CULTO E STORIA D’ISRAELE

Uno studio attento del “perché” di Israele nella storia della salvezza indica che Dio lo ha chiamato all’esistenza e lo ha formato, per una missione di santificazione del mondo. Se consideriamo la formazione del testo, vediamo come esso ha il suo centro gravitazionale nell’antico culto d’Israele. Tutto il Pentateuco è intessuto di formule del Credo che la comunità recitava nel santuario di Gerusalemme: “Quando sarai entrato nella terra che il Signore, tuo Dio ti dà in eredità e la possederai e là ti sarai stabilito, prenderai le primizie di tutti i frutti del suolo da te raccolti nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, le metterai in una cesta e andrai al luogo che il Signore, tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi il suo nome. Ti presenterai al sacerdote in carica in quei giorni e gli dirai: «Io dichiaro oggi al Signore, tuo Dio, che sono entrato nella terra che il Signore ha giurato ai nostri padri di dare a noi». Il sacerdote prenderà la cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: «Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del suolo che tu, Signore, mi hai dato»” (Deut. 26, 1-11).
L’esegeta Gerhard Von Rad ha identificato altre forme di questa formula di fede in Deuteronomio 6, 20-24 e in Giosuè 24, 2b-13. Per quanto tale interpretazione sia stata criticamente analizzata, col tentativo dello stesso Von Rad di rendere indipendenti queste formule dalla tradizione del Sinai, lo sfondo cultuale dell’uso di tali formule, il loro influsso sulla formazione della storia delle tradizioni del Pentateuco e della vera identità di Israele, è stato generalmente riconosciuto. Ciò che è importante per noi è il fatto che ogni azione di Dio nella chiamata all’esistenza del popolo d’Israele, la sua crescita come nazione, specialmente mediante il ruolo dei patriarchi, la liberazione dalla schiavitù e il definitivo stabilirsi nella terra promessa prendendone possesso, sono state viste come qualcosa che Dio stesso ha determinato e che ha un chiaro orientamento liturgico: Israele è chiamato al culto e all’adorazione di Dio, nella sua venuta all’esistenza e nella sua destinazione. In epoca successiva, Israele assume gradualmente il compito di diventare la nazione eletta per condurre tutte le nazioni sulla terra al culto di Dio nella nuova Gerusalemme, divenendo così in tal missionario. Quest’ultimo aspetto è particolarmente visibile nei Profeti, specialmente in Isaia, che parla delle nazioni che affluiscono nella nuova Gerusalemme per rendere culto a Dio (cfr. Is. 2, 2-4; Is. 66, 18-21). Quindi il centro di gravità è veramente il ruolo d’Israele nel portare tutte le nazioni della terra al culto di Dio sul Santo Monte, a Gerusalemme.

CULTO E ALLEANZA

Questo aspetto cultuale predominante del ruolo d’Israele nella storia della salvezza è molto ben visibile anche negli eventi del Sinai. Il Cardinale Joseph Ratzinger nel suo libro "Introduzione allo Spirito della Liturgia" dimostra come il culto di Dio è il vero motivo dietro l’intera storia dell’esodo. Il futuro Papa focalizza l’attenzione sulla frase chiave usata da Mosè e Aronne che contiene le parole che il Signore stesso aveva ordinato loro di pronunciare davanti al faraone: “lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto” (Es. 7,16). Scrive il Papa a pag. 11 che “questa espressione ... viene ripetuta con leggere varianti quattro volte, vale a dire in tutti gli incontri del faraone con Mosè e Aronne (cfr. Es. 7,26; 9,1.13; 10,3). Nel corso delle trattative con il faraone lo scopo si viene poi ulteriormente concretizzando. Il faraone si mostra disposto al compromesso. Per lui il problema è quello della libertà di culto degli israeliti, cui in un primo momento acconsente nella forma seguente: “andate a sacrificare al vostro Dio, nel paese!” (Es. 8,21).

Ma Mosè, tenendo fede al comando di Dio, insiste nell’affermare che per il culto è necessario l’Esodo. Il luogo in cui andare è il deserto … dopo le piaghe successive il faraone si manifesta ancora più disponibile al compromesso. Egli ora concede che il culto abbia luogo secondo il volere della divinità, dunque nel deserto, ma vuole che a uscire siano solo gli uomini … Mosè, però non può negoziare con il sovrano straniero la modalità del culto, non può subordinarlo al compromesso politico ... per questo viene respinta anche la terza proposta di compromesso del faraone, che questa volta è disposto a concedere molto di più e acconsente che anche donne e bambini possano partire «solo restino il vostro gregge e il vostro armento» (Es. 10,24). Mosè ribatte che deve portare con sé tutto il bestiame, poiché «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore finché non arriveremo laggiù (Es. 10,26)». In tutto ciò non si parla della terra promessa: unico scopo dell’Esodo appare l’adorazione, che può avvenire solo secondo la misura di Dio, e che sfugge alle regole del gioco del compromesso politico” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, pp. 11-12).

Il Cardinale quindi prosegue affermando che il vero fine dell’esodo non era la terra o la formazione di uno stato per il popolo, ma quello di servire Dio nel luogo da Lui stesso indicato. Infatti, la semplice assegnazione della terra al popolo, o il suo raggiungere lo status di nazione, non avrebbe potuto renderlo il popolo eletto di Dio. È piuttosto la sua speciale relazione con Dio che fa del popolo ciò che esso è. Tale è anche la base dell’alleanza che Dio ha stretto con il popolo. Infatti, l’alleanza è ratificata in una cerimonia minuziosamente regolata come un momento di culto. L’alleanza quindi comprende il culto, la legge e l’etica, come il Cardinale continua a spiegare. Che questa alleanza avesse un orientamento cultuale appare chiaro quando Ratzinger presenta un’analisi della storia di Israele attraverso la chiave della sua fedeltà al servizio di Dio: “tutte le volte che Israele viene meno al giusto culto di Dio, volgendosi agli idoli - ai poteri e ai valori mondani - viene meno anche la sua libertà” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 15).

CREAZIONE E CULTO

Il fatto che la storia di salvezza nell’Antico Testamento sia immersa nelle forme della fede e del culto di Israele, è reso chiaro anche nella redazione sacerdotale del racconto della creazione, nel primo capitolo del libro della Genesi. Il suo linguaggio e lo stile sono nettamente sacerdotali e cultuali. Ma la considerazione più importante in tutto questo discorso è che esso non vuole essere uno studio scientifico o cosmologico sulle origini dell’universo e dell’uomo, ma che, alla base delle sue affermazioni, vi è la fede in Dio che essi avevano adorato e che aveva fatto con loro l’alleanza al Sinai, a far credere loro che quel loro Salvatore era anche il loro Creatore. Come Gerhard Von Rad afferma: “la fede nella creazione non è né base né obiettivo delle dichiarazioni contenute nei capitoli 1 e 2 della Genesi. Piuttosto, la posizione di entrambi gli autori, Jahvista e Sacerdotale, è fondamentalmente fede nella salvezza e nell’elezione. Essi sostengono questa fede con la testimonianza che questo Dio che ha concluso l’alleanza con Abramo e al Sinai, è anche il Creatore del mondo”(Gerhard von Rad, Genesi, SCM Press Ltd, London 1976, p.46).
Scrive il Cardinale Ratzinger nel suo libro “Introduzione allo Spirito della Liturgia”: “La creazione va verso il sabato, verso quel giorno in cui l’uomo e tutta la creazione prendono parte al riposo di Dio, alla sua libertà … schiavi e padroni in questo giorno sono uguali … se però se ne volesse dedurre che l’Antico Testamento non ha legato creazione e adorazione, che esso porta ad una mera visione della liberazione della società come scopo di tutta la storia, … si interpreterebbe erroneamente il significato del sabato. Infatti il racconto della creazione e le prescrizioni sinaitiche sul sabato provengono dalla stessa fonte; … il sabato è il segno dell’alleanza tra Dio e l’uomo; esso riassume molto bene l’essenza dell’alleanza.

A partire da qui possiamo così definire l’intenzione dei racconti di creazione: vi è creazione perché vi sia un luogo per l’alleanza che Dio vuole concludere con l’uomo. Lo scopo della creazione è l’alleanza, la storia d’amore tra Dio e l’uomo” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, pp. 21-22). Questo è chiaramente indicato anche mediante l’uso della parola ebraica “bara” che indica Dio come colui che separa gli elementi attraverso i quali il cosmo emerge dal caos ed anche, come lo stesso Cardinale precisa, “indica il processo fondamentale della storia della salvezza, vale a dire l’elezione e la separazione del puro dall’impuro, … la creazione spirituale, la creazione dell’alleanza, senza la quale il cosmo creato rimarrebbe una scatola vuota. Creazione e storia, creazione, storia e culto, stanno dunque in un rapporto di interdipendenza” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p.23).

In tutto ciò, l’affermazione di fondo è il fatto che le narrazioni bibliche e la storia di Israele hanno come obiettivo il culto e la lode dell’unico e vero Dio e la fedeltà al patto fatto con Lui sul Sinai. Israele non avrebbe potuto esistere in un modo differente da ciò che era stato chiamato a realizzare. Israele è costituito come la comunità che associa se stessa al culto celeste di Dio (Is. 6,1-4) e riceve la propria missione di diventare sorgente di salvezza per tutti gli uomini di buona volontà. Il linguaggio cultuale e l’accento posto sull’Alleanza, che deve essere fedelmente rispettato, costituiscono il filo che corre attraverso le pagine della Bibbia e della storia della salvezza. Il culto, per così dire, percorre le pagine della storia biblica conferendovi un’ottica centrata su Dio. Per ciò questa diventa non semplicemente la storia di una nazione ma la storia di una relazione, quella tra Dio e Israele. L’esistenza di Israele è per la santificazione dell’umanità per mezzo del suo rapporto d’alleanza con Dio e la sua espressione concreta, la fedele adorazione di Dio nel tempio (cfr. Is. 6, 6.18-20).

CULTO, CERTEZZA DELLA VITTORIA

Il ruolo di Israele che porta i popoli all’adorazione di Dio sulla montagna santa, nel nuovo Testamento viene portato al suo compimento da Cristo stesso. Ciò è chiaramente indicato nel libro dell’Apocalisse, dove Cristo stesso adempie il suo sommo atto sacerdotale alla presenza di Dio. In esso, Cristo, chiamato “Agnello immolato” (cfr. Ap. 5, 6. 8. 12. 13; 7, 9. 10. 14. 17; 12, 11), siede sul trono e viene adorato con inni e cantici (Ap. 5, 9-10.12.13; 4, 8.11; 7, 12; 11, 17-18, ecc) ed è acclamato da una moltitudine di eletti vestiti di bianco (cfr. Ap. 7, 12). La presentazione dello scenario celeste nell’Apocalisse mostra allora un punto di vista fortemente centrato sul culto circa gli eventi escatologici profetizzati dal veggente. Nella scena della Gerusalemme celeste, dove Dio stesso e l’Agnello sono chiamati tempio (cfr. Ap. 21, 22) che è il cielo nuovo e la terra nuova (Ap 21,1), si parla di un altare (cfr. Ap. 6,9; 8,3) con i sette candelabri d’oro (cfr. Ap. 1,12), l’incenso (cfr. Ap. 8,4) e il suono di trombe e canti; si descrive anche il rito di intronizzazione e l’adorazione dell’Agnello (cfr. cap. 5, 6-14).

Ciò che viene celebrato è il compimento di quella definitiva vittoria di Dio su Satana, del bene sul male. Gesù, l’Agnello immolato, è diventato la sorgente della salvezza che Dio compirà alla fine del tempo e che appunto è già in corso in colui nel quale ogni cosa è fatta nuova: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate ... ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap. 21, 3-5).

Questo messaggio di speranza per l’umanità si fonda sulla certezza che il culto celeste di Dio, mediante l’Agnello immolato, continua ed è la garanzia della definitiva e completa vittoria del bene sul male alla quale l’umanità tende. È questo che conferisce alla storia il significato e la direzione finale. La visione del veggente invita la Chiesa, che è la comunità dei suoi discepoli e la presenza continua di Cristo nella storia, il corpo mistico, ad essere fedele al Signore e ad essere piena di speranza che la vittoria sarà sua, nonostante il fatto che nel tempo la Chiesa sia sottoposta a un periodo di prova, poiché il culto dell’Agnello sacrificale in cielo continua e, in certo senso, emergerà gradualmente nell’esistenza umana, attraverso la vita di consacrazione o santificazione che dobbiamo seguire sulla terra, e nel modo in cui noi stessi adoriamo l’Agnello o ci associamo al Suo eterno sacrificio.

È in questo senso che Papa Benedetto ha affermato che “il nuovo tempio, non eretto da mani d’uomo, è presente, ma è al tempo stesso ancora in costruzione. Il grande gesto dell’abbraccio che viene dal Crocifisso non è ancora giunto al traguardo, ma è solo cominciato. La Liturgia cristiana è Liturgia in cammino, Liturgia del pellegrinaggio verso il cambiamento del mondo, che avverrà quando Dio sarà «tutto in tutti»” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p.47).
La Liturgia quindi vorrebbe determinare finalmente l’intero processo di autentica crescita, della trasformazione e della santificazione dell’esistenza umana. La salvezza stessa è opera propria di Dio, e la Chiesa la affretta unendosi totalmente e profondamente al suo Signore nella completa realizzazione del Suo Servizio sacerdotale e nella celebrazione di quella Liturgia celeste, qui sulla terra.

ACTIO CHRISTI

La Liturgia è prima di tutto Actio Christi, come la Costituzione Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II ha affermato: “l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo … esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado. Nella Liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla Liturgia celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo. (cfr. Ap. 21,02; Col. 3,1; Eb. 8,2)" (Sacrosanctum Concilium, nn. 7- 8).

La Mediator Dei, l’enciclica di Papa Pio XII sulla Sacra Liturgia, ha dichiarato: “La Chiesa dunque, fedele al mandato ricevuto dal Suo Fondatore, continua l’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo soprattutto con la Sacra Liturgia. Ciò fa in primo luogo all’altare, dove il sacrificio della Croce è perpetuamente rappresentato (Conc. Trid., Sess. 22, c. 1) e, con la sola differenza del modo di offrire, rinnovato (Conc. Trid., Sess. 22, c. 2); poi con i Sacramenti, che sono particolari strumenti per mezzo dei quali gli uomini partecipano alla vita soprannaturale; infine col quotidiano tributo di lodi offerto a Dio Ottimo Massimo” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 432). Ha inoltre dichiarato: “insieme con la Chiesa è presente il suo Divino Fondatore: Cristo è presente nell’augusto Sacrificio dell’altare … nei sacramenti” e “infine nelle lodi e nelle suppliche a Dio rivolte” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 449).

La Liturgia per noi nella Chiesa dunque non è solo una serie di azioni o riti, ma precisamente una persona, che è Cristo. È Cristo che rende gloria a Dio, ci invita ad unire noi stessi a Lui per essere totalmente trasformati in Lui diventando un sacrificio gradito a Dio (logikè latreìa – Rom. 12, 1-2) così che la sua missione diventi la nostra e noi diventiamo parte della Sua trasformazione, presenza santificante sulla terra. Questo è veramente il centro della vita e della missione della Chiesa, senza il quale tutto sarebbe ridotto al livello di un servizio di semplice altruismo, o ad un’associazione mondiale di benpensanti; e la priverebbe anche della sua finalità escatologica, poiché nella Liturgia la Chiesa celebra l’adesso dell’allora che porta al già e non ancora. Insomma, come per Israele, anche la vita della Chiesa diventa la storia di una relazione, quella tra Cristo e la comunità dei suoi discepoli, la cui esistenza è centrata sulla preghiera e sull’adorazione di Dio.

È questa centralità del ruolo di Cristo a rendere la Liturgia “sacra”, sottraendola alla creatività dell’uomo. La Sacramentum Caritatis afferma che “la bellezza intrinseca della Liturgia ha come soggetto proprio il Cristo” (Sacramentum Caritatis, n. 36). E Papa Benedetto XVI prosegue spiegando: “poiché la Liturgia eucaristica è essenzialmente actio Dei che ci coinvolge in Gesù per mezzo dello Spirito, il suo fondamento non è a disposizione del nostro arbitrio e non può subire il ricatto delle mode del momento” (Sacramentum Caritatis, n.37). L’enciclica Mediator Dei chiama la Liturgia il prolungamento dell’ufficio sacerdotale di Cristo; quindi ciò che realmente importa non è ciò che facciamo noi, quanto piuttosto ciò che Egli compie in noi e attraverso di noi.

ARS CELEBRANDI

Tuttavia c’è stato un momento in cui le famose parole 'ars celebrandi' sono state usate per intendere l’arte di celebrare come se si trattasse del nostro modo di celebrare bene, con stile, con l’accento posto sul ruolo del celebrante e su quello che egli fa, quasi fosse un artista che crea qualcosa dal nulla. Ma le cose stanno in un altro modo. Papa Benedetto XVI afferma: “L’ars celebrandi scaturisce dall’obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza” (Sacramentun Caritatis, n. 38). Ars dunque non significa libertà di agire secondo il nostro gusto, quanto piuttosto richiamo alla necessità di essere uniti a Cristo, il Sommo Sacerdote, nella sua celeste Liturgia, e fedele aderenza alle norme e all’interiore senso mistico della celebrazione. Ratzinger ritiene che l’ars celebrandi debba “favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle forme esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l’armonia del rito, delle vesti liturgiche, dell’arredo e del luogo sacro” (Sacramentum Caritatis, n. 40).

Questa ars è quindi intesa veramente come lo sforzo che facciamo per conformarci all’intimo senso mistico della natura celeste della Liturgia, essendo ultimamente frutto dell’azione di Dio, che si estende in e attraverso la vita umana, e porta con sé forme di espressione e linguaggi che superano la comprensione umana e i significati della comunicazione. Simboli, gesti, l’“ulteriorità” dell’atmosfera, e le parole sono in funzione dell’espressione, almeno in parte, della grandezza di ciò che sta accadendo. Il Concilio di Trento parla di questo quando afferma: “la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti … similmente ha introdotto cerimonie, come le benedizioni mistiche, le luci, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande, e per indurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo sacrificio” (Concilio di Trento, Decreto sul Sacrificio della Messa, cap. 5 in Conciliorum Oecomenicorum Decreta, Bologna 1991, pag. 734). In altre parole il simbolismo della Liturgia è il linguaggio attraverso il quale noi possiamo leggere, sperimentare, conformare noi stessi ed essere trasformati in Gesù. In quanto essa è profondamente orientata verso l’uomo e il suo linguaggio, la Liturgia ci permette di toccare il divino.

Questo non significa che ci stiamo basando su una concezione dualistica dell’uomo come semplicemente costituito di corpo e anima. Piuttosto, stiamo parlando della concezione paolina dell’uomo in quanto corpo, anima e spirito (cfr. 1 Tess. 5, 23), cioè del soma, psychè e pneuma. È nella sfera dello pneuma che la fede generata nella preghiera diventa un’energia profondamente trasformante – pneuma thes pisteos – fede sperimentata in profondità e pienezza (2 Cor. 4,13). È fede che ci spinge a camminare nella giustizia – dia pisteos gar peripatoumen – (2 Cor. 5,7). La preghiera ci orienta e ci stimola a una sorta di “intelligenza del cuore”. Anche il buddismo, ad esempio, contempla questo concetto: “sraddha” una conoscenza che stimola il cuore. Sant’Ambrogio nell’inno Splendor paternae gloriae, chiama questa particolare esperienza la sobria ebrietas che conduce a una sorta di rapimento mistico e a un senso di gioioso entusiasmo nell’essere toccati da Dio in profondità. Quando si celebra in modo giusto – secondo cioè questa particolare ars – si è in grado di essere potentemente trasformati dalla Liturgia – la metamorfosi di cui parla San Paolo in Romani 12,2.

In tal modo la nostra intera vita cristiana viene animata profondamente dall’azione di Dio che la Liturgia contiene. E così, celebrando la Liturgia in un modo che non rispecchia abbastanza questa sua nobiltà, si potrebbe privare la Chiesa del suo profondo dinamismo divino. È qui che sembra che abbiamo barcollato. Sicuramente le parole come “nobile semplicità” (Sacrosanctum Concilium, n. 34), “legittimo progresso” (Sacrosanctum Concilium, n. 23), “evitino inutili ripetizione” (Sacrosanctum Concilium, n. 34), adoperate nella Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium non sono affatto un invito a usare liberamente un’ascia sui simboli della celebrazione liturgica e i loro significati e scopi. Ad esempio, tralasciare alcune genuflessioni, benedizioni e preghiere, e ridurre o mettere da parte alcuni degli oggetti che formalmente costituiscono i requisiti e gli arredi prescritti per la celebrazione dell’Eucaristia, è stato per molti un segnale sbagliato. Ne risulta una Liturgia priva di “cuore”, cioè del proprio dinamismo interiore, riducendo tutto a una questione di “testa”.

La pressoché totale eliminazione dell’uso del latino, del canto gregoriano, di alcuni dei gesti e simboli che davano espressione alla santità di ciò che avviene all’altare, o la spogliazione dello spazio sacro di quei simboli che esprimevano gli aspetti celesti del Santissimo Sacramento, nulla di tutto questo veniva richiesto dal documento conciliare. Una lettura carente della Sacrosanctum Concilium è stata sufficiente per convincere molti di tutto ciò, ma il Concilio non chiedeva simili scelte radicali.

COERENZA LITURGICA

Per queste ragioni, la Liturgia non può essere facilmente manipolata, poiché essa si trova al centro della vita della Chiesa e della sua missione. È infatti ciò che afferma Gesù stesso quando parla alla donna Samaritana: “Ma viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità” (Gv. 4, 23). Il “culto in Spirito e Verità”, secondo l’esegeta Raymond E. Brown, intende qui il ruolo di Gesù stesso come l’adorante per eccellenza nei tempi escatologici. Gesù diviene il tempio, e il “culto in Spirito” appartiene solo a “coloro che hanno lo Spirito con il quale Dio li genera, lo Spirito con il quale Dio li genera dall’alto” (cfr. Gv. 3, 5): (Raymond E. Brown, The Gospel According to John, Doubleday & Co. Inc. New York 1966, p. 180).

Il culto nella verità viene visto anche come “coerenza”, che è ciò che Gesù esige da noi poiché egli è la Verità (Gv. 14,6). È qui che nella Liturgia la fede si trasforma in una vita coerente che San Paolo chiama la logiké latreia (Rm. 12,1). San Paolo spiega il latreia come trasformazione di vita e sacrificio gradito a Dio: “Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare (metamorphousthe) rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.” (Rm. 12, 1-2). La Liturgia è perciò non solo legata al suo aspetto celebrativo ma molto di più alla sua coerenza parenetica. La lex orandi diventa la lex credendi e la lex vivendi della comunità dei discepoli di Cristo, la Chiesa – ciò che Papa Benedetto XVI chiamava “coerenza eucaristica” (cfr. Sacramentum Caritatis, n. 83).

LATINO E LITURGIA

Riguardo all’uso del latino nella Liturgia occorre sottolineare quanto il Concilio decretava: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium, n. 36), e consentiva l’uso del vernacolare nelle letture, nelle monizioni e in alcune preghiere e canti. Naturalmente, affidava alla competente autorità ecclesiastica territoriale decidere se e in quale misura il vernacolare fosse da usare nella Liturgia, sempre tuttavia con l’approvazione della Santa Sede. Anche riguardo al canto gregoriano il Concilio è prudente in quanto, mentre apre ad altri generi di musica sacra, soprattutto la polifonia, afferma che la Chiesa “riconosce il canto gregoriano come proprio della Liturgia romana”, per cui “gli va riservato il posto principale” (Sacrosanctum Concilium, n. 116).

Tale concessione limitata del Concilio per l’uso della lingua vernacolare nella Liturgia è stata avventurosamente estesa dai riformatori; essendo il latino quasi totalmente scomparso dalla scena, esso è rimasto l’orfano più amato nella Chiesa. Dico questo non perché io sia un fanatico del latino; provengo da una terra di missione nella quale il latino non è compreso da quasi tutta la mia comunità. Ma è un errore credere che una lingua debba essere sempre compresa da tutti. La lingua, come sappiamo, è un mezzo di comunicazione di un’esperienza che, il più delle volte, e più ampia della stessa parola. Lingua e parole sono perciò secondarie e, in ordine d’importanza, vengono dopo l’esperienza e la persona. La lingua porta sempre con sé una kenosis – cioè un impoverimento nella sua espressione.

Più tale esperienza passa per la comunicazione in altre lingue, più tende a divenire sempre meno espressiva della originalità dell’avvenimento. Ad esempio, il termine “OM” nella liturgia induista è intraducibile; inoltre le religioni orientali usano una lingua che è strettamente limitata alle loro forme di preghiere e di culto: l’induismo usa il sanscrito, il buddismo il pali e l’Islam l’arabo coranico. Nessuna di queste lingue è parlata oggi, e esse vengono usate solo nella loro forma cultuale; ognuna di queste lingue è rispettata e riservata, fin dall’inizio, per l’espressione di “qualcosa che va al di là dei suoni e delle lettere”. Il giudaismo, per esempio, usa il tetragramma JHWH per indicare l’impronunciabile nome di Dio. Di per sé, le quattro lettere del sacro tetragramma non hanno sfumature linguistiche, ma costituiscono il nome santissimo di Dio nella tradizione scritta della Masora.

L’uso liturgico del latino nella Chiesa, anche se inizia attorno al IV sec., dà origine a una serie di espressioni che sono uniche e costituiscono la fede stessa della Chiesa. Il vocabolario del Credo è chiaramente pieno di espressioni in latino che sono intraducibili. Il ruolo della lex orandi nel determinare la lex credendi della Chiesa è validissimo nel caso dell’uso del latino nella Liturgia, perché la dottrina evolve spesso nell’esperienza di preghiera. Per tale ragione, un sano equilibrio tra l’uso del latino e quello del vernacolare dovrebbe essere, a mio avviso, mantenuto. La reintroduzione dell’usus antiquior fatta da Papa Benedetto XVI non era quindi un passo all’indietro, come qualcuno lo definì, ma un’iniziativa per ridare alla sacra Liturgia un senso di stupore mistico e una maniera per tentare di impedire una palese banalizzazione di ciò che è fondamentale per la vita della Chiesa.

Si deve dare onore e sostegno a tale iniziativa del Pontefice, che può condurre anche all’evoluzione di un nuovo movimento liturgico che potrebbe sfociare nella “riforma della riforma”, ardente desiderio di Papa Ratzinger. Di fatto, alcuni elementi dell’usus antiquior riflettono meglio il senso di stupore e devozione con il quale noi siamo chiamati a ri-presentare gli eventi del Calvario nelle nostre celebrazioni eucaristiche. E poiché noi accettiamo i molti sviluppi positivi del novus ordo come, per esempio, il più ampio uso del testo biblico e un maggiore spazio di partecipazione della comunità nei vari momenti della Messa, dobbiamo anche assicurare che ciò che accade sui nostri altari non perda la propria capacità di operare una vera trasformazione spirituale della comunità. Ed è per questo che si rende necessario un avvicendamento degli elementi più positivi delle due forme: cioè la “riforma della riforma”. La stessa definizione delle due forme come usus antiquior e novus ordo è per me erronea, poiché il sacrificio del Calvario non è mai antico, ma è sempre nuovo e attuale.

CONCEZIONI ERRONEE

Un altro aspetto del processo di un rinnovamento davvero profondo della Chiesa, a causa del ruolo decisivo che ha il culto nella sua vita e missione, è la necessità di purificare la Liturgia da alcune concezioni erronee che sono penetrate nell’euforia delle riforme introdotte da alcuni liturgisti dopo il Concilio – cosa che, bisogna riconoscere, non è mai stata nella mente dei padri conciliari quando approvarono la storica Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium.

a. Archeologismo

Apre la lista un genere di falso “archeologismo” che echeggiava lo slogan “torniamo alla Liturgia della Chiesa primitiva”. Si nascondeva qui l’interpretazione che soltanto ciò che si celebrava nella Liturgia del primo millennio della Chiesa fosse valido, si pensava che il ritorno a ciò facesse parte dell’aggiornamento. La Mediator Dei insegna che questa interpretazione è sbagliata: “La Liturgia dell’epoca antica è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è, a motivo soltanto della sua antichità, il migliore sia in se stesso sia in relazione ai tempi posteriori ed alle nuove condizioni verificatesi” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol 6, Bologna 1995, n. 487). Inoltre, poiché le informazioni sulla prassi liturgica nei primi secoli non sono chiaramente attestate nelle fonti scritte del tempo, il pericolo di un arbitrio semplicistico nel definire tali prassi è ancora maggiore e corre il rischio di essere pura congettura. Inoltre non è rispettoso del processo naturale di crescita delle tradizioni della Chiesa nei secoli successivi. Né è in consonanza con la fede nell’azione dello Spirito Santo lungo i secoli. Ed è oltretutto altamente pedante e irrealistico.

b. Sacerdozio ministeriale

Un’altra concezione erronea di riformismo in materia di Liturgia è la tendenza a confondere l’altare con la navata. Si osserva spesso che la distinzione essenziale nella Liturgia tra il ruolo del clero e quello dei laici è confuso a causa di una comprensione sbagliata della differenza tra l’ufficio sacerdotale di tutti i fedeli (sacerdozio comune) e l’ufficio del clero (sacerdozio ministeriale): una differenza ben spiegata nella Lumen Gentium. Questo documento chiarisce che il sacerdozio comune di tutti i battezzati è stato sempre affermato dalla Chiesa (cfr. Ap. 1,6; 1 Pt. 2,9-10; Mediator Dei, nn. 39-41; e Lumen Gentium, n. 10), così come il sacerdozio ministeriale; i quali, a loro modo, partecipano entrambi “dell’unico sacerdozio di Cristo … quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado” (Lumen Gentium, n. 10). La Costituzione liturgica del Concilio afferma che la Liturgia prevede una distinzione tra le persone “che deriva dall’ufficio liturgico e dall’ordine sacro” (Sacrosanctum Concilium, n. 32). La Mediator Dei era ancor più categorica affermando che: “Ai soli Apostoli ed a coloro che, dopo di essi, hanno ricevuto dai loro successori l’imposizione delle mani, è conferita la potestà sacerdotale” (Mediator Dei, in Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 468).

Il risultato di tale confusione di ruoli nell’epoca moderna è la tendenza a clericalizzare i laici, e a laicizzare il clero. Indice di tale confusione è la sempre maggiore rimozione delle balaustre d’altare dai nostri presbiteri e il rimanere seduti o accovacciati per terra attorno all’altare; fin troppe persone hanno preso a entrare e a circolare sul presbiterio causando distrazione e disturbo alle nostre funzioni liturgiche. La Santa Eucaristia, in tale situazione, diventa uno spettacolo, e il sacerdote uno showman. Il sacerdote non è più come nel passato – come ha scritto K. G. Rey nel suo articolo Coming of age manifestations in the Catholic Church – : “il mediatore anonimo, il primo tra i fedeli davanti a Dio e non al popolo, rappresentante di tutti, che offre con loro il sacrificio recitando prescritte preghiere. Egli oggi è una persona distinta, con caratteristiche personali, il suo personale stile di vita, con la propria faccia rivolta al popolo. Per molti sacerdoti questo cambiamento è una tentazione che non sanno gestire … diviene per loro il livello di successo del proprio potere personale e perciò l’indicatore del sentimento di sicurezza personale e di autostima” (K. G. Rey, Pubertätserscheinungeng in der Katolischen Kirche, Kritische Texte, Benzinger, vol. 4, p. 25). Il prete qui diventa l’attore principale che recita un dramma con altri attori sull’altare, e quanto più sono capaci e sensazionali, tanto più sentono di recitare bene. In uno scenario simile, il ruolo centrale di Cristo svanisce, e anche se in un primo momento tutto ciò può sembrare gradevole, alla lunga diventa estremamente banale e noioso.

c. Actuosa participatio

Un altro e diffuso orientamento liturgico male interpretato è l’actuosa participatio, termine ufficializzato dalla Sacrosanctum Concilium quando dichiara che: “È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della Liturgia” (Sacrosanctum Concilium, n.14). E continua: “A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della Liturgia” (ibidem). Purtroppo ciò ha condotto ancora di più alla distrazione e alla spettacolarità, invece che ad un autentico servizio di devozione e di pietà nella Liturgia. Nel suo libro Introduzione allo spirito della Liturgia Papa Benedetto definisce actuosa participatio come uno spirito di totale e devota assimilazione nell’azione di Cristo, Sommo Sacerdote, (cfr. Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 169s). Si chiede il Papa: “In che cosa consiste però questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile, il più spesso possibile” (Joseph Ratzinger, cit., p.167).

Ma già nella Mediator Dei Papa Pio XII spiegava quale dovesse essere la partecipazione dei fedeli al sacrificio eucaristico: “Che tutti i fedeli considerino loro principale dovere e somma dignità partecipare al Sacrificio Eucaristico non con un’assistenza passiva, negligente e distratta, ma con tale impegno e fervore da porsi in intimo contatto col Sommo Sacerdote, come dice l’Apostolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù», offrendo con Lui e per Lui, santificandosi con Lui” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 506-507). Deve esserci quindi una sorta di sinergia, uno spirito di profonda comunione tra di noi e l’Agnello, il cui divin sacrificio di lode è incessante nella Liturgia celeste. Sempre in Introduzione allo spirito della Liturgia il Cardinale Ratzinger scriveva: “Il punto è che, alla fine, venga superata la differenza tra l’actio di Cristo e la nostra, che ci sia solamente una azione, che è allo stesso tempo la sua e la nostra – la nostra per il fatto che siamo divenuti «un corpo e uno spirito»”(Introduzione allo spirito della Liturgia, p. 170).

Nell’esortazione postsinodale Sacramentum Caritatis, Papa Benedetto XVI enumera alcune delle disposizioni personali atte a realizzare tale senso di partecipazione con Cristo, quali “lo Spirito di costante conversione”, la “confessione sacramentale e digiuno”, una “maggiore consapevolezza del mistero celebrato e del suo rapporto con la vita”, la “santa comunione” nella quale siamo totalmente assimilati a Lui, ed anche il “raccoglimento e silenzio” (Sacramentum Caritatis, nn. 53-55). In breve, la participatio riguarda più l’essere che il fare, senza il quale, come scrive il Cardinale Ratzinger, noi non comprendiamo alla radice il “theo-dramma” della Liturgia, che finisce per scivolare in mera parodia (cfr. Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p.171).

E perciò necessario e urgente che la Liturgia sia presa seriamente da tutti i responsabili. Essa non è qualcosa su cui noi come comunità o come individui possiamo decidere. Poiché è Cristo che celebra nella Liturgia, essa è un’opera affidata alla Chiesa, promuove e porta a compimento la sua missione. Il Concilio Vaticano II è chiaro quando afferma che: “Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato (cfr. 1 Cor. 5,7), viene celebrato sull’altare, si rinnova l’opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l’unità dei fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr. 1 Cor. 10,17)” (Lumen Gentium, n. 3).

L’Eucaristia perciò redime l’umanità e costruisce la Chiesa, la quale diventa ciò che afferma Papa Giovanni Paolo II: “«sacramento» per l’umanità, segno e strumento della salvezza operata da Cristo … per la redenzione di tutti” (Ecclesia de Eucharistia, n.22). Il Papa continua dicendo che: “dalla perpetuazione nell’Eucaristia del sacrificio della Croce e dalla comunione col corpo e con il sangue di Cristo, la Chiesa trae la necessaria forza spirituale per compiere la sua missione. Così l’Eucaristia si pone come fonte e insieme come culmine di tutta l’evangelizzazione” (ibidem). E perciò l’Eucaristia, per la quale la comunità dei fedeli e ogni discepolo di Cristo vengono assorbiti in Lui, poiché Lui ci assume su in Sé, ci fa diventare una comunità, e così siamo chiamati a partecipare alla sua missione redentrice e diveniamo parte della comunità dei redenti essendo stati purificati da Lui.

La Chiesa, perciò, viene formata dalla Liturgia e trae da essa la forza per svolgere la sua missione sulla terra. Grazie a questo intimo legame con Cristo, Sommo Sacerdote, la Chiesa nella sua esistenza e missione si muove nel regno dell’azione salvifica di Dio. Perciò Essa non s’impegna nella missione come semplice comunità umana o associazione altruistica, ma è il canale dell’azione salvifica di Dio. L’assoluta necessità della Chiesa per la redenzione dell’umanità scaturisce da questo rapporto unico. Se non esiste questa dimensione ulteriore della Liturgia, tutto finisce come in un grande show, senza nessun effetto salvifico.

Infatti Gesù e la Chiesa, sua mistica continuazione nella storia, sono intrecciati in un’unione assimilante che col suo potere anima e porta frutto nella missione. Egli lo ha confermato quando ha promesso agli apostoli di renderli “pescatori di uomini” (Mc. 1, 17). Ha affermato che la fruttuosità missionaria sarebbe dipesa dalla comunione degli apostoli con lui come la vita e i tralci (cfr. Gv. 15,5). È con la Liturgia, e specificatamente la celebrazione dell’Eucaristia, che tale comunione si produce in modo efficace. E più la Chiesa è unita a Cristo, il che avviene in modo potentissimo nell’Eucaristia e nella celebrazione della vita liturgica, più fruttuosa sarà la sua missione poiché è Cristo e il suo eterno sacrificio che redimono il mondo, non quello che facciamo noi.

Ciò rappresenta una grave responsabilità per la Chiesa, dare il dovuto peso alla sua vita liturgica. La Chiesa lo ha annunciato a tutti lungo i secoli. Parlando delle forme rituali il Cardinale Ratzinger dice che: “Esse sono sottratte all’intervento del singolo, della singola comunità o anche di una Chiesa particolare. La non arbitrarietà è un elemento costitutivo della loro stessa natura. Esse sono espressione del fatto che nella Liturgia mi viene incontro qualcosa che non sono io a farmi da me stesso, che io entro in qualche cosa di più grande, che, ultimamente, proviene dalla Rivelazione” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 161).

Perciò la chiara richiesta della Costituzione Sacrosanctum Concilium è normativa: “Di conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica” (Sacrosanctum Concilium, n. 22). Poiché Cristo è il soggetto principale dell’azione liturgica, non spetta a noi cambiare arbitrariamente o manipolare gli orientamenti essenziali o le norme della Liturgia. Altrimenti noi non saremmo diversi da coloro che, impazienti nell’attendere Mosè scendere dalla montagna, si costruirono un vitello d’oro da adorare; si erano fatti il loro rituale, il loro pasto, le loro bevande e il “rallegrarsi recitando Dio” e le Sacre Scritture ci dicono quello che accadde loro.

Anche ai nostri tempi ci sono persone che desiderano rendere la Liturgia più interessante o appetibile; si fanno le proprie regole, correndo così il rischio di svuotare la Liturgia del suo essenziale dinamismo interiore, col risultato finale che le cosiddette forme di culto diventano alla fine insipide e noiose. Se tale improvvisazione veramente rendesse la Liturgia più efficace e interessante, allora perché con queste sperimentazioni e creatività il numero dei partecipanti la domenica è oggi caduto drasticamente? Questa è una domanda che dobbiamo affrontare con coraggio e umiltà. È giusto considerare i requisiti antropologici di una sana Liturgia, soprattutto riguardo ai simboli, alle rubriche e alla partecipazione; ma non si deve ignorare il fatto che questi non avrebbero significato senza una correlazione alla chiamata essenziale di Cristo di unirsi a Lui nella Sua incessante Azione Sacerdotale.

Cari amici,
ci sono molti altri punti che possiamo e dobbiamo considerare in materia di Liturgia e la sua centralità nella vita della Chiesa ma il tempo ci obbliga a limitare tali temi. Forse li possiamo riprendere dialogando tra noi dopo questa presentazione.

Vorrei concludere leggendovi una bella riflessione che il Santo Curato d’Ars, umile servitore dell’Eucaristia, scrisse nel suo Piccolo Catechismo sulla Santa Messa: “tutte le buone opere insieme, non eguagliano il sacrificio della Messa in quanto sono opere di uomini e la Santa Messa è opera di Dio. Il martirio non è nulla in confronto; è il sacrificio che l’uomo fa della propria vita a Dio; la Messa è il sacrificio che Dio fa all’uomo del suo corpo e del suo sangue. Oh, quanto grande è il sacerdote! Se egli lo capisse ne morirebbe … Dio gli obbedisce; dice due parole e nostro Signore scende dal cielo a questa voce e si rinchiude in una piccola ostia. Dio guarda sull’altare e dice: «quello è mio figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto». Nulla egli può rifiutare per i meriti dell’offerta di tale Vittima. Se noi avessimo fede, vedremmo Dio nascosto nel sacerdote come una luce dietro a un vetro, come a vino misto ad acqua” (The Little Catechism of the Cure’ of Ars, Tan Books and Publishers, Inc. Rockford, Illinois. USA, 1951 p. 37).

Grazie.

+ Malcolm Card. Ranjith
Arcivescovo di Colombo (Sri Lanka)

Roma, 25 giugno 2013
Pontificia Università della Santa Croce

(trad. dall'inglese a cura di d. G. Rizzieri)