Pubblichiamo, per
gentile concessione dell'Em.mo Autore, l'intervento tenuto dal Cardinale
Malcolm Ranjith al Convegno "Sacra
Liturgia 2013, culmen et fons vitæ et missionis ecclesiæ" a Roma,
presso la Pontificia Università della Santa Croce, il 25 giugno 2013.
di Card. Malcolm
Ranjith
Miei cari amici,
Papa Benedetto XVI
nella sua Esortazione Apostolica Postsinodale 'Sacramentum Caritatis' (22
febbraio 2007) così parla della Liturgia: “Nella Liturgia rifulge il Mistero
pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla
comunione ... modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci
raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e
attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore” (Sacramentum
Caritatis, n.35), mostrandoci la vera natura della vita liturgica cristiana che
egli chiama “veritatis splendor” e “l’affacciarsi del Cielo sulla Terra”
(Sacramentum Caritatis, n.35).
La bellezza della
Liturgia, quindi, risiede non primariamente in ciò che facciamo noi o quanto
interessante e soddisfacente essa sia per noi, bensì in quanto veniamo attratti
intimamente in qualcosa di profondamente divino e liberante. La Liturgia è
allora più grande di noi e ci porta con sé verso una trasformazione totale, che
spesso noi non siamo in grado di comprendere pienamente. È la vittoria pasquale
di Cristo celebrata nel cielo e sulla terra. A questo punto, farei un excursus
biblico per mostrare quanto la missione della Chiesa, continuazione di quella
di Israele, è intimamente legata alla celebrazione della sua Liturgia.
CULTO E STORIA
D’ISRAELE
Uno studio attento del
“perché” di Israele nella storia della salvezza indica che Dio lo ha chiamato
all’esistenza e lo ha formato, per una missione di santificazione del mondo. Se
consideriamo la formazione del testo, vediamo come esso ha il suo centro
gravitazionale nell’antico culto d’Israele. Tutto il Pentateuco è intessuto di
formule del Credo che la comunità recitava nel santuario di Gerusalemme:
“Quando sarai entrato nella terra che il Signore, tuo Dio ti dà in eredità e la
possederai e là ti sarai stabilito, prenderai le primizie di tutti i frutti del
suolo da te raccolti nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, le metterai in
una cesta e andrai al luogo che il Signore, tuo Dio, avrà scelto per stabilirvi
il suo nome. Ti presenterai al sacerdote in carica in quei giorni e gli dirai:
«Io dichiaro oggi al Signore, tuo Dio, che sono entrato nella terra che il
Signore ha giurato ai nostri padri di dare a noi». Il sacerdote prenderà la
cesta dalle tue mani e la deporrà davanti all’altare del Signore, tuo Dio, e tu
pronuncerai queste parole davanti al Signore tuo Dio: «Mio padre era un Arameo
errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi
diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci
umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio
dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra
umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece
uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e
operando segni e prodigi. Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra,
dove scorrono latte e miele. Ora, ecco, io presento le primizie dei frutti del
suolo che tu, Signore, mi hai dato»” (Deut. 26, 1-11).
L’esegeta Gerhard Von
Rad ha identificato altre forme di questa formula di fede in Deuteronomio 6,
20-24 e in Giosuè 24, 2b-13. Per quanto tale interpretazione sia stata
criticamente analizzata, col tentativo dello stesso Von Rad di rendere
indipendenti queste formule dalla tradizione del Sinai, lo sfondo cultuale
dell’uso di tali formule, il loro influsso sulla formazione della storia delle
tradizioni del Pentateuco e della vera identità di Israele, è stato generalmente
riconosciuto. Ciò che è importante per noi è il fatto che ogni azione di Dio
nella chiamata all’esistenza del popolo d’Israele, la sua crescita come
nazione, specialmente mediante il ruolo dei patriarchi, la liberazione dalla
schiavitù e il definitivo stabilirsi nella terra promessa prendendone possesso,
sono state viste come qualcosa che Dio stesso ha determinato e che ha un chiaro
orientamento liturgico: Israele è chiamato al culto e all’adorazione di Dio,
nella sua venuta all’esistenza e nella sua destinazione. In epoca successiva,
Israele assume gradualmente il compito di diventare la nazione eletta per
condurre tutte le nazioni sulla terra al culto di Dio nella nuova Gerusalemme,
divenendo così in tal missionario. Quest’ultimo aspetto è particolarmente
visibile nei Profeti, specialmente in Isaia, che parla delle nazioni che
affluiscono nella nuova Gerusalemme per rendere culto a Dio (cfr. Is. 2, 2-4;
Is. 66, 18-21). Quindi il centro di gravità è veramente il ruolo d’Israele nel
portare tutte le nazioni della terra al culto di Dio sul Santo Monte, a
Gerusalemme.
CULTO E ALLEANZA
Questo aspetto
cultuale predominante del ruolo d’Israele nella storia della salvezza è molto
ben visibile anche negli eventi del Sinai. Il Cardinale Joseph Ratzinger nel suo
libro "Introduzione allo Spirito della Liturgia" dimostra come il
culto di Dio è il vero motivo dietro l’intera storia dell’esodo. Il futuro Papa
focalizza l’attenzione sulla frase chiave usata da Mosè e Aronne che contiene
le parole che il Signore stesso aveva ordinato loro di pronunciare davanti al
faraone: “lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto” (Es.
7,16). Scrive il Papa a pag. 11 che “questa espressione ... viene ripetuta con
leggere varianti quattro volte, vale a dire in tutti gli incontri del faraone
con Mosè e Aronne (cfr. Es. 7,26; 9,1.13; 10,3). Nel corso delle trattative con
il faraone lo scopo si viene poi ulteriormente concretizzando. Il faraone si
mostra disposto al compromesso. Per lui il problema è quello della libertà di
culto degli israeliti, cui in un primo momento acconsente nella forma seguente:
“andate a sacrificare al vostro Dio, nel paese!” (Es. 8,21).
Ma Mosè, tenendo fede
al comando di Dio, insiste nell’affermare che per il culto è necessario
l’Esodo. Il luogo in cui andare è il deserto … dopo le piaghe successive il
faraone si manifesta ancora più disponibile al compromesso. Egli ora concede
che il culto abbia luogo secondo il volere della divinità, dunque nel deserto,
ma vuole che a uscire siano solo gli uomini … Mosè, però non può negoziare con
il sovrano straniero la modalità del culto, non può subordinarlo al compromesso
politico ... per questo viene respinta anche la terza proposta di compromesso
del faraone, che questa volta è disposto a concedere molto di più e acconsente
che anche donne e bambini possano partire «solo restino il vostro gregge e il
vostro armento» (Es. 10,24). Mosè ribatte che deve portare con sé tutto il
bestiame, poiché «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore finché non
arriveremo laggiù (Es. 10,26)». In tutto ciò non si parla della terra promessa:
unico scopo dell’Esodo appare l’adorazione, che può avvenire solo secondo la
misura di Dio, e che sfugge alle regole del gioco del compromesso politico”
(Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San
Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, pp. 11-12).
Il Cardinale quindi
prosegue affermando che il vero fine dell’esodo non era la terra o la
formazione di uno stato per il popolo, ma quello di servire Dio nel luogo da
Lui stesso indicato. Infatti, la semplice assegnazione della terra al popolo, o
il suo raggiungere lo status di nazione, non avrebbe potuto renderlo il popolo
eletto di Dio. È piuttosto la sua speciale relazione con Dio che fa del popolo
ciò che esso è. Tale è anche la base dell’alleanza che Dio ha stretto con il
popolo. Infatti, l’alleanza è ratificata in una cerimonia minuziosamente
regolata come un momento di culto. L’alleanza quindi comprende il culto, la
legge e l’etica, come il Cardinale continua a spiegare. Che questa alleanza
avesse un orientamento cultuale appare chiaro quando Ratzinger presenta
un’analisi della storia di Israele attraverso la chiave della sua fedeltà al
servizio di Dio: “tutte le volte che Israele viene meno al giusto culto di Dio,
volgendosi agli idoli - ai poteri e ai valori mondani - viene meno anche la sua
libertà” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni
San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 15).
CREAZIONE E CULTO
Il fatto che la storia
di salvezza nell’Antico Testamento sia immersa nelle forme della fede e del
culto di Israele, è reso chiaro anche nella redazione sacerdotale del racconto
della creazione, nel primo capitolo del libro della Genesi. Il suo linguaggio e
lo stile sono nettamente sacerdotali e cultuali. Ma la considerazione più
importante in tutto questo discorso è che esso non vuole essere uno studio
scientifico o cosmologico sulle origini dell’universo e dell’uomo, ma che, alla
base delle sue affermazioni, vi è la fede in Dio che essi avevano adorato e che
aveva fatto con loro l’alleanza al Sinai, a far credere loro che quel loro
Salvatore era anche il loro Creatore. Come Gerhard Von Rad afferma: “la fede
nella creazione non è né base né obiettivo delle dichiarazioni contenute nei
capitoli 1 e 2 della Genesi. Piuttosto, la posizione di entrambi gli autori,
Jahvista e Sacerdotale, è fondamentalmente fede nella salvezza e nell’elezione.
Essi sostengono questa fede con la testimonianza che questo Dio che ha concluso
l’alleanza con Abramo e al Sinai, è anche il Creatore del mondo”(Gerhard von
Rad, Genesi, SCM Press Ltd, London 1976, p.46).
Scrive il Cardinale
Ratzinger nel suo libro “Introduzione allo Spirito della Liturgia”: “La
creazione va verso il sabato, verso quel giorno in cui l’uomo e tutta la
creazione prendono parte al riposo di Dio, alla sua libertà … schiavi e padroni
in questo giorno sono uguali … se però se ne volesse dedurre che l’Antico
Testamento non ha legato creazione e adorazione, che esso porta ad una mera
visione della liberazione della società come scopo di tutta la storia, … si
interpreterebbe erroneamente il significato del sabato. Infatti il racconto
della creazione e le prescrizioni sinaitiche sul sabato provengono dalla stessa
fonte; … il sabato è il segno dell’alleanza tra Dio e l’uomo; esso riassume
molto bene l’essenza dell’alleanza.
A partire da qui
possiamo così definire l’intenzione dei racconti di creazione: vi è creazione
perché vi sia un luogo per l’alleanza che Dio vuole concludere con l’uomo. Lo
scopo della creazione è l’alleanza, la storia d’amore tra Dio e l’uomo” (Joseph
Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo, 2001, pp. 21-22). Questo è chiaramente indicato anche
mediante l’uso della parola ebraica “bara” che indica Dio come colui che separa
gli elementi attraverso i quali il cosmo emerge dal caos ed anche, come lo
stesso Cardinale precisa, “indica il processo fondamentale della storia della
salvezza, vale a dire l’elezione e la separazione del puro dall’impuro, … la
creazione spirituale, la creazione dell’alleanza, senza la quale il cosmo
creato rimarrebbe una scatola vuota. Creazione e storia, creazione, storia e
culto, stanno dunque in un rapporto di interdipendenza” (Joseph Ratzinger,
Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello
Balsamo, 2001, p.23).
In tutto ciò,
l’affermazione di fondo è il fatto che le narrazioni bibliche e la storia di
Israele hanno come obiettivo il culto e la lode dell’unico e vero Dio e la fedeltà
al patto fatto con Lui sul Sinai. Israele non avrebbe potuto esistere in un
modo differente da ciò che era stato chiamato a realizzare. Israele è
costituito come la comunità che associa se stessa al culto celeste di Dio (Is.
6,1-4) e riceve la propria missione di diventare sorgente di salvezza per tutti
gli uomini di buona volontà. Il linguaggio cultuale e l’accento posto
sull’Alleanza, che deve essere fedelmente rispettato, costituiscono il filo che
corre attraverso le pagine della Bibbia e della storia della salvezza. Il
culto, per così dire, percorre le pagine della storia biblica conferendovi
un’ottica centrata su Dio. Per ciò questa diventa non semplicemente la storia
di una nazione ma la storia di una relazione, quella tra Dio e Israele.
L’esistenza di Israele è per la santificazione dell’umanità per mezzo del suo
rapporto d’alleanza con Dio e la sua espressione concreta, la fedele adorazione
di Dio nel tempio (cfr. Is. 6, 6.18-20).
CULTO, CERTEZZA DELLA
VITTORIA
Il ruolo di Israele
che porta i popoli all’adorazione di Dio sulla montagna santa, nel nuovo
Testamento viene portato al suo compimento da Cristo stesso. Ciò è chiaramente
indicato nel libro dell’Apocalisse, dove Cristo stesso adempie il suo sommo
atto sacerdotale alla presenza di Dio. In esso, Cristo, chiamato “Agnello
immolato” (cfr. Ap. 5, 6. 8. 12. 13; 7, 9. 10. 14. 17; 12, 11), siede sul trono
e viene adorato con inni e cantici (Ap. 5, 9-10.12.13; 4, 8.11; 7, 12; 11,
17-18, ecc) ed è acclamato da una moltitudine di eletti vestiti di bianco (cfr.
Ap. 7, 12). La presentazione dello scenario celeste nell’Apocalisse mostra
allora un punto di vista fortemente centrato sul culto circa gli eventi
escatologici profetizzati dal veggente. Nella scena della Gerusalemme celeste,
dove Dio stesso e l’Agnello sono chiamati tempio (cfr. Ap. 21, 22) che è il
cielo nuovo e la terra nuova (Ap 21,1), si parla di un altare (cfr. Ap. 6,9;
8,3) con i sette candelabri d’oro (cfr. Ap. 1,12), l’incenso (cfr. Ap. 8,4) e
il suono di trombe e canti; si descrive anche il rito di intronizzazione e
l’adorazione dell’Agnello (cfr. cap. 5, 6-14).
Ciò che viene
celebrato è il compimento di quella definitiva vittoria di Dio su Satana, del
bene sul male. Gesù, l’Agnello immolato, è diventato la sorgente della salvezza
che Dio compirà alla fine del tempo e che appunto è già in corso in colui nel
quale ogni cosa è fatta nuova: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli
abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il
loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate ... ecco,
io faccio nuove tutte le cose” (Ap. 21, 3-5).
Questo messaggio di
speranza per l’umanità si fonda sulla certezza che il culto celeste di Dio,
mediante l’Agnello immolato, continua ed è la garanzia della definitiva e
completa vittoria del bene sul male alla quale l’umanità tende. È questo che
conferisce alla storia il significato e la direzione finale. La visione del
veggente invita la Chiesa, che è la comunità dei suoi discepoli e la presenza
continua di Cristo nella storia, il corpo mistico, ad essere fedele al Signore
e ad essere piena di speranza che la vittoria sarà sua, nonostante il fatto che
nel tempo la Chiesa sia sottoposta a un periodo di prova, poiché il culto
dell’Agnello sacrificale in cielo continua e, in certo senso, emergerà
gradualmente nell’esistenza umana, attraverso la vita di consacrazione o
santificazione che dobbiamo seguire sulla terra, e nel modo in cui noi stessi
adoriamo l’Agnello o ci associamo al Suo eterno sacrificio.
È in questo senso che
Papa Benedetto ha affermato che “il nuovo tempio, non eretto da mani d’uomo, è
presente, ma è al tempo stesso ancora in costruzione. Il grande gesto
dell’abbraccio che viene dal Crocifisso non è ancora giunto al traguardo, ma è
solo cominciato. La Liturgia cristiana è Liturgia in cammino, Liturgia del
pellegrinaggio verso il cambiamento del mondo, che avverrà quando Dio sarà
«tutto in tutti»” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia,
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p.47).
La Liturgia quindi
vorrebbe determinare finalmente l’intero processo di autentica crescita, della
trasformazione e della santificazione dell’esistenza umana. La salvezza stessa
è opera propria di Dio, e la Chiesa la affretta unendosi totalmente e
profondamente al suo Signore nella completa realizzazione del Suo Servizio
sacerdotale e nella celebrazione di quella Liturgia celeste, qui sulla terra.
ACTIO CHRISTI
La Liturgia è prima di
tutto Actio Christi, come la Costituzione Sacrosanctum Concilium del Concilio
Vaticano II ha affermato: “l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù
Cristo … esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue
membra. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote
e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra
azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso
grado. Nella Liturgia terrena noi partecipiamo per anticipazione alla Liturgia
celeste che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale
tendiamo come pellegrini, dove Cristo siede alla destra di Dio quale ministro
del santuario e del vero tabernacolo. (cfr. Ap. 21,02; Col. 3,1; Eb. 8,2)"
(Sacrosanctum Concilium, nn. 7- 8).
La Mediator Dei,
l’enciclica di Papa Pio XII sulla Sacra Liturgia, ha dichiarato: “La Chiesa
dunque, fedele al mandato ricevuto dal Suo Fondatore, continua l’ufficio
sacerdotale di Gesù Cristo soprattutto con la Sacra Liturgia. Ciò fa in primo
luogo all’altare, dove il sacrificio della Croce è perpetuamente rappresentato
(Conc. Trid., Sess. 22, c. 1) e, con la sola differenza del modo di offrire,
rinnovato (Conc. Trid., Sess. 22, c. 2); poi con i Sacramenti, che sono
particolari strumenti per mezzo dei quali gli uomini partecipano alla vita
soprannaturale; infine col quotidiano tributo di lodi offerto a Dio Ottimo
Massimo” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 432).
Ha inoltre dichiarato: “insieme con la Chiesa è presente il suo Divino
Fondatore: Cristo è presente nell’augusto Sacrificio dell’altare … nei
sacramenti” e “infine nelle lodi e nelle suppliche a Dio rivolte” (Mediator
Dei, Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 449).
La Liturgia per noi
nella Chiesa dunque non è solo una serie di azioni o riti, ma precisamente una
persona, che è Cristo. È Cristo che rende gloria a Dio, ci invita ad unire noi
stessi a Lui per essere totalmente trasformati in Lui diventando un sacrificio
gradito a Dio (logikè latreìa – Rom. 12, 1-2) così che la sua missione diventi
la nostra e noi diventiamo parte della Sua trasformazione, presenza
santificante sulla terra. Questo è veramente il centro della vita e della
missione della Chiesa, senza il quale tutto sarebbe ridotto al livello di un
servizio di semplice altruismo, o ad un’associazione mondiale di benpensanti; e
la priverebbe anche della sua finalità escatologica, poiché nella Liturgia la
Chiesa celebra l’adesso dell’allora che porta al già e non ancora. Insomma,
come per Israele, anche la vita della Chiesa diventa la storia di una
relazione, quella tra Cristo e la comunità dei suoi discepoli, la cui esistenza
è centrata sulla preghiera e sull’adorazione di Dio.
È questa centralità
del ruolo di Cristo a rendere la Liturgia “sacra”, sottraendola alla creatività
dell’uomo. La Sacramentum Caritatis afferma che “la bellezza intrinseca della
Liturgia ha come soggetto proprio il Cristo” (Sacramentum Caritatis, n. 36). E
Papa Benedetto XVI prosegue spiegando: “poiché la Liturgia eucaristica è
essenzialmente actio Dei che ci coinvolge in Gesù per mezzo dello Spirito, il
suo fondamento non è a disposizione del nostro arbitrio e non può subire il
ricatto delle mode del momento” (Sacramentum Caritatis, n.37). L’enciclica
Mediator Dei chiama la Liturgia il prolungamento dell’ufficio sacerdotale di
Cristo; quindi ciò che realmente importa non è ciò che facciamo noi, quanto
piuttosto ciò che Egli compie in noi e attraverso di noi.
ARS CELEBRANDI
Tuttavia c’è stato un
momento in cui le famose parole 'ars celebrandi' sono state usate per intendere
l’arte di celebrare come se si trattasse del nostro modo di celebrare bene, con
stile, con l’accento posto sul ruolo del celebrante e su quello che egli fa,
quasi fosse un artista che crea qualcosa dal nulla. Ma le cose stanno in un
altro modo. Papa Benedetto XVI afferma: “L’ars celebrandi scaturisce
dall’obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza”
(Sacramentun Caritatis, n. 38). Ars dunque non significa libertà di agire
secondo il nostro gusto, quanto piuttosto richiamo alla necessità di essere
uniti a Cristo, il Sommo Sacerdote, nella sua celeste Liturgia, e fedele
aderenza alle norme e all’interiore senso mistico della celebrazione. Ratzinger
ritiene che l’ars celebrandi debba “favorire il senso del sacro e l’utilizzo di
quelle forme esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l’armonia
del rito, delle vesti liturgiche, dell’arredo e del luogo sacro” (Sacramentum Caritatis,
n. 40).
Questa ars è quindi
intesa veramente come lo sforzo che facciamo per conformarci all’intimo senso
mistico della natura celeste della Liturgia, essendo ultimamente frutto
dell’azione di Dio, che si estende in e attraverso la vita umana, e porta con
sé forme di espressione e linguaggi che superano la comprensione umana e i
significati della comunicazione. Simboli, gesti, l’“ulteriorità”
dell’atmosfera, e le parole sono in funzione dell’espressione, almeno in parte,
della grandezza di ciò che sta accadendo. Il Concilio di Trento parla di questo
quando afferma: “la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla
meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa
come pia madre ha stabilito alcuni riti … similmente ha introdotto cerimonie,
come le benedizioni mistiche, le luci, gli incensi, le vesti e molti altri
elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, per rendere
più evidente la maestà di un sacrificio così grande, e per indurre le menti dei
fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla
contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo sacrificio” (Concilio di
Trento, Decreto sul Sacrificio della Messa, cap. 5 in Conciliorum Oecomenicorum
Decreta, Bologna 1991, pag. 734). In altre parole il simbolismo della Liturgia
è il linguaggio attraverso il quale noi possiamo leggere, sperimentare,
conformare noi stessi ed essere trasformati in Gesù. In quanto essa è
profondamente orientata verso l’uomo e il suo linguaggio, la Liturgia ci
permette di toccare il divino.
Questo non significa
che ci stiamo basando su una concezione dualistica dell’uomo come semplicemente
costituito di corpo e anima. Piuttosto, stiamo parlando della concezione
paolina dell’uomo in quanto corpo, anima e spirito (cfr. 1 Tess. 5, 23), cioè
del soma, psychè e pneuma. È nella sfera dello pneuma che la fede generata
nella preghiera diventa un’energia profondamente trasformante – pneuma thes
pisteos – fede sperimentata in profondità e pienezza (2 Cor. 4,13). È fede che
ci spinge a camminare nella giustizia – dia pisteos gar peripatoumen – (2 Cor.
5,7). La preghiera ci orienta e ci stimola a una sorta di “intelligenza del
cuore”. Anche il buddismo, ad esempio, contempla questo concetto: “sraddha” una
conoscenza che stimola il cuore. Sant’Ambrogio nell’inno Splendor paternae
gloriae, chiama questa particolare esperienza la sobria ebrietas che conduce a
una sorta di rapimento mistico e a un senso di gioioso entusiasmo nell’essere
toccati da Dio in profondità. Quando si celebra in modo giusto – secondo cioè
questa particolare ars – si è in grado di essere potentemente trasformati dalla
Liturgia – la metamorfosi di cui parla San Paolo in Romani 12,2.
In tal modo la nostra
intera vita cristiana viene animata profondamente dall’azione di Dio che la
Liturgia contiene. E così, celebrando la Liturgia in un modo che non rispecchia
abbastanza questa sua nobiltà, si potrebbe privare la Chiesa del suo profondo
dinamismo divino. È qui che sembra che abbiamo barcollato. Sicuramente le
parole come “nobile semplicità” (Sacrosanctum Concilium, n. 34), “legittimo
progresso” (Sacrosanctum Concilium, n. 23), “evitino inutili ripetizione”
(Sacrosanctum Concilium, n. 34), adoperate nella Costituzione conciliare
Sacrosanctum Concilium non sono affatto un invito a usare liberamente un’ascia
sui simboli della celebrazione liturgica e i loro significati e scopi. Ad
esempio, tralasciare alcune genuflessioni, benedizioni e preghiere, e ridurre o
mettere da parte alcuni degli oggetti che formalmente costituiscono i requisiti
e gli arredi prescritti per la celebrazione dell’Eucaristia, è stato per molti
un segnale sbagliato. Ne risulta una Liturgia priva di “cuore”, cioè del
proprio dinamismo interiore, riducendo tutto a una questione di “testa”.
La pressoché totale
eliminazione dell’uso del latino, del canto gregoriano, di alcuni dei gesti e
simboli che davano espressione alla santità di ciò che avviene all’altare, o la
spogliazione dello spazio sacro di quei simboli che esprimevano gli aspetti
celesti del Santissimo Sacramento, nulla di tutto questo veniva richiesto dal
documento conciliare. Una lettura carente della Sacrosanctum Concilium è stata
sufficiente per convincere molti di tutto ciò, ma il Concilio non chiedeva
simili scelte radicali.
COERENZA LITURGICA
Per queste ragioni, la
Liturgia non può essere facilmente manipolata, poiché essa si trova al centro
della vita della Chiesa e della sua missione. È infatti ciò che afferma Gesù
stesso quando parla alla donna Samaritana: “Ma viene l’ora - ed è questa - in
cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il
Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo
adorano devono adorare in spirito e verità” (Gv. 4, 23). Il “culto in Spirito e
Verità”, secondo l’esegeta Raymond E. Brown, intende qui il ruolo di Gesù
stesso come l’adorante per eccellenza nei tempi escatologici. Gesù diviene il
tempio, e il “culto in Spirito” appartiene solo a “coloro che hanno lo Spirito
con il quale Dio li genera, lo Spirito con il quale Dio li genera dall’alto”
(cfr. Gv. 3, 5): (Raymond E. Brown, The Gospel According to John, Doubleday
& Co. Inc. New York 1966, p. 180).
Il culto nella verità
viene visto anche come “coerenza”, che è ciò che Gesù esige da noi poiché egli
è la Verità (Gv. 14,6). È qui che nella Liturgia la fede si trasforma in una
vita coerente che San Paolo chiama la logiké latreia (Rm. 12,1). San Paolo
spiega il latreia come trasformazione di vita e sacrificio gradito a Dio: “Non
conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare (metamorphousthe)
rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio,
ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.” (Rm. 12, 1-2). La Liturgia è perciò
non solo legata al suo aspetto celebrativo ma molto di più alla sua coerenza
parenetica. La lex orandi diventa la lex credendi e la lex vivendi della
comunità dei discepoli di Cristo, la Chiesa – ciò che Papa Benedetto XVI
chiamava “coerenza eucaristica” (cfr. Sacramentum Caritatis, n. 83).
LATINO E LITURGIA
Riguardo all’uso del
latino nella Liturgia occorre sottolineare quanto il Concilio decretava: “L’uso
della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini”
(Sacrosanctum Concilium, n. 36), e consentiva l’uso del vernacolare nelle
letture, nelle monizioni e in alcune preghiere e canti. Naturalmente, affidava
alla competente autorità ecclesiastica territoriale decidere se e in quale
misura il vernacolare fosse da usare nella Liturgia, sempre tuttavia con l’approvazione
della Santa Sede. Anche riguardo al canto gregoriano il Concilio è prudente in
quanto, mentre apre ad altri generi di musica sacra, soprattutto la polifonia,
afferma che la Chiesa “riconosce il canto gregoriano come proprio della
Liturgia romana”, per cui “gli va riservato il posto principale” (Sacrosanctum
Concilium, n. 116).
Tale concessione
limitata del Concilio per l’uso della lingua vernacolare nella Liturgia è stata
avventurosamente estesa dai riformatori; essendo il latino quasi totalmente
scomparso dalla scena, esso è rimasto l’orfano più amato nella Chiesa. Dico
questo non perché io sia un fanatico del latino; provengo da una terra di
missione nella quale il latino non è compreso da quasi tutta la mia comunità.
Ma è un errore credere che una lingua debba essere sempre compresa da tutti. La
lingua, come sappiamo, è un mezzo di comunicazione di un’esperienza che, il più
delle volte, e più ampia della stessa parola. Lingua e parole sono perciò
secondarie e, in ordine d’importanza, vengono dopo l’esperienza e la persona.
La lingua porta sempre con sé una kenosis – cioè un impoverimento nella sua
espressione.
Più tale esperienza
passa per la comunicazione in altre lingue, più tende a divenire sempre meno
espressiva della originalità dell’avvenimento. Ad esempio, il termine “OM”
nella liturgia induista è intraducibile; inoltre le religioni orientali usano
una lingua che è strettamente limitata alle loro forme di preghiere e di culto:
l’induismo usa il sanscrito, il buddismo il pali e l’Islam l’arabo coranico.
Nessuna di queste lingue è parlata oggi, e esse vengono usate solo nella loro
forma cultuale; ognuna di queste lingue è rispettata e riservata, fin
dall’inizio, per l’espressione di “qualcosa che va al di là dei suoni e delle
lettere”. Il giudaismo, per esempio, usa il tetragramma JHWH per indicare
l’impronunciabile nome di Dio. Di per sé, le quattro lettere del sacro
tetragramma non hanno sfumature linguistiche, ma costituiscono il nome
santissimo di Dio nella tradizione scritta della Masora.
L’uso liturgico del
latino nella Chiesa, anche se inizia attorno al IV sec., dà origine a una serie
di espressioni che sono uniche e costituiscono la fede stessa della Chiesa. Il
vocabolario del Credo è chiaramente pieno di espressioni in latino che sono
intraducibili. Il ruolo della lex orandi nel determinare la lex credendi della
Chiesa è validissimo nel caso dell’uso del latino nella Liturgia, perché la
dottrina evolve spesso nell’esperienza di preghiera. Per tale ragione, un sano
equilibrio tra l’uso del latino e quello del vernacolare dovrebbe essere, a mio
avviso, mantenuto. La reintroduzione dell’usus antiquior fatta da Papa
Benedetto XVI non era quindi un passo all’indietro, come qualcuno lo definì, ma
un’iniziativa per ridare alla sacra Liturgia un senso di stupore mistico e una
maniera per tentare di impedire una palese banalizzazione di ciò che è
fondamentale per la vita della Chiesa.
Si deve dare onore e
sostegno a tale iniziativa del Pontefice, che può condurre anche all’evoluzione
di un nuovo movimento liturgico che potrebbe sfociare nella “riforma della
riforma”, ardente desiderio di Papa Ratzinger. Di fatto, alcuni elementi
dell’usus antiquior riflettono meglio il senso di stupore e devozione con il
quale noi siamo chiamati a ri-presentare gli eventi del Calvario nelle nostre
celebrazioni eucaristiche. E poiché noi accettiamo i molti sviluppi positivi
del novus ordo come, per esempio, il più ampio uso del testo biblico e un
maggiore spazio di partecipazione della comunità nei vari momenti della Messa,
dobbiamo anche assicurare che ciò che accade sui nostri altari non perda la
propria capacità di operare una vera trasformazione spirituale della comunità.
Ed è per questo che si rende necessario un avvicendamento degli elementi più
positivi delle due forme: cioè la “riforma della riforma”. La stessa
definizione delle due forme come usus antiquior e novus ordo è per me erronea,
poiché il sacrificio del Calvario non è mai antico, ma è sempre nuovo e
attuale.
CONCEZIONI ERRONEE
Un altro aspetto del processo
di un rinnovamento davvero profondo della Chiesa, a causa del ruolo decisivo
che ha il culto nella sua vita e missione, è la necessità di purificare la
Liturgia da alcune concezioni erronee che sono penetrate nell’euforia delle
riforme introdotte da alcuni liturgisti dopo il Concilio – cosa che, bisogna
riconoscere, non è mai stata nella mente dei padri conciliari quando
approvarono la storica Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium.
a. Archeologismo
Apre la lista un
genere di falso “archeologismo” che echeggiava lo slogan “torniamo alla
Liturgia della Chiesa primitiva”. Si nascondeva qui l’interpretazione che
soltanto ciò che si celebrava nella Liturgia del primo millennio della Chiesa
fosse valido, si pensava che il ritorno a ciò facesse parte dell’aggiornamento.
La Mediator Dei insegna che questa interpretazione è sbagliata: “La Liturgia
dell’epoca antica è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è,
a motivo soltanto della sua antichità, il migliore sia in se stesso sia in relazione
ai tempi posteriori ed alle nuove condizioni verificatesi” (Mediator Dei,
Enchiridion Encicliche, vol 6, Bologna 1995, n. 487). Inoltre, poiché le
informazioni sulla prassi liturgica nei primi secoli non sono chiaramente
attestate nelle fonti scritte del tempo, il pericolo di un arbitrio
semplicistico nel definire tali prassi è ancora maggiore e corre il rischio di
essere pura congettura. Inoltre non è rispettoso del processo naturale di
crescita delle tradizioni della Chiesa nei secoli successivi. Né è in
consonanza con la fede nell’azione dello Spirito Santo lungo i secoli. Ed è
oltretutto altamente pedante e irrealistico.
b. Sacerdozio
ministeriale
Un’altra concezione
erronea di riformismo in materia di Liturgia è la tendenza a confondere l’altare
con la navata. Si osserva spesso che la distinzione essenziale nella Liturgia
tra il ruolo del clero e quello dei laici è confuso a causa di una comprensione
sbagliata della differenza tra l’ufficio sacerdotale di tutti i fedeli
(sacerdozio comune) e l’ufficio del clero (sacerdozio ministeriale): una
differenza ben spiegata nella Lumen Gentium. Questo documento chiarisce che il
sacerdozio comune di tutti i battezzati è stato sempre affermato dalla Chiesa
(cfr. Ap. 1,6; 1 Pt. 2,9-10; Mediator Dei, nn. 39-41; e Lumen Gentium, n. 10),
così come il sacerdozio ministeriale; i quali, a loro modo, partecipano
entrambi “dell’unico sacerdozio di Cristo … quantunque differiscano
essenzialmente e non solo di grado” (Lumen Gentium, n. 10). La Costituzione
liturgica del Concilio afferma che la Liturgia prevede una distinzione tra le
persone “che deriva dall’ufficio liturgico e dall’ordine sacro” (Sacrosanctum
Concilium, n. 32). La Mediator Dei era ancor più categorica affermando che: “Ai
soli Apostoli ed a coloro che, dopo di essi, hanno ricevuto dai loro successori
l’imposizione delle mani, è conferita la potestà sacerdotale” (Mediator Dei, in
Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna 1995, n. 468).
Il risultato di tale
confusione di ruoli nell’epoca moderna è la tendenza a clericalizzare i laici,
e a laicizzare il clero. Indice di tale confusione è la sempre maggiore
rimozione delle balaustre d’altare dai nostri presbiteri e il rimanere seduti o
accovacciati per terra attorno all’altare; fin troppe persone hanno preso a entrare
e a circolare sul presbiterio causando distrazione e disturbo alle nostre
funzioni liturgiche. La Santa Eucaristia, in tale situazione, diventa uno
spettacolo, e il sacerdote uno showman. Il sacerdote non è più come nel passato
– come ha scritto K. G. Rey nel suo articolo Coming of age manifestations in
the Catholic Church – : “il mediatore anonimo, il primo tra i fedeli davanti a
Dio e non al popolo, rappresentante di tutti, che offre con loro il sacrificio
recitando prescritte preghiere. Egli oggi è una persona distinta, con
caratteristiche personali, il suo personale stile di vita, con la propria
faccia rivolta al popolo. Per molti sacerdoti questo cambiamento è una
tentazione che non sanno gestire … diviene per loro il livello di successo del
proprio potere personale e perciò l’indicatore del sentimento di sicurezza
personale e di autostima” (K. G. Rey, Pubertätserscheinungeng in der
Katolischen Kirche, Kritische Texte, Benzinger, vol. 4, p. 25). Il prete qui
diventa l’attore principale che recita un dramma con altri attori sull’altare,
e quanto più sono capaci e sensazionali, tanto più sentono di recitare bene. In
uno scenario simile, il ruolo centrale di Cristo svanisce, e anche se in un
primo momento tutto ciò può sembrare gradevole, alla lunga diventa estremamente
banale e noioso.
c. Actuosa
participatio
Un altro e diffuso
orientamento liturgico male interpretato è l’actuosa participatio, termine
ufficializzato dalla Sacrosanctum Concilium quando dichiara che: “È ardente
desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena,
consapevole e attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è
richiesta dalla natura stessa della Liturgia” (Sacrosanctum Concilium, n.14). E
continua: “A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata
una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della
Liturgia” (ibidem). Purtroppo ciò ha condotto ancora di più alla distrazione e
alla spettacolarità, invece che ad un autentico servizio di devozione e di
pietà nella Liturgia. Nel suo libro Introduzione allo spirito della Liturgia
Papa Benedetto definisce actuosa participatio come uno spirito di totale e
devota assimilazione nell’azione di Cristo, Sommo Sacerdote, (cfr. Joseph
Ratzinger, Introduzione allo spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo, 2001, p. 169s). Si chiede il Papa: “In che cosa consiste
però questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa
espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato
esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far
entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile, il più
spesso possibile” (Joseph Ratzinger, cit., p.167).
Ma già nella Mediator
Dei Papa Pio XII spiegava quale dovesse essere la partecipazione dei fedeli al
sacrificio eucaristico: “Che tutti i fedeli considerino loro principale dovere
e somma dignità partecipare al Sacrificio Eucaristico non con un’assistenza
passiva, negligente e distratta, ma con tale impegno e fervore da porsi in
intimo contatto col Sommo Sacerdote, come dice l’Apostolo: «Abbiate in voi gli
stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù», offrendo con Lui e per Lui,
santificandosi con Lui” (Mediator Dei, Enchiridion Encicliche, vol. 6, Bologna
1995, n. 506-507). Deve esserci quindi una sorta di sinergia, uno spirito di
profonda comunione tra di noi e l’Agnello, il cui divin sacrificio di lode è
incessante nella Liturgia celeste. Sempre in Introduzione allo spirito della
Liturgia il Cardinale Ratzinger scriveva: “Il punto è che, alla fine, venga
superata la differenza tra l’actio di Cristo e la nostra, che ci sia solamente
una azione, che è allo stesso tempo la sua e la nostra – la nostra per il fatto
che siamo divenuti «un corpo e uno spirito»”(Introduzione allo spirito della
Liturgia, p. 170).
Nell’esortazione
postsinodale Sacramentum Caritatis, Papa Benedetto XVI enumera alcune delle
disposizioni personali atte a realizzare tale senso di partecipazione con
Cristo, quali “lo Spirito di costante conversione”, la “confessione
sacramentale e digiuno”, una “maggiore consapevolezza del mistero celebrato e
del suo rapporto con la vita”, la “santa comunione” nella quale siamo
totalmente assimilati a Lui, ed anche il “raccoglimento e silenzio”
(Sacramentum Caritatis, nn. 53-55). In breve, la participatio riguarda più
l’essere che il fare, senza il quale, come scrive il Cardinale Ratzinger, noi
non comprendiamo alla radice il “theo-dramma” della Liturgia, che finisce per
scivolare in mera parodia (cfr. Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito
della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p.171).
E perciò necessario e
urgente che la Liturgia sia presa seriamente da tutti i responsabili. Essa non
è qualcosa su cui noi come comunità o come individui possiamo decidere. Poiché
è Cristo che celebra nella Liturgia, essa è un’opera affidata alla Chiesa,
promuove e porta a compimento la sua missione. Il Concilio Vaticano II è chiaro
quando afferma che: “Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale
Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato (cfr. 1 Cor. 5,7), viene
celebrato sull’altare, si rinnova l’opera della nostra redenzione. E insieme,
col sacramento del pane eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l’unità dei
fedeli, che costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr. 1 Cor. 10,17)” (Lumen
Gentium, n. 3).
L’Eucaristia perciò
redime l’umanità e costruisce la Chiesa, la quale diventa ciò che afferma Papa
Giovanni Paolo II: “«sacramento» per l’umanità, segno e strumento della
salvezza operata da Cristo … per la redenzione di tutti” (Ecclesia de
Eucharistia, n.22). Il Papa continua dicendo che: “dalla perpetuazione
nell’Eucaristia del sacrificio della Croce e dalla comunione col corpo e con il
sangue di Cristo, la Chiesa trae la necessaria forza spirituale per compiere la
sua missione. Così l’Eucaristia si pone come fonte e insieme come culmine di
tutta l’evangelizzazione” (ibidem). E perciò l’Eucaristia, per la quale la
comunità dei fedeli e ogni discepolo di Cristo vengono assorbiti in Lui, poiché
Lui ci assume su in Sé, ci fa diventare una comunità, e così siamo chiamati a
partecipare alla sua missione redentrice e diveniamo parte della comunità dei
redenti essendo stati purificati da Lui.
La Chiesa, perciò,
viene formata dalla Liturgia e trae da essa la forza per svolgere la sua
missione sulla terra. Grazie a questo intimo legame con Cristo, Sommo
Sacerdote, la Chiesa nella sua esistenza e missione si muove nel regno
dell’azione salvifica di Dio. Perciò Essa non s’impegna nella missione come
semplice comunità umana o associazione altruistica, ma è il canale dell’azione
salvifica di Dio. L’assoluta necessità della Chiesa per la redenzione
dell’umanità scaturisce da questo rapporto unico. Se non esiste questa dimensione
ulteriore della Liturgia, tutto finisce come in un grande show, senza nessun
effetto salvifico.
Infatti Gesù e la
Chiesa, sua mistica continuazione nella storia, sono intrecciati in un’unione
assimilante che col suo potere anima e porta frutto nella missione. Egli lo ha
confermato quando ha promesso agli apostoli di renderli “pescatori di uomini” (Mc.
1, 17). Ha affermato che la fruttuosità missionaria sarebbe dipesa dalla
comunione degli apostoli con lui come la vita e i tralci (cfr. Gv. 15,5). È con
la Liturgia, e specificatamente la celebrazione dell’Eucaristia, che tale
comunione si produce in modo efficace. E più la Chiesa è unita a Cristo, il che
avviene in modo potentissimo nell’Eucaristia e nella celebrazione della vita
liturgica, più fruttuosa sarà la sua missione poiché è Cristo e il suo eterno
sacrificio che redimono il mondo, non quello che facciamo noi.
Ciò rappresenta una
grave responsabilità per la Chiesa, dare il dovuto peso alla sua vita
liturgica. La Chiesa lo ha annunciato a tutti lungo i secoli. Parlando delle
forme rituali il Cardinale Ratzinger dice che: “Esse sono sottratte all’intervento
del singolo, della singola comunità o anche di una Chiesa particolare. La non
arbitrarietà è un elemento costitutivo della loro stessa natura. Esse sono
espressione del fatto che nella Liturgia mi viene incontro qualcosa che non
sono io a farmi da me stesso, che io entro in qualche cosa di più grande, che,
ultimamente, proviene dalla Rivelazione” (Joseph Ratzinger, Introduzione allo
spirito della Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2001, p. 161).
Perciò la chiara
richiesta della Costituzione Sacrosanctum Concilium è normativa: “Di
conseguenza assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua
iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica”
(Sacrosanctum Concilium, n. 22). Poiché Cristo è il soggetto principale
dell’azione liturgica, non spetta a noi cambiare arbitrariamente o manipolare
gli orientamenti essenziali o le norme della Liturgia. Altrimenti noi non
saremmo diversi da coloro che, impazienti nell’attendere Mosè scendere dalla
montagna, si costruirono un vitello d’oro da adorare; si erano fatti il loro
rituale, il loro pasto, le loro bevande e il “rallegrarsi recitando Dio” e le
Sacre Scritture ci dicono quello che accadde loro.
Anche ai nostri tempi
ci sono persone che desiderano rendere la Liturgia più interessante o
appetibile; si fanno le proprie regole, correndo così il rischio di svuotare la
Liturgia del suo essenziale dinamismo interiore, col risultato finale che le
cosiddette forme di culto diventano alla fine insipide e noiose. Se tale improvvisazione
veramente rendesse la Liturgia più efficace e interessante, allora perché con
queste sperimentazioni e creatività il numero dei partecipanti la domenica è
oggi caduto drasticamente? Questa è una domanda che dobbiamo affrontare con
coraggio e umiltà. È giusto considerare i requisiti antropologici di una sana
Liturgia, soprattutto riguardo ai simboli, alle rubriche e alla partecipazione;
ma non si deve ignorare il fatto che questi non avrebbero significato senza una
correlazione alla chiamata essenziale di Cristo di unirsi a Lui nella Sua
incessante Azione Sacerdotale.
Cari amici,
ci sono molti altri
punti che possiamo e dobbiamo considerare in materia di Liturgia e la sua
centralità nella vita della Chiesa ma il tempo ci obbliga a limitare tali temi.
Forse li possiamo riprendere dialogando tra noi dopo questa presentazione.
Vorrei concludere
leggendovi una bella riflessione che il Santo Curato d’Ars, umile servitore
dell’Eucaristia, scrisse nel suo Piccolo Catechismo sulla Santa Messa: “tutte le
buone opere insieme, non eguagliano il sacrificio della Messa in quanto sono
opere di uomini e la Santa Messa è opera di Dio. Il martirio non è nulla in
confronto; è il sacrificio che l’uomo fa della propria vita a Dio; la Messa è
il sacrificio che Dio fa all’uomo del suo corpo e del suo sangue. Oh, quanto
grande è il sacerdote! Se egli lo capisse ne morirebbe … Dio gli obbedisce;
dice due parole e nostro Signore scende dal cielo a questa voce e si rinchiude
in una piccola ostia. Dio guarda sull’altare e dice: «quello è mio figlio
diletto nel quale mi sono compiaciuto». Nulla egli può rifiutare per i meriti
dell’offerta di tale Vittima. Se noi avessimo fede, vedremmo Dio nascosto nel
sacerdote come una luce dietro a un vetro, come a vino misto ad acqua” (The
Little Catechism of the Cure’ of Ars, Tan Books and Publishers, Inc. Rockford,
Illinois. USA, 1951 p. 37).
Grazie.
+ Malcolm Card.
Ranjith
Arcivescovo di Colombo
(Sri Lanka)
Roma, 25 giugno 2013
Pontificia Università
della Santa Croce
(trad. dall'inglese a
cura di d. G. Rizzieri)