Ci si può esimere dal commentino di rito sul suicidio del
compagno Lucio Magri? E quando mai. Tanto più che il caso umano non presenta
particolari difficoltà esegetiche.
Il Magri, ovviamente, non si è ucciso: era già morto da
tempo, da molto tempo. Senza preghiera, in balìa delle proprie fantasie, lo
spirito muore. Tutt’al più il Magri sarebbe potuto resuscitare, con l’aiuto di
Dio e del prossimo. Però chi cade nel pozzo della ribellione diventa schiavo
della propria volontà e difficilmente riesce a rompere catene così forti. Per
resuscitare ci vuole umiltà, libertà, non schiavitù.
Repubblica dice:
«Anche Magri voleva volare, voleva cambiare il mondo, e il mondo degli ultimi
anni gli appariva un’insopportabile smentita della sua utopia, il segno
intollerabile di un fallimento, la constatazione amarissima della separazione
tra sé e la realtà». E se lo dice Repubblica…
Poi Sofri dice:
«“Non siamo padroni della nostra vita”. “Non siamo padroni”, questa sì che è
una bella espressione, sarebbe piaciuta anche a Lucio Magri». E se lo dice
Sofri…
Quindi Magri fu un utopista. Sognava un mondo senza padroni,
tranne lui, unico padrone della vita. Ma che padrone poi? Se avesse
davvero avuto del potere sulla vita non sarebbe morto mai.
E Dante Alighieri che dice?
«Quando si parte l’anima feroce / dal corpo ond’ella stessa
s’è disvelta, / Minòs la manda a la settima foce [settimo cerchio, secondo
girone, ndr]» (La Divina Commedia, Inferno, XIII).
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silvio
1 commento:
Ritengo il suicidio assistito una aberrazione, una cosa folle. Allo stesso tempo trovo che il caso Magri sia molto diverso da quello di Welby. Per una volta possiamo essere daccordo almeno su questo?
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