lunedì 31 dicembre 2007

Musica celestiale/2

Non so se possa essere paragonato a una musica armoniosa, ma certo anche quel “rumore” di sottofondo percepibile nell’Universo, casualmente scoperto per la prima volta nel 1965 e attribuito al Big Bang, lascia aperta l’immaginazione a ipotesi suggestive. E’ un “rumore” costante, uniforme e rilevabile in tutte le direzioni, la cui origine è ancora sconosciuta. In questo campo viene in aiuto anche la radioastronomia, che avrebbe addirittura registrato i “suoni” emessi dalle galassie evidenziando una sequenza armonica paragonabile a una vera e propria sinfonia; tutto questo in armonia – è il caso di dirlo - con alcuni passi delle Scritture in cui si parla del “canto” di Dio e dei Cieli (cfr. Messori, Pensare la Storia, Ed. Paoline pp.290-291).

Poi, se è vera l’esistenza di quella profonda interrelazione tra essere umano e macrocosmo postulata da molte filosofie e culture tradizionali, mi lascia pensoso anche una notizia divulgata recentemente, che voglio riportare per intero dal sito del Corriere della Sera:

Il Dna ha una sua «musica». Registrata per la prima volta

MILANO - La musica? Ce l' abbiamo nel Dna. E non solo virtuosi e compositori: tutti abbiamo nelle cellule un «suono della vita». A produrlo sono i movimenti del Dna, il codice custode del nostro patrimonio genetico. Una doppia elica fatta da centinaia di anse mobili che, in un continuo assemblarsi e disassemblarsi, creano una vibrazione, la trasmettono al citoscheletro e, da qui, alla superficie delle cellule. Un brusio di sottofondo genetico che per la prima volta è stato registrato e brevettato. Il merito della scoperta va a un gruppo di ricercatori italiani e statunitensi guidati da Carlo Ventura, docente di Biologia molecolare all' università di Bologna, e dal fisico James Gimzewski dell' ateneo di Los Angeles. «La vibrazione del Dna - ha spiegato Ventura - è compresa nell' arco di frequenze udibili dall' orecchio umano. Noi non abbiamo fatto altro che sviluppare un approccio in grado di rilevare questi suoni. Questi rumori sono in qualche modo specifici per quello che la cellula sta facendo, in termini di espressione di geni, in quel momento». In pratica, ogni cellula avrebbe la sua canzone. Quello che ancora non sappiamo è se, riproducendo determinate frequenze, sarà possibile indirizzare le cellule a differenziarsi e a compiere specifiche funzioni. Nessuna sorpresa per Edoardo Boncinelli: «Che tutte le molecole emettessero una vibrazione era un fatto già noto - spiega lo scienziato al Corriere -, altra cosa sarebbe scoprire se a queste vibrazioni corrispondono funzioni specifiche. Ma preferisco aspettare: finché non vedo, non credo». O magari finché non ascolta: «Mi lascia perplesso il fatto che il Dna è una molecola lunghissima: se davvero ogni funzione ha un suo suono deputato ci troveremmo di fronte a una confusione indescrivibile».

Ziino Giulia

(Il testo è tratto da qui ).


Il ricercatore parla di possibile “confusione”, ma l’impressione può essere, al contrario, quella dell’armonia nella varietà, se la ricerca futura constatasse che il brusio delle eliche produce in realtà un suono armonioso come quello della galassie in movimento. Del resto, come nota qui il genetista Giuseppe Sermonti, i geni del DNA sono disposti in una sequenza straordinariamente simile a spartiti musicali.

In definitiva, l’ovvia constatazione empirica che la musica agisce sulle corde più profonde del nostro essere, più di qualunque altra disciplina, sembrerebbe in qualche modo essere confermata da ricerche insospettabili come quella di cui riferisce il Corriere. Ricollegare la musica all’opera creatrice di Dio, come facevano gli antichi e la tradizione cristiana di sempre confortata dalle Scritture, ipotizzando l'esistenza di un riflesso di questa armonia di accordi nell’interiorità dell'essere umano, ci sembra molto suggestivo.
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Paolo

Musica celestiale/1

Il 24 marzo 1958 è una data che alla grande maggioranza delle persone dice poco o nulla. Ma è proprio in quel giorno che la corsa alla scoperta dello spazio si è arrestata per un attimo, forse di fronte al mistero e all’impossibilità umana di descriverlo. Quel giorno gli americani lanciarono l’ultimo di tre satelliti artificiali, due dei quali con nomi abbastanza significativi: Hope, L.E. e Faith, inviati l’uno dopo l’altro tra il 1955 e il 1958. Sono appunto i cinque uomini dell’equipaggio a bordo di Faith ( “Fede) e una donna su “L.E”i protagonisti di vicende che, se le deduzioni che molti fecero nei giorni successivi alla tragica conclusione dell’avventura di Hope fossero vere, potrebbero essere una conferma della cosmogonia di San Tommaso e di Dante, delle teorie dei grandi filosofi greci e anche di tradizioni culturali antichissime come quelle indiana, cinese e babilonese sulla musica generata dal movimento delle sfere celesti dei pianeti, riconducibile direttamente all’azione divina sul cosmo.

Palmer, Sough, Lasalle, Cosentino e Thompson sono i nomi di quelle persone che, nel loro ultimo istante della loro vita, potrebbero aver udito il suono celestiale della musica divina, alla cui suprema dolcezza il loro cuore non ha saputo resistere, cedendo di schianto. Un istante prima che le comunicazioni con la stazione terrestre si interrompessero per sempre, infatti, l’operatore radio Thompson pronunciò all’improvviso, nel mezzo di una conversazione di routine, parole enigmatiche rimaste in sospeso per sempre, ma tuttavia incise su nastri ancora oggi disponibili: “Damn it, but here we have got in…”. Dopodiché, un silenzio angosciante.

Questa storia è descritta poeticamente, usando al suo solito un linguaggio a metà tra la cronaca e la prosa letteraria, dallo scrittore bellunese Dino Buzzati in uno dei suoi bellissimi “Sessanta racconti”, piccoli gioielli segnati profondamente dal senso del mistero, della morte e da una forte inquietudine esistenziale espressa in forme fiabesche, fantastiche e surreali. E’proprio Buzzati, e altri con lui, a essere convinto che i satelliti “siano stati investiti dal suono a cui la nostra povera anima non resiste”: quello della musica divina che anima il cosmo. “Accidenti, ma qui siamo arrivati in Paradiso”: è questo, dice Buzzati, il logico completamento della frase di Thompson.

E’ sempre Buzzati, infatti, a ricordare che in precedenza, durante la missione di L.E., si era verificato un analogo episodio, lì per lì difficile da decifrare. Una donna, Lois Berger, uno dei tre membri dell’equipaggio, dopo aver trasmesso note sulla regolarità della temperatura e altri dati tecnici pronuncia una frase anomala: “What a sound…”; e poi, dopo un breve silenzio, “an odd…”. Ma anche qui la trasmissione si conclude bruscamente e definitivamente, segnando il destino di tre vite umane. “ Che rumore…una strana melodia”, così avrebbe potuto concludersi la frase della donna astronauta, seguendo l’ipotesi di Buzzati sugli astronauti “investiti” dalla divina melodia.

Dolci e tragiche fantasie poetiche, forse. Ma Pitagora, Platone e Aristotele, che la ragione sapevano usarla in maniera ineccepibile, non meno di tanti scienziati odierni e più di molti pseudo-scienziati, avevano intuito l’esistenza di una musica celestiale prodotta dalle sfere dei pianeti in movimento, un moto riconducibile direttamente a Dio. Dante Alighieri, in fondo, non aveva inventato quasi nulla descrivendo il Paradiso. D’altra parte è ben noto anche il fatto che Keplero, scienziato cristiano rigoroso ma anche cercatore di un significato metafisico da attribuire alla natura dell’Universo, abbia ripreso e approfondito questa teoria dell’armoniosa musica celeste.
Molto suggestiva in questo senso la riflessione sul significato riposto di alcune parole divine nel libro della Genesi (Gn 1, 1-31), per cui l’espressione “Dio disse ( tradotta anche a volte come “Dio ordinò”) andrebbe meglio resa con l’espressione “Dio cantò”, dato che pare sia questo il senso più profondo celato dietro al termine ebraico originale. Quindi, alla base dell’atto della creazione divina c’è proprio la musica. Il Verbum divino artefice della creazione si esplica quindi come canto melodioso, vera e propria musica creatrice.
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Paolo

venerdì 21 dicembre 2007

Pensiero della Domenica - 27

A cura del sito “Vie dello Spirito

Nascerà da Maria

Natale è alle porte.
L’annuncio di salvezza si fa sempre più esplicito ed insistente.
Ci viene proposto ancora un brano del profeta Isaia, che 700 anni prima di Cristo, invita il Re Acaz a chiedere un segno, ma la risposta fu: “Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore”.
Noi leggiamo la descrizione di questi fatti, come cose scontate e forse poco ci immedesimiamo nello stato d’animo di un popolo che sogna la libertà, la pace, ma non vede l’imminenza di questi eventi.

Cinque secoli prima di Cristo, il Re di Babilonia (oggi Baghdad) invase Israele e deportò tutta la popolazione in Mesopotamia. Si levò la voce del profeta Isaia che, passando tra il popolo lo incoraggiava: “...non temete, ecco il vostro Dio verrà a salvarvi…e tu Bethlehem non sei la minima tra i villaggi di Israele, perché da te nascerà il Salvatore”.

Ed ecco che entra in campo la donna dell’Avvento: Maria.
L’angelo a nome di Dio Le chiede di diventare la Madre del Messia.
“Ti saluto piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: ” non temere Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù..”.
Allora Maria disse: “Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto!”.
Straordinaria questa ragazza per equilibrio e intelligenza, che dopo un attimo di titubanza per questa visione, all’annuncio della maternità risponde con molta chiarezza che lei non ha avuto mai alcun rapporto con il suo fidanzato, Giuseppe, promesso sposo.

Alla esauriente spiegazione dell’angelo, consapevole ora che questa è la volontà di Dio, pronuncia il suo “fiat”, assenso, con tutte le conseguenze, umanamente tanto tristi, che ne conseguiranno.
Se avrai occasione di visitare qualche presepio, soffermati sull’espressione del viso della Madonna.

C’è la gioia materna e una grande serenità, nonostante la povertà e i disagi ambientali.
Adora il suo Bambino e ripete in continuazione: “L’anima mia magnifica il Signore… perché ha guardato l’umiltà della sua serva… grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e santo è il suo nome”.
Maria di Nazaret ci sostenga nel cammino che conduce a Te, Signore, perché anche in noi si compiano le tue opere e possiamo diventare strumenti di salvezza.

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Don Lucio Luzzi

martedì 18 dicembre 2007

L'evangelizzazione è un dovere sacro

Fortunatamente esiste nella Chiesa la prassi encomiabile e sistematica di portare alla conoscenza dei cristiani e del mondo le verità fondamentali della fede cattolica.
Si occupa di ciò l’azione magisteriale ordinaria, che si esprime per mezzo di tre principali tipologie di documenti: pronunciamenti petrini (del Papa), prolusioni delle Conferenze episcopali e dichiarazioni della Congregazione per la Dottrina della Fede.
In genere, i temi vengono scelti laddove c’è un maggior pericolo di fraintendimento - se non di aperto contrasto - circa il Deposito della fede (Depositum fidei), consegnato da Dio alla sua Chiesa durante la Sua gloriosa Rivelazione.

Nell’anno 2000, ad esempio, il Magistero si è trovato addirittura costretto a riaffermare con forza l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo (dichiarazione “Dominus Iesus”), perché andavano sempre più serpeggiando grossi equivoci a proposito dell’azione ecumenica.
E di nuovo ora, proprio a causa del persistere dei medesimi fraintendimenti, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha dovuto ricordare con chiarezza la seguente verità: la Chiesa non può rinunciare, per nessun motivo, alla propria azione apostolica, che consiste nell’annuncio perenne del Vangelo di Gesù Cristo.

La suddetta Congregazione esprime ciò tramite la “Nota dottrinale su alcuni aspetti dell'evangelizzazione”, data a Roma il 3 dicembre.
Vengono in essa citati i pronunciamenti più importanti, nel merito della missione apostolica “alle genti”: documenti del Concilio Vaticano II, Evangelii nuntiandi, Redemptoris missio, Novo millennio ineunte, Ut unum sint, ecc…

Il nucleo della Nota dottrinale sta nella citazione paolina relativa al sacro dovere dell’evangelizzazione: «Non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9, 16; cf. Rm 10, 14).

Il problema è in una sorta di paura da parte dei missionari e di noi tutti che dovremmo accettare con letizia il sacro ministero della Parola: «Si verifica oggi, tuttavia, una crescente confusione che induce molti a lasciare inascoltato ed inoperante il comando missionario del Signore (cf. Mt 28, 19). Spesso si ritiene che ogni tentativo di convincere altri in questioni religiose sia un limite posto alla libertà

Più avanti si elencano le caratteristiche dell’autentico ecumenismo, che prevede certamente un tempo per il «dialogo», ma anche un tempo per la «discussione teologica» ed uno per «la testimonianza e l'annuncio».
Si deve cioè, nel pieno rispetto delle libertà e convinzioni altrui e senza imposizione alcuna, dichiarare apertamente dinnanzi al mondo la salvezza che viene dall’unico Salvatore del mondo: il Dio di Gesù Cristo.
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silvio

venerdì 14 dicembre 2007

Legge 194 - bis

Avevo precedentemente pubblicato una missiva ricevuta, che difendeva questa posizione: un cattolico non può che rigettare la Legge 194 la quale, a certe condizioni, consente alla donna di abortire.
Sottolineo, a questo proposito, l’importanza di riaffermare il preciso dovere dei cattolici impegnati nella politica, che è quello di difendere le posizioni del Magistero.
E il Magistero non è a favore dei compromessi: le leggi che consentono l’omicidio (Legge 194, Legge 40 sulla fecondazione artificiale) vanno osteggiate apertamente.

Ieri su Il Foglio, a firma di Francesco Agnoli, è stato pubblicato l’ottimo articolo “La 194, una legge ipocrita” in cui si approfondisce la questione.
Il centro dell’articolo è questo: «[…] la 194 si caratterizza per essere la legge più ipocrita dell’orbe, forse proprio perché sottoscritta da cattolici».

Agnoli elenca le seguenti ipocrisie:
1) La 194 «nasce dalla sedicente volontà di combattere gli aborti clandestini, e invece diminuisce le pene previste per tale reato»;
2) «dichiara di tutelare la vita dal suo inizio» e, invece, tutela l’arbitrio di disporre della vita altrui;
3) «mette l’accento sulle possibili conseguenze psicologiche di una gravidanza, quasi fosse un’esperienza contro natura», quando invece dovrebbe «sottolineare le sue conseguenze nefaste sulla psiche e sul fisico della donna (conseguenze oggi sempre più evidenti e catalogate come psicosi post aborto, stress post aborto e sindrome abortiva)»;
4) «afferma di non concepire l’aborto come metodo di regolazione delle nascite, ma non pone nessun limite al numero degli aborti di una stessa donna»;
5) «infine nega di avere possibili esiti eugenetici, mentre in concreto permette l’eliminazione di un bambino “malato”, qualsiasi sia la sua malattia, foss’anche un labbro leporino o due dita del piede attaccate».

Aggiungo che il compito del cristiano non è simile alla prassi dei radicali - e cioè di vincere battaglie, conquistando terreno, omettendo di manifestare le vere intenzioni del proprio agire.
Il cristiano è tenuto alla testimonianza della verità, senza preoccuparsi di perdere o vincere battaglie. Così come Gesù Cristo fu sconfitto dai propri carnefici.
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Silvio

Pensiero della Domenica - 26

A cura del sito “Vie dello Spirito

16/12/2007 - III^ Avvento

Vieni Signore a salvarci

Il lento scandire del calendario liturgico è simile alla meridiana nella torre campanaria di una cittadina toscana con la scritta in mosaico, “sicut concitati equi, fugit irreparabile tempus”, il tempo corre veloce come i cavali da corsa.
Ci sembrava anacronistico già pensare al natale, ed invece l’Avvento, periodo antecedente alla grande festa per noi cristiani, si sta esaurendo.
Siamo alla III^ domenica di Avvento, ormai a pochi giorni dal traguardo liturgico della nascita di Cristo.
La Liturgia anche in questa domenica ci propone un brano di Isaia, il profeta che occupa il primo posto nel Canone, per l’importanza dei suoi vaticini, l’ampiezza della sua opera e la sublimità dello stile.
E’ vissuto 768 anni prima di Cristo, in Gerusalemme; di alto ingegno e di non comune cultura, dovette aver frequentato gli ambienti più eruditi della capitale. Sposato, ebbe almeno due figli ai quali per ordine divino impose dei nomi simbolici.

Quanto sono sconcertanti i disegni e i tempi di Dio.
Isaia invita la sua gente ad avere speranza in Dio, con la certezza di raggiungere la felicità.
“Vieni, Signore a salvarci” e la salvezza arriverà per mezzo del silenzioso Dio, dopo 700 anni, quando si farà uomo per liberare l’umanità dalla schiavitù delle forze del male.
Per vedere concretizzata questa speranza, Israele dovette attendere dei secoli!
Quanto diversa e privilegiata la nostra posizione!
Celebreremo, con il prossimo Natale, il fatto storico della avvenuta nostra salvezza, con la nascita di quel bambino che, un giorno si farà carico delle nostre colpe; passerà lui, al posto nostro, per disonesto, violento. orgoglioso, vendicativo ecc, ed accetterà l’infame condanna della croce.
Il mistero del Natale è tutto qui.

Non si ferma alla tenerezza di questo bambino, ma alla consapevolezza che il Suo sacrificio è stato segno tangibile dell’amore infinito per noi.
Ecco allora la gioia, la esultanza del Natale!
Nei tempi antichi era tanta l’attesa, che quando Giovanni Battista, il precursore, cugino di Gesù, dice alla sua gente: ”Io vi battezzo con acqua, ma viene uno più forte di me, che vi battezzerà in Spirito...”, gli dicono subito: ” Dicci che cosa dobbiamo fare..”

Ce l’abbiamo anche noi questa disponibilità?
Se prendiamo il Natale come festa, anche bella, ricorrente, passata la solennità, rimarremo quello che siamo e l’invito “gioisci… rallegrati...” ci sembrerà tanto anacronistico, per le nostre situazioni concrete.
Ripeti anche tu, in questi giorni, con il salmo responsoriale: ”Vieni, Signore a salvarci”.
Coraggio! Anche tu hai bisogno di un po’ di gioia nel cuore.
E’ il regalo di Natale che ti vuole fare Gesù bambino.
Ti verrà tanto spontaneo dire: MA E’ POSSIBILE, SIGNORE, CHE MI VUOI TANTO BENE? GRAZIE.
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Don Lucio Luzzi

martedì 11 dicembre 2007

Un libro di un cristiano di origini ebraiche

«I rabbini capi di Gerusalemme, guide spirituali delle comunità sefardita e aschenazita, hanno scritto a Papa Benedetto XVI per chiedere la modifica della preghiera del Venerdì Santo presente nell’antico messale appena liberalizzato dal Motu proprio, nel quale si prega per la conversione degli ebrei chiedendo a Dio di sottrarre “quel popolo... alle sue tenebre” e di rimuoverne “l’accecamento” (termine mutuato da una delle lettere di Paolo). Ma già prima il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, si era detto disponibile a modificare quelle parole.

Ora un libro destinato a far discutere, in libreria tra pochi giorni, riapre la questione, sostenendo che qualche ritocco sarebbe necessario anche nei testi tradizionali dell’ebraismo: Erbe amare (Bonanno Editore, pagg. 324, euro 29), di Ariel Levi di Gualdo. L’autore, giornalista e scrittore, vive in Sicilia e proviene da una famiglia di origini ebraiche convertita al cattolicesimo: per oltre dieci anni si è riavvicinato all’ebraismo frequentando le sinagoghe, studiando i testi sacri della religione israelitica e “apprendendo dall’interno quel che è il tono delle lezioni e degli insegnamenti rabbinici, assai diversi” sostiene “da quelli che sono i discorsi e le pubbliche posizioni ufficiali di circostanza”. Un’esperienza che lo ha profondamente segnato.

Nel libro, a tratti molto duro, altre volte più ironico, Levi di Gualdo contesta quella che definisce una sorta di deriva “politica” dell’ebraismo contemporaneo, le cui istanze a suo dire sarebbero oggi fatte coincidere con quelle dello Stato d’Israele in un’impropria commistione che “ha mutato il Sionismo politico nella propria vera religione”.

Alcune pagine del volume sono dedicate proprio alla contestata preghiera del Venerdì Santo, dalla quale Giovanni XXIII molto opportunamente fece togliere i riferimenti alla “perfidia” giudaica, lasciando però l’invocazione per la conversione - o meglio l’approdo finale alla fede cristiana - degli ebrei. L’autore fa notare come “nella liturgia ebraica esiste la Lode delle Diciotto Benedizioni, d’impianto risalente al IV secolo avanti Cristo”. Nel primo secolo dell’era cristiana - ricorda Levi di Gualdo - in questa preghiera si declamava: “Per gli apostati non ci sia speranza e il Regno insolente (l’impero romano, nda) venga presto sterminato nei nostri giorni. I Nazareni (i giudeo-cristiani, nda) e gli eretici periscano e siano abrasi dal libro della vita, né siano iscritti insieme ai giusti”. La preghiera, continua l’autore di Erbe amare, fu mitigata sul finire del Trecento e oggi si recita: “Possano gli apostati non avere speranza e cadere tutti in perdizione, siano presto distrutti e soggiogati i tuoi nemici dei nostri giorni”.

Levi di Gualdo, citando Israel Shahak, autore di Storia ebraica e giudaismo, “mai smentito dalle autorità rabbiniche”, sostiene che dopo il 1967 svariate sinagoghe ortodosse israeliane e americane “hanno ripristinato il testo del I secolo”. Inoltre, ricorda che nel Talmud, il libro che raccoglie l’insegnamento tradizionale dei rabbini, “si bestemmia la Madonna senza curarsi che per i cristiani è la madre di Dio”. Si tratta di racconti del Talmud babilonese, risalenti al I secolo, secondo i quali Gesù sarebbe il figlio illegittimo di una donna di malaffare e il padre naturale sarebbe il soldato romano Panthera. Testi che Levi di Gualdo fa notare essere stati scritti ben prima delle persecuzioni antiebraiche ad opera dei cristiani.

Al di là delle polemiche e delle incursioni nei libri sacri dell’ebraismo, c’è anche chi ritiene che l’antica preghiera cattolica del Venerdì Santo non vada cambiata. È quanto sostengono i teologi Nicola Bux e Salvatore Vitiello, in un articolo messo in Internet dall’agenzia Fides della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli: “La Chiesa prega per la conversione di tutti gli uomini. Oggi non pochi cattolici hanno timore della conversione e così pure gli ebrei, i quali vorrebbero che la Chiesa cattolica non sia se stessa, almeno nei loro confronti. Ora, la conversione è l’essenza del Vangelo di Gesù, e ha designato il cammino verso di lui di popoli e nazioni”.»

di Andrea Tornielli, Il Giornale, 8 settembre 2007

lunedì 10 dicembre 2007

Cantique de Jean Racine

Mentre sto partendo per la terra di Francia, musicato da Gabriel Fauré, gustatevi questo Cantico.

Verbe égal au Trés-Haut
Notre unique espérance,
Jour éternel de la terre et des cieux,
De la paisible nuit nous rompons le silence,
Divin Sauveur, jette sur nous les yeux!
Répands sur nous le feu de la grâce puissante,
que tous l'enfer fuie au son de ta voix,
Dissipe le sommeil d'une âme languisante,
qui la conduit à l'oubli de tes lois!
O Christ sois favorable à ce peuple fidèle
pour te benir maintenant rassemblé,
Reçoit les chants qu'il offre, à ta gloire immortelle,
et de tes dons qu'il retourne comblé!


sabato 8 dicembre 2007

La seconda enciclica del Papa

« SPE SALVI facti sumus » – nella speranza siamo stati salvati. E`questo l`incipit della seconda enciclica di BenedettoXVI,una lettera ricca di spunti, che si presta molto bene alla comunicazione per la sua straordinaria semplicita,`nonostante il contenuto di alto profilo teologico e filosofico, che caratterizza questi documenti.
BenedettoXVI percepisce il disagio dell`uomo contemporaneo, sazio e disperato che ormai non osa piu`sperare. Il Papa continua a presentarci il vero volto del nostro di Dio, dopo averci detto, nella sua prima enciclica ”Deus caritas est” che Dio e' amore, e da Lui proviene tutto il bene, ora ci presenta un altra verità ,quella sul misterioso desiderio di Dio che e' nell'uomo, che per questo lo apre all'infinito. Questa verità è ragionevolmente fondata, se osserviamo il nostro passare insoddisfatti da un esperienza all'altra stimolati da naturali desideri che non riusciamo ad esaudire. E' altrettanto vero che questo desiderio di Dio, è causa della nostra speranza, ma anche della nostra disperazione, se sorretto dalle nostre sole forze naturali. .L`uomo ateo in sostanza non esiste. I reperti paleontologici e archeologici ci dimostrano che questo è vero: il "genere" homo si caratterizza, sia come sapiens sia come sapiens sapiens, per il senso religioso.
l`ateismo consiste semmai nel cattivo uso della ragione e nell`aver mal riposto la nostra naturale religiosita` ,non verso il Dio cristiano, “fuori dal mondo,” ma “dentro il mondo”. In pratica, la divinizzazione della natura ,del mondo, confluisce oggi (età contemporanea) nel materialismo e nello scientismo, che è, in fondo, la divinizzazione della scienza, dello Stato, del mercato. Traggo dalla lettera del Papa una breve citazione significativa a tal proposito <<.... In questo senso il tempo moderno ha sviluppato la speranza dell'instaurazione di un mondo perfetto che, grazie alle conoscenze della scienza e ad una politica scientificamente fondata, sembrava esser diventata realizzabile. Così la speranza biblica del regno di Dio è stata rimpiazzata dalla speranza del regno dell'uomo, dalla speranza di un mondo migliore che sarebbe il vero « regno di Dio >>Ma questa speranza e` stata tradita, l'uomo moderno che si è contrapposto alla tradizione cristiana, non confidando più nella vita eterna, e ingannato dalle ideologie mondane, non ha più dove riporre la sua speranza.Ha cercato di fare del mondo un immenso monastero, dove vi fossero praticate tutte le virtù, ma quando non si rispetta la vera libertà dell'uomo, che proviene dalla grazia, lo si trasforma in una grande prigione .Anche il cristianesimo moderno ha concorso, secondo il Papa,ad alimentare questo generale “restringimento” della speranza, da quando ha smesso di giudicare il mondo, cercando di comprenderlo nel tentativo anche in buona fede di trasmettere il vangelo all-uomo contemporaneo .Gia`il papa S.PioX aveva bollato il modernismo come“la sintesi di tutte le eresie”
.Dove possiamo allora orientare la nostra speranza?
Il Pontefice ci invita riporre la nostra fiducia solo in Gesu` :
<<...In altre parole: le buone strutture aiutano, ma da sole non bastano. L'uomo non può mai essere redento semplicemente dall'esterno. Francesco Bacone e gli aderenti alla corrente di pensiero dell'età moderna a lui ispirata, nel ritenere che l'uomo sarebbe stato redento mediante la scienza, sbagliavano. Con una tale attesa si chiede troppo alla scienza; questa specie di speranza è fallace. La scienza può contribuire molto all'umanizzazione del mondo e dell'umanità. Essa però può anche distruggere l'uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa. D'altra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull'individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l'orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito – anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione dell'uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti....>>.
… Non è la scienza che redime l'uomo. L'uomo viene redento mediante l'amore..... Ma ben presto egli si renderà anche conto che l'amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte…… Gesù Cristo ci ha « redenti ..>>.
***
roberto

venerdì 7 dicembre 2007

Pensiero della Domenica - 25

A cura del sito “Vie dello Spirito

09/12/2007 - II^ Avvento

Convertitevi: il Regno dei Cieli è vicino

In questa seconda parte del cammino di Avvento verso il natale, il personaggio dominante è Giovanni Battista, il cugino di Gesù.
E’ chiamato Battista, perché dava il Battesimo di penitenza.
Predicava nel deserto della Giudea, vasta zona montuosa, detta “deserto” solo nel senso di disabitata e incolta, sul versante orientale dei monti della Giudea, fino al mar Morto.
Il rosso vestito che indossava, richiamava alla penitenza e ricordava gli antichi profeti.
Si nutriva di locuste, o cavallette, usate anche oggi dai beduini, dopo averle arrostite e private della testa, delle ali, e delle gambe.

Giovanni utilizzava anche il miele selvatico che si trovava nelle fenditure delle rocce o degli alberi, ed anche dei datteri pestati.
Invitava la gente alla confessione dei peccati che veniva fatta durante il battesimo, che consisteva nell’abluzione per immersione nelle acque del Giordano.

Tutto ciò disponeva interiormente l’animo al cambiamento di vita ma non aveva la forza intrinseca dei sacramenti che saranno istituiti da Gesù Cristo.
Il Battista si scaglia contro coloro che venivano al rito come ad una cerimonia puramente esteriore.
E’ molto duro con i Farisei e Sadducei: “...già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco…”.
Il Vangelo di questa domenica dovrebbe far riflettere ciascuno di noi!
Ed il rimprovero del Battista forse è indirizzato anche a me.
Se Natale è sinonimo di festa esteriore, suoni, luminarie, dolci, regali, anche l’andare in Chiesa può essere sinonimo di puro formalismo, tradizione, esteriorità.
Se riuscissi in questi pochi giorni a mettere un po’ di ordine nel mio cuore!
E’ dentro di me che deve nasce la pace, la gioia, la serenità.
Sentiremo risuonare continuamente l’invito agli uomini di buona volontà, che è sinonimo di rinunzia, sacrificio, determinazione.
Proviamoci, anche se dovremo rinunciare a tante abitudini, frenare gli istinti, dominare i nostri risentimenti…
Arriva il Natale!
Quanto vorrei sorridere esprimendo la gioia che emana dal mio cuore in pace con Dio e con gli uomini.
***
Don Lucio Luzzi

mercoledì 5 dicembre 2007

Legge 194. Qualcuno confonde le idee

Ricevo da Il Timone e pubblico.

«Una accesa disputa sulla Legge 194, che nel 1978 ha legalizzato l'aborto in Italia, si è aperta in queste settimane tra i cattolici. Tutto è iniziato da una intervista sul settimanale Tempi alla nota ginecologa cattolica Patrizia Vergani, secondo cui la 194 non è da cambiare. Una posizione che ha sucitato molte polemiche, e la reazione iindignata di alcuni leader pro-life, quali Mario Palmaro del Comitato Verità e Vita. A fianco della Vergani è scesa in campo anche Assuntina Morresi, membro del Comitato Nazionale di Bioetica, ancora con un articolo su Tempi. Ma le sue argomentazioni sono state puntualmente criticate dall'agenzia SVIPOP.
Vi proponiamo quest'ultima riflessione perché sintetizza il dibattito in corso e chiarisce alcuni punti che riteniamo fondamentali:

Legge 194, quando la tattica mangia la verità

di Riccardo Cascioli

In queste settimane è scoppiata una strana guerra nel fronte anti-abortista, su cui vale la pena esprimere un giudizio chiaro viste le conseguenze concrete che essa comporta.

Tutto è cominciato con un’intervista alla nota ginecologa cattolica Patrizia Vergani da parte del settimanale Tempi. A domanda precisa (“Lei oggi cambierebbe la 194, la legge sull’aborto?”), la Vergani risponde: “No. Penso invece che dovrebbe essere rispettata e applicata di più, con tutta quella parte di sostegno a chi decide di non abortire”. Si sono sollevate immediatamente delle polemiche, in cui si è distinto il Comitato Verità e Vita, il cui presidente Mario Palmaro ha bollato come “gravissima” questa presa di posizione paventando l’abortismo strisciante che si è ormai insinuato anche tra cattolici al disopra di ogni sospetto. In soccorso della Vergani, ancora su Tempi, è scesa in campo Assuntina Morresi, membro del Comitato Nazionale di Bioetica e autrice di pubblicazioni anti-abortiste. La sua difesa d’ufficio ha provocato una reazione ancora più dura da parte del Comitato Verità e Vita, che in pratica l’ha accusata di essere diventata abortista.

Se quest’ultima affermazione è indubbiamente infondata, dettata certamente dalla foga polemica, ciononostante molte affermazioni della Morresi lasciano perplessi se non costernati.

Anzitutto si fa scudo delle parole del cardinale Camillo Ruini per affermare che lei e la Vergani sono in perfetta sintonia con l'ex presidente della CEI. Ruini avrebbe infatti affermato che “noi siamo certamente contro l’aborto ma non vogliamo modificare la legge”. Peccato che il 4 settembre scorso il cardinal Ruini abbia detto esattamente il contrario: “Modificare la 194 non solo è lecito ma è anche doveroso”, ha affermato intervenendo alla Summer School della Fondazione Magna Carta. All’inizio del discorso aveva detto che “per un credente sarebbe meglio che quella legge non ci fosse, però c’è…”. Come dire, è una legge inaccettabile ma bisogna prenderne atto, e infatti più avanti, dice: “Non ci sono le condizioni culturali per abrogarla”. Quello di Ruini, dunque non è un “non voglio”, piuttosto è un “vorrei, ma non posso”. Malgrado ciò afferma che 30 anni di progresso medico-scientifico spingono a un necessario adeguamento della legge, “per migliorarla, non certo per peggiorarla”. E questa modifica “non solo è lecita ma è anche doverosa”. Ruini parla anche dei “politici cattolici”, che peraltro “nessuno obbliga a essere tali”. Ma se tali si definiscono allora “dovrebbero essere disposti anche ad andare in minoranza per promuovere i valori per la Chiesa non negoziabili”.

Il giudizio mi pare sia così chiaro da non richiedere interpretazioni. Si può solo aggiungere che mentre per la Morresi 30 anni di cambiamenti significano la necessità di difendere la 194 dopo averla combattuta appunto 30 anni fa, per Ruini è proprio questo che rende necessario almeno una modifica della legge, lavorando al contempo per ricreare una cultura della vita (”le condizioni culturali”) che renda possibile abrogarla. Ciò va ben oltre il desiderio di applicarla meglio, che sembra essere l’orizzonte della Vergani e della Morresi (chi fosse interessato può andarsi a risentire le varie edizioni dei Tg nazionali del 4 settembre a questo indirizzo web).

Ma ci sono molte altre affermazioni nell’articolo della Morresi che sono decisamente discutibili, come la seguente: “Nel suo genere, la legge 194 è una buona legge, una delle migliori sull’aborto nel mondo”. La Morresi non intende ovviamente affermare che la legge è buona in sé ma che nel mondo quasi tutte le leggi sull’aborto sono più liberali. Questo può essere vero, ma allora è giusto dire che la 194 è “una delle più restrittive”. Non è solo una questione di termini: “restrittivo” è un giudizio “tecnico”, “buona” o “migliore” è un giudizio di valore che ha tutt’altro significato. Tanto per fare un esempio: si sentirebbe la Morresi di affermare che le leggi razziali di Mussolini erano “buone” rispetto a quelle di Hitler?

In ogni modo non è un caso che la 194 non sia stata applicata nelle sue parti “propositive” e che non siano neanche osservate tutte le limitazioni all’aborto che pure la legge prevede. La verità è che quelle parti propositive e quei limiti servivano soltanto a far digerire a un’opinione pubblica – a anche a molti cattolici – un diritto all’aborto che altrimenti non sarebbe mai passato. E’ una strategia ben collaudata, che si ripete in tutti i paesi del mondo con una cultura maggioritaria per la vita. E questo la Morresi, che in Italia è una delle poche ad aver studiato il movimento abortista internazionale, lo sa benissimo.

Quando poi la Morresi afferma che “una legge sull’aborto è necessaria: prima le donne che abortivano erano processate e andavano in galera” mentre uguale sorte non toccava ai “maschi che le mettevano incinte”, bisognerebbe almeno dire che una tale disparità – peraltro più teorica che pratica (sa dirci la Morresi quante donne che hanno abortito sono andate in prigione prima del 1978?) – ha radici culturali e non ci vuole certo una legge che consenta l’aborto per stabilire l’uguaglianza delle responsabilità tra uomo e donna. Anzi, da questo punto di vista la 194 ha peggiorato la situazione lasciando la donna ancora più sola davanti all’aborto, visto che l’impianto stesso della legge risente dell’ideologia femminista per cui “il corpo è mio e me lo gestisco io”. Si dovrebbe anche ricordare che uno dei punti su cui il fronte anti-abortista allora insisteva era proprio quello sull’inclusione del padre nella responsabilità di fronte al nascituro, cosa che i sostenitori della 194 hanno ostinatamente rifiutato proprio perché avrebbe snaturato la loro impronta culturale.

Infine, è utile soffermarsi su quella spaccatura esistente - dice la Morresi - nel fronte “abortista”. Essa definisce due schieramenti: gli abortisti e i “pro-choice”. Gli abortisti sarebbero in pratica quelli dell’aborto libero e facile, i “pro-choice” sarebbero invece una sorta di abortisti compassionevoli, cioè “sostengono la 194” ma anche “vorrebbero che le donne non abortissero più e per questo apprezzano il lavoro dei centri di aiuto alla vita”. Nulla da obiettare sulle diverse ragioni che percorrono il fronte abortista, ma come si fa a definire “pro-choice” il secondo schieramento che - si capisce – dovrebbe essere nostro alleato? La Morresi sa benissimo che “pro-choice” a livello internazionale e in ogni angolo del mondo sta ad indicare gli abortisti tout-court, quelli che non solo si oppongono al diritto alla vita ma oggi chiedono a gran voce che venga riconosciuto a livello internazionale l’aborto come diritto umano universale. “Pro-choice” significa “per la scelta”, ovvero per la libera scelta delle donne di abortire se lo vogliono, è il trionfo del soggettivismo e dell’individualismo. Perché allora creare confusione, suggerendo come oggettiva una definizione che sta solo nella testa di chi l’ha scritta?

La Morresi ha pienamente ragione nel dire che il nemico “non sono le donne che abortiscono”, ma “è l’aborto” e che dunque “chi vuole lavorare per diminuirne il più possibile il numero è mio alleato”, ma la confusione e travestire il male in bene non serve a nessuno. Francamente si fa fatica a sfuggire all’impressione che - come sostiene Verità e Vita - “la tattica si è mangiata la verità”.»
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Silvio

venerdì 30 novembre 2007

Il Padre Pio di Sergio Luzzatto

La figura di Sergio Luzzatto non ha mai suscitato in me una grossa simpatia. Si autodefinisce spesso – e comunque lo è a tutti gli effetti - storico “di professione”, soprattutto quando è coinvolto nelle non poche polemiche di cui a volte è protagonista. Nelle sue parole c’è un continuo voler rimarcare l’asserita oggettività e neutralità della ricerca storica che però, di fatto, non sono mai esistite, neanche negli approcci più distaccati e strettamente documentari. Un certo punto di vista nell’affrontare gli argomenti è inevitabile, sempre, e per questo l’accesa faziosità in cui spesso, nonostante gli intenti, si risolvono gli interventi di questo giovane professore di storia a Torino, a rifletterci bene, non dà fastidio più di tanto. Un po’ più urtante, invece, è la sua aria da professorino saccente, che sembra volare sempre alto sopra tutto e tutti con il suo fare imbronciato e stizzito, menando fendenti a destra e sinistra (nel senso anche politico dei termini) per punire gli incauti superficiali che osano addentrarsi nei territori riservati al professionista della storia. Uno scrittore come Giampaolo Pansa, il cui libro divulgativo “Il sangue dei Vinti” ha scatenato le ire del nostro, lo ha ribattezzato “ il signor Ghigliottina”. Viste queste premesse, mi aspettavo che il suo ultimo libro, sorprendentemente legato alle vicende di San Padre Pio, fosse dissacrante al massimo, viste anche le sue credenziali di laicissimo e progressista “doc”. Dissacrante nel senso di opera non agiografica, tutta volta a presentare la figura di un uomo collocato in un preciso contesto storico, laicamente analizzata senza indulgere a devozionalismi e attenzioni indebite, per un ateo come Luzzatto, alla realtà del soprannaturale, sulla quale il libro, come dice lo stesso storico, non vuole prendere nessuna posizione. Per cui, conoscendo già i suoi scritti, mi attendevo che Luzzatto desse molto spazio al rapporto tra la figura del frate del Gargano e gli eventi più sanguinosi svoltisi durante la sua vita, come i due conflitti mondiali e l’avvento dei totalitarismi di vari colori, argomenti di cui questo storico di origine ebraica è sicuramente esperto. In effetti, è andata proprio così: l’attenzione al contesto politico e sociale in cui si muove Padre Pio è preponderante. Riguardo alla “fenomenologia corporale” del santo, poi, quest’ultima fatica di Luzzatto su Padre Pio si muove sulla scia di altre sue opere senz’altro originali, come “ Il corpo del Duce”, in cui si affronta il tema del fascinoso carisma di Benito Mussolini da vivo e anche da morto, tramite il ruolo del corpo nelle diverse situazioni. In fondo, questi due libri di Luzzatto ora citati non sono così lontani, dato che anche la figura di Padre Pio viene inevitabilmente tratteggiata, come detto, facendo risaltare la sua ben nota e straordinaria corporeità ( stimmate, effluvi di sangue, bilocazione, il suo aspetto fisico e il suo modo di fare talvolta irruente e debordante, schietto e diretto, tipico di certa gente meridionale). Questa attenzione dello storico ebreo alla “fisicità” dei personaggi della storia, tutto sommato, credo abbia un po’ a che fare con il suo retaggio ebraico.
Comunque sia, anch’io inizialmente, come molti, mi sono lasciato un po’ fuorviare dalla deformazione mediatica dei contenuti del libro che, quasi certamente, non è stata casuale. Come, ad esempio, il voler sottolineare da parte della stampa, tra i tanti spunti contenuti nell’opera (“Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Nocevento”, Einaudi), quelli più eclatanti e di per sé banali, tra cui la vecchia storia dell’acido fenico. Il riferimento a quest'ultimo episodio, se estrapolato troppo seccamente dal contesto in cui è riportato nel libro, lascerebbe intendere che la sostanza sarebbe stata usata dal Padre per procurasi le stimmate. Mi sembra che tutto questo rientri nel rumore della grancassa mediatica, volta a esaltare solo quegli aspetti più adatti a creare reazioni automatiche in certi lettori, creando i presupposti per il battage pubblicitario che inevitabilmente segue la rissa e le polemiche. In questo caso, si tratta delle reazioni scatenate dopo il lancio del libro da parte di molti cattolici che, in buona fede e senza aver letto il libro, si sono subito scagliati contro chi avrebbe infangato la memoria di Padre Pio. Certo, delle ragioni per essere scettici non mancano: l’intento demistificatorio nell’opera di Luzzatto fa spesso capolino dalle oltre quattrocento pagine del libro. Ma è molto più velato, sicuramente non di grana grossa, ed è nascosto dietro all’apparente freddezza della ricerca, dietro a piccole frasi e osservazioni ironiche buttate qua e là con nonchalance, non certo nel pregiudizio crasso e macroscopico da positivista ottocentesco, per cui tutto il prodigioso è solo truffa e voglia di ingannare il popolino.
Tuttavia, la panoramica su una certa Italia di primo Novecento e post bellica, e al suo modo di rapportarsi alla dimensione del soprannaturale in un’epoca in cui ben altre “sacralità” neopagane stavano emergendo in Italia e Germania, appare a nostro avviso stimolante. Si legge, certamente, tra le righe un certo disprezzo, condito da osservazioni gratuite sulla sincerità dei loro gesti, verso alcune figure, come ad esempio quella del futuro papa Pio XII il quale, in visita a un lager di prigionieri italiani, pronuncia frasi di conforto, ritenute dal Luzzatto di semplice circostanza. Questo gratuito processo alle intenzioni è solo un banale, piccolo esempio, così come appare in fondo insignificante quell’osservare, in base ad alcuni documenti, che la fortuna della Casa Sollievo della Sofferenza, la grandiosa struttura voluta dal padre oggi all’avanguardia nelle cure di varie malattie, sarebbe legata anche a traffici di denaro facenti capo alla Francia e a Emanuele Brunatto, uno dei più noti figli spirituali di Padre Pio; un Brunatto, per altro, descritto come uno spregiudicato affarista e millantatore. In un’ottica di fede, la cosa non sorprende più di tanto: il Signore sa dare la luce anche tramite povere lampadine bruciate come siamo noi uomini (come ebbe a dire, mi pare, Oscar Luigi Scalfaro: il ché è tutto dire). In ogni caso, non manca una certa obiettività nel voler descrivere quello che è veramente successo nella Chiesa gerarchica riguardo alla figura del santo. Essa si è oggettivamente divisa a suo tempo sul Padre, anche se non in quella maniera così drammatica cui spesso si crede. Del resto, le vicende incentrate sulla “persecuzione”del santo del Gargano da parte di un padre Gemelli, un monsignor Maccari e un forse inconsapevole Giovanni XXIII erano già ben note. Ma è ben noto anche il favore che padre Pio ha incontrato presso Pio XII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, il che mi sembra bilanciare “ad abundantiam” certe deficienze manifestate da uomini di Chiesa.In definitiva, il libro di Luzzatto, con tutti i suoi limiti e pregiudizi, può risultare comunque stimolante, vista anche la brillantezza della prosa e il modo accattivante della narrazione.
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Paolo

martedì 27 novembre 2007

La rivista l’Ape

Nei primi anni dell’800, il marchese Cesare d’Azeglio (1763-1830) è al centro di una multiforme attività culturale, come fondatore e redattore del periodico L’Ape, considerato il primo esempio di giornalismo cattolico nell’Italia dell’800’: la rivista aveva per sottotitolo Scelta d’opuscoli letterari e morali estratti per lo più da fogli periodici ultramontani.
Si trattò quindi di una rivista che, almeno all’inizio, nei primi tre fascicoli, non pubblicò articoli originali bensì una scelta di articoli tratti da periodici stranieri, soprattutto francesi ma anche inglesi e tedeschi: a partire dal quarto numero cominciarono invece a comparire articoli originali di collaboratori italiani di chiara fama, come Diodata Saluzzo, Francesco Galeani Napione, Giovanni Marchetti, Luigi Clasio (Fiacchi) e Luigi Lanzi.
Essa vide la luce il 30 Agosto 1803 e uscì, con cadenza mensile, fino al 31 Luglio 1806.
All’inizio – come s’è detto – si pubblicavano articoli ripresi dai più importanti quotidiani dell’epoca, quali il Mercurio (ossia il Mercure de France ), il Journal des Débats, gli Annales litteraires et morales, peraltro già abbastanza noti in Italia: erano inoltre presenti recensioni e giudizi su libri italiani e stranieri. La responsabilità maggiore della pubblicazione del giornale ricadde sull’Azeglio, che celava la propria identità sotto lo pseudonimo di Ottavio Ponzoni o, più semplicemente, sotto la sigla O.P.: numerosissimi furono gli scritti - riportati in traduzione italiana- dei maggiori autori cattolici controrivoluzionari, dall’abate Barruel al La Harpe, dallo Chateubriand al de Bonald. Nata in un momento difficile della storia d’Italia, l’Ape rappresentò una voce stonata, se si vuole, rispetto alla temperie culturale del momento ma coraggiosa nella sua piena fedeltà all’ortodossia cattolica: pur con il timore di una reazione francese, essa costituì un primo e importante strumento di informazione e di scambio di idee, esaminando e passando al vaglio le principali novità storiche e filosofiche e indicando al cattolico "romano" una possibile forma di reazione culturale. Quando si muove l’obiezione che fosse una rivista d’élite, adatta ad un pubblico scelto e preparato, si dice certamente il vero, ma non bisogna dimenticare che, diffusa in uno stato come il Granducato di Toscana, in cui era stato presente a livello istituzionale il giansenismo, si propose senz’altro la circolazione di idee e di principi ad esso contrari, anticipando e mostrando anche la strada ad una possibile stampa "popolare", come nel caso degli almanacchi.
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Gianni

venerdì 23 novembre 2007

Pensiero della Domenica - 24

25/11/2007 - Cristo Re

Motivo della condanna: si proclama Re


Lo interrogarono: "Sei tu il re dei Giudei?". Rispose il Cristo: "Si, l'ho detto e lo ripeto: io sono Re". La Chiesa oggi, ha cambiato il colore liturgico; È terminato ormai il colore verde, che ci ha accompagnato per tutta la lunga serie delle domeniche estive. In questa domenica il celebrante indossa i paramenti di colore bianco; è la grande Festa di Cristo Re.

Leggendo la Bibbia si rimane sconcertati , perchè il linguaggio di Dio è completamente differente dal nostro. Per noi il concetto di Re è sinonimo d superiorità, predominio, potenza. Il simbolo della regalità è qualcuno che domina, che comanda, che è superiore agli altri, ai sudditi.
Ora sentire parlare Cristo che dice, io sono Re, fa una certa impressione e ne fece tanta al suo tempo, fu motivo di scandalo, tanto è vero che lo denunciarono, lo portarono in tribunale, perchè aveva osato dire che Lui era il vero Re, invece di Cesare. Ma il Cristo specifica: "Il mio Regno non è di questo mondo, altrimenti anche io avrei un esercito, una legione, miriadi di angeli che mi potrebbero difendere".
Cristo Re ripete ai suoi sudditi: "Io preparo un posto, in questo Regno Eterno che si chiama paradiso e vi invito a seguire questa strada, l'unica che porta alla salvezza, la strada dell'amore, della fratellanza, cercando ripetutamente nella vita terrena di guadagnarsi questo paradiso, facendo del bene... ".

La bandiera che sventola, del cristianesimo, porta una sola scritta: ama il prossimo tuo. Ricordati che il tuo prossimo più immediato è la famiglia dove sì vive continuamente, accettando, a volte, contrarietà, forse anche umiliazioni!
Cristo vorrebbe essere il Re della tua famiglia; per credere a questo ci vuole fede. Il 19 febbraio 1527 si riunì a Firenze nel palazzo della Signoria, quello che noi chiamiamo oggi il consiglio comunale.
C'erano i vessilliferi, i capitani del popolo e vari rappresentanti. Si discuteva del più e del meno, ad un certo punto prende la parola Pier Capponi. Parla animatamente di problemi sociali, di necessità che incombevano tra la popolazione; poi si mise in ginocchio davanti a tutti e disse: "lo propongo a Firenze Repubblicana di eleggere Cristo Re dei Fiorentini". Tutti scoppiarono in un applauso, approvarono questa sua mozione e fu eletto ufficialmente Cristo Re dei fiorentini!

Ancora oggi all'ingresso di palazzo della Signoria c'è una lapide in latino che ricorda questo atto di fede dei fiorentini. Prova anche tu a sentire la gioia di essere suddito di questo grande Re che ti viene incontro, ti aiuta, ti vuole bene, ti perdona; l'unico che ti sa capire, ti comprende nella tue miserie e nelle tue debolezze.

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don Lucio Luzzi

mercoledì 21 novembre 2007

Siamo macchine, o persone destinate alla Resurrezione?

Nonostante la sterminata mole cartacea e le innumerevoli discussioni sull’argomento, ritengo che la questione dei trapianti di organi e la concezione del corpo nella cultura odierna post-cristiana difficilmente possano essere affrontate con cognizione di causa, anche in certi ambienti che si professano cattolici.
Questo è dovuto soprattutto allo smarrimento dell'originario valore attribuito al corpo e al suo destino nella visione cristiana tradizionale. Da un lato, la cultura laicista, priva di un orizzonte trascendente, raramente riesce ad andare oltre una visione puramente funzionale e utilitaristica. E questo è comprensibile. Ma questa concezione, seppur in maniera sotterranea e a volte non del tutto cosciente, sembra essersi insinuata anche nel mondo cattolico.

L'idea di un destino trascendente ed eterno del nostro povero corpo mortale, legata alla fede nella Resurrezione della carne, appare oggi molto scolorita anche fra tanti cristiani. L'insistere pervicacemente sulla bontà del trapianto e la "bellezza" del gesto di donazione da parte di gruppi e associazioni cattoliche sembra allinearsi con la corrente mentalità laicista, mettendo in ombra il fatto che, dopotutto, un corpo umano non è solo una misera spoglia senza valore, trattabile come qualsiasi altro elemento naturale.
In realtà, dietro a un gesto di apparente bontà come il donare parti del proprio corpo, si nasconde un inconscio rifiuto (nel caso di questi cattolici) dell’idea dell’importanza del corpo come elemento destinato alla risurrezione finale, dunque pregno di significato anche fortemente simbolico e, in definitiva, non manipolabile a piacimento: principio, questo, che ha per secoli permeato la cultura cristiana e, di conseguenza, quella occidentale.

Forse, l'odierno “trapiantismo” esasperato di molti ambienti cattolici - che, certamente, è spesso accompagnato da buone intenzioni - sembra in realtà un ulteriore segnale della caduta della fede nell’Occidente secolarizzato. Il corpo non è più considerato come un elemento sacro perché “divinizzato” per merito dell’ incarnazione di Gesù e, quindi, già ora contenente un germe di eternità destinato a germogliare in futuro e preparato per essere investito dal soffio dello Spirito Santo al momento della Resurrezione.
Esso non è più un personalissimo santuario da custodire con gelosia (S. Paolo) ma, per l'influenza della mentalità contemporanea ancora carica di utilitarismo e di meccanicismo scientista, è diventato una macchina, fatta di pezzi intercambiabili. Non è più un insieme di carne, anima e spirito, elementi che, a partire grosso modo dalla filosofia di Cartesio, nella cultura occidentale sono stati dissociati l'uno dall'altro. E’ solo un qualcosa di materiale i cui pezzi, come nelle automobili, possono essere spostati o sostituiti a piacimento. In più, ovviamente, si innesta su questa concezione la vergognosa azione di medici che cercano continue sperimentazioni (scientismo) e il traffico degli organi, che spinge talvolta all'espianto anche prima della morte certificata.

Certo, a questa visione di derivazione positivista, ancora molto viva in certi ambienti scientifici e medici, si va sostituendo oggi un “revival” del vecchio pensiero gnostico e spiritualista: ma anche in quest'ultimo il corpo appare assai svalutato, forse anche di più rispetto al vecchio materialismo scientista. E comunque, sembra che anche questo filone neo-spiritualista stia attecchendo fortemente in certo mondo cattolico.

Si obietta spesso, da parte di credenti: ma si cerca di salvare vite umane, laddove organi della persona morta non possono più servire. Ecco, è proprio la parola "servire" che ci riporta alla mentalità materialistica fondata sull’utilitarismo, la quale non vede oltre l’orizzonte terrestre; tutto diventa lecito pur di continuare a vivere, dato che la vita terrena, puramente biologica è il solo bene supremo, non essendoci altre vite dopo di essa.
Così i valori profondi, anche simbolici, della fede nella Risurrezione della carne sono oscurati, e la dignità del corpo dell’essere umano deceduto viene calpestata. Il diritto a voler conservare il corpo integro in attesa della Resurrezione, su cui si basa l’idea della sepoltura cristiana nella cassa che custodisce le spoglie per l’atteso giorno, viene spesso conculcato, con mirate campagne di "sensibilizzazione" che spingono a entrare in questa prospettiva "usa e getta". E' una visione che in qualche modo ci riporta anche, tanto per dire, all'odierna banalizzazione e mercificazione della sessualità.

Ovviamente, in linea teorica non c’è nulla di anticristiano nel voler salvare vite tramite donazione di organi.
Anche il recente Catechismo (CCC, 2296) ribadisce in linea di principio la bontà di un atto del genere. Ma forse è necessario essere più consapevoli che comunque, dietro a tutto questo, c'è il rischio di scivolare in una concezione in fondo non più cristiana delle cose. Il morto è morto, non serve più, non è più “utile": perché affannarsi a pensare a una improbabile dimensione eterna in cui tutto il corpo assume valore, quando lo si può sfruttare "hic et nunc"?

Dunque, dietro all’attuale grancassa della società buonista, che preme per creare la mentalità della “donazione”, c’è spesso in realtà un principio materialistico, una visione anticristiana e secolarizzata che si esprime, ad esempio, nella crescente diffusione della cremazione, anche questa ritenuta accettabile da parte di diversi cattolici.
Tuttavia, chi non vede la differenza - religiosamente parlando – della cremazione rispetto all’inumazione, ha perso completamente il senso della speranza cristiana, e il valore simbolico estremamente pregnante del corpo. La Chiesa cattolica l’ha resa lecita oggi, andando oltre una una tradizione secolare. Certo, in questo caso c’è la clausola dell’ammissibilità della cremazione a patto che non si neghi per principio l’idea della Risurrezione, il che sembra il classico modo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Forse, anche questa concessione è uno dei segni - ormai tanti, forse troppi - di un parziale cedimento della prassi della Chiesa - non della dottrina - alla mentalità del mondo.
Di fatto, oggi, molte decisioni sembrano demandate alla coscienza del singolo, che può sicuramente imbrogliare le carte o, almeno, avere idee molto confuse sulla questione. Dire infatti che la cosa è accettabile, a patto che sia rimasta nella persona l’idea della Risurrezione (come poi verificarlo in concreto?), sembra un voler demandare troppo alla coscienza del singolo, oggi purtroppo abbondantemente deformata su certi temi.

Così, sembra che si rinunci implicitamente alla propria funzione di guida pastorale e di esempio, che prevederebbe una linea chiara e ben definita su questa e molte altre questioni. Di fatto, ci si apre al rischio dell’indifferenza e della perdita del senso della Tradizione, confondendo la massa dei fedeli poco attenti alle sottigliezze, e in cerca di risposte certe su temi che toccano i destini eterni.
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Paolo

Presentazione della Beata Vergine Maria

di Piero Bargellini, dal sito Santi e Beati

«La memoria odierna della Presentazione della Beata Vergine Maria ha un'importanza notevole, non solo perchè in essa vien commemorato uno dei misteri della vita di Colei che Dio ha scelto come Madre del Suo Figlio e come Madre della Chiesa, nè soltanto perchè in questa 'presentazione' di Maria vien richiamata la 'presentazione' al Padre celeste di Cristo e, anzi, di tutti i cristiani, ma anche perchè essa costituisce un gesto concreto di ecumenismo, di dialogo con i nostri fratelli dell'Oriente.

Questo emerge con chiarezza sia dalla nota di commento degli estensori del nuovo calendario sia dalla nota della Liturgia delle Ore, che dice: 'In questo giorno della dedicazione (543) della chiesa di S. Maria Nuova, costruita presso il tempio di Gerusalemme, celebriamo insieme ai cristiani d'oriente quella 'dedicazione' che Maria fece a Dio di se stessa fin dall'infanzia, mossa dallo Spirito Santo, della cui grazia era stata ricolma nella sua immacolata concezione'. Il fatto della presentazione di Maria al tempio, com'è, noto, non è narrato in nessun passo dei testi sacri, mentre viene proposto con abbondanza di particolari dagli apocrifi, cioè da quegli scritti molto antichi e per tanti aspetti analoghi ai libri della Bibbia, che tuttavia sempre la Chiesa ha rifiutato di considerare come ispirati da Dio e quindi come Sacra Scrittura.
Or secondo tali apocrifi, la presentazione di Maria al tempio non avvenne senza pompa: sia nel momento della sua offerta che durante la permanenza nel tempio si verificarono alcuni fatti prodigiosi: Maria, secondo la promessa fatta dai suoi genitori, fu condotta nel tempio a tre anni, accompagnata da un gran numero di fanciulle ebree che tenevano delle torce accese, col concorso delle autorità gerosolimitane e tra il canto degli angeli.

Per salire al tempio vi erano quindici gradini, che Maria salì da sola, benchè tanto piccola. Gli apocrifi dicono ancora che Maria nel tempio si alimentava con un cibo straordinario recatole direttamente dagli Angeli e che ella non risiedeva con le altre bambine ma addirittura nel 'Sancta Sanctorum' (che veniva invece "visitato" una sola volta all'anno dal solo Sommo Sacerdote).
La realtà della presentazione di Maria dovette essere molto più modesta e insieme più gloriosa.
Fu infatti anche attraverso questo servizio al Signore nel tempio, che Maria preparò il suo corpo, ma soprattutto la sua anima, ad accogliere il Figlio di Dio, attuando in se stessa la parola di Cristo: 'Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano'.»

Ragione e volontà

Riporto, di seguito, una considerazione di Blaise Pascal - ma non ne è certa la paternità - che non condivido interamente:

«
L’uomo è nato per pensare; perciò non c’è momento che non lo faccia; ma il puro pensiero, che lo renderebbe infelice se egli potesse sempre sostenerlo, lo affatica e lo prostra.
È una vita uniforme, alla quale non può adattarsi; egli ha bisogno di movimento e di azione, ha bisogno cioè di essere di tanto in tanto scosso dalle passioni, di cui sente di avere nel cuore sorgenti vive e profonde
.» (dal “Discorso sulle passioni d’amore”, 1652-1653)

Dalla tradizione classica del pensiero, specialmente medievale, direi che è più corretto dire che l’uomo è nato per pensare e per volere.
Ridurre l’attività primaria al solo pensiero non tiene conto del modello antropologico classico, che vede la persona come unione di corpo, anima e spirito (Aristotele, San Paolo).
Il pensiero moderno - in questo caso, ad esempio, Amartya Sen e Martha Nussbaum - parlerebbero della persona come insieme di “capacità” (“capability”).


In ogni caso non è auspicabile una divisione tra razionalità e volizione, come quella celebre che contrappose domenicani e francescani.
Pascal giunge così a concepire la passione quasi come “soccorso esterno” per l’uomo, annoiato dalla speculazione.
Ma la passione nasce da lui stesso, mediante la volontà, che non è mai separata dalla ragione.

Sono come due movimenti “interni” alla persona: la ragione che interpreta il mondo e la volontà che esercita l’arbitrio, nutrendo così le relazioni interpersonali - vicende, sentimenti, sofferenze, estasi.
Vedo, quindi, la volontà come la sorgente delle passioni, non meno della ragione che è la sorgente del pensiero speculativo.
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Silvio

lunedì 19 novembre 2007

Prima vera novità ecumenica

È abbastanza evidente come, finora, le pur lodevoli iniziative ecumeniche abbiano fruttificato assai poco. Constato, non giudico.
Il Concilio Vaticano II aveva preventivato un maggiore impegno a favore del riavvicinamento e della successiva unione - meglio: riunione - delle Chiese ortodosse e delle Confessioni cristiane protestanti alla Chiesa cattolica romana.


In merito alle Chiese ortodosse orientali, dopo lo storico abbraccio tra Paolo VI e Atenagora nel 1967, è come si fosse concordata una tacita prassi: ad ogni incontro tra il romano Pontefice ed un Patriarca dell'Oriente, veniva redatta una “dichiarazione comune”, nella quale erano riportate le comuni credenze di fede. Qualcosa del genere è avvenuto anche in relazione al Protestantesimo.

È però innegabile che, nel corso di quest'ultimo quarantennio, alle ripetute aperture, concessioni e “alleggerimenti” (per non dire aggiustamenti) dottrinari da parte della Chiesa di Roma, non sono corrisposte altrettante iniziative simili da parte della restante cristianità.
Anzi, bisogna dire con triste evidenza che, ortodossi e protestanti, non solo non hanno abbandonato quanto di errato vi è nelle loro pur nobili tradizioni, ma non si sono discostati nemmeno di una letterina dalle proprie posizioni originarie.


Non se ne sono discostati, fino al 13 ottobre di quest'anno.
Fino al Documento di Ravenna, titolato “Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa: comunione ecclesiale, conciliarità e autorità”, redatto a cura dei membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa.


Successivamente (prossimamente su Sivan) mi occuperò del principio di autorità e di conciliarità (da non confondere con il conciliarismo, che è un'eresia).
Adesso mi limito ad andare al nocciolo. Innanzitutto la Chiesa ortodossa riconosce la validità del concetto di taxis, ovvero dell'ordine canonico d'importanza delle cinque maggiori sedi episcopali dell'antichità: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Il documento ritiene valida l'opinione di Sant'Ignazio di Antiochia, secondo il quale la Chiesa di Roma «presiede nella carità». Pertanto, il Documento di Ravenna considera Roma al «primo posto nella taxis» e «il vescovo di Roma è pertanto il protos tra i patriarchi» (n. 41).


Non solo: al n. 42 del Documento si ribadisce che «la conciliarità [...] nei concili ecumenici, implica un ruolo attivo del vescovo di Roma, quale protos tra i vescovi delle sedi maggiori [...]».
Detto in altre parole, gli ortodossi - per la prima volta dopo parecchi secoli - riconoscono al romano Pontefice una supremazia d'autorità su tutti i vescovi dell'ecumene. Ovvero lo riconoscono quale primo Patriarca. Questa dichiarazione è notevolissima e costituisce una novità ecumenica assoluta, almeno rispetto agli ultimi due secoli.


Strada spianata, allora, verso la riunificazione? No. Primariamente perché è da specificare che il Papa è sì il primo Patriarca, ma lo è “tra pari”.
Si deve, dunque, chiarire quale dovrebbe essere il compito specifico del Papa, in una Chiesa riunificata. E questo chiarimento si avrà verosimilmente - sempre che si avrà - dopo parecchie discussioni (e scontri).
Una cosa però è già chiara: l'unità ha come maggior nemica la sete del potere, che riesce a tacitare anche l'evidenza teologica di un primato petrino.


Ulteriori approfondimenti qui e qui.
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Silvio

venerdì 16 novembre 2007

Pensiero della Domenica - 23

A cura del sitoVie dello Spirito

18/11/2007 XXXIII^ T.O.
Non vi lasciate ingannare

Siamo alla penultima domenica dell’anno liturgico. Domenica prossima, la chiusura con la Festa di Cristo Re e poi la Chiesa nella sua liturgia, inizierà il nuovo cammino con la preparazione al Natale. “Hora ruit” dicevano gli antichi, ed anche questo anno solare se ne sta andando, irripetibile per la nostra vite terrena!


La Parola di Dio di questa domenica inizia con un brano del profeta Malachia. E’ l’ultimo della serie di dodici profeti minori; di lui non sappiamo nulla. Profetizza la fine dei tempi, quando verrà il Signore a far trionfare la sua giustizia sugli empi e la sua misericordia sui giusti. E subito canteremo con il Salmo 97 che invita tutti “esultino davanti al Signore che viene / che viene a giudicare la terra. / Giudicherà il mondo con giustizia / e i popoli con rettitudine…”.


Nella lettera che l’apostolo Paolo invia agli abitanti di Tessalonica, c’è l’ammonizione a tutte le comunità cristiane di non vivere trascurando la realtà della fine dei tempi e nemmeno di agitarsi, ma compiere ogni giorno, con rettitudine, i propri doveri. E nel Vangelo di Luca viene descritto Gesù che per l’ultima volta esce dal tempio per recarsi a Betania e lì passare in profondo raccoglimento tutto il mercoledì santo. Passò dal cortile delle donne al cortile dei Gentili; uscì dal tempio, passando per la porta dorata, che era ad oriente, discese sul Cedron, risalì il monte degli Ulivi, costeggiò il monte verso sud-est per raggiungere alle sue falde orientali, Betania. Guarda da lì, in lontananza il tempio di Gerusalemme e dice: “Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta”. La tremenda profezia si avverò letteralmente nella conquista romana di Gerusalemme, avvenuta nell’anno 70, quando, contro gli ordini dello stesso Tito, il tempio fu raso al suolo, rimanendo tale anche in seguito, nonostante il tentativo di ricostruzione di Giuliano l’Apostata.


La prospettiva per i cristiani, dice Gesù, è quella di soffrire, per il suo nome, ma garantisce allo stesso tempo, la sua protezione. La condizione perché la sofferenza non produca alcuna menomazione, spirituale e corporale, nella vita eterna, è la costanza. Grande insegnamento per noi facili all’affievolimento, alla sfiducia, allo scoraggiamento. Se continuiamo a dare spazio nella nostra mente, agli interrogativi ossessionanti “Ma perché tanti guai... perché tanta sfortuna… perché la sofferenza”, le nostre conclusioni saranno pessimismo e rifiuto della Parola di Dio.

Cerchiamo di camminare illuminati dalla fede, nella consapevolezza che tutti andiamo verso la conclusione della nostra vita terrena, ma con la certezza, che la nostra esistenza spesso così amara e travagliata, sarà frutto di vita eterna. “Che giova all’ uomo guadagnare il mondo intero se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc.9,24-25).
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don Lucio Luzzi

giovedì 15 novembre 2007

Giuseppe Mazzini: uno strano tipo di credente

Articolo di Angela Pellicciari

«Secondo Giuseppe Montanelli, protagonista delle lotte risorgimentali nonché antenato di Indro, il giornalista scomparso da alcuni anni, il grande merito di Giuseppe Mazzini è stato quello di aver parlato di Dio, e quindi di spirito, ad una popolazione che, tutta cattolica, senza Dio non si sarebbe mossa di un passo. A lui «debbonsi lodi per alcun bene che fece -sostiene-, non come fuoruscito orditore di cospirazioni impotenti e sacrificatrici, ma come letterato propugnatore di spiritualismo. Né fu piccolo servigio». Sempre intento a scrivere a tutti, compresi papi e re, in perenne cospirazione politica, l’avvocato Giuseppe Mazzini, dall’estero, dirige le sorti e la vita di quanti, in Italia, obbedendo alle intuizioni del Maestro, mettono la propria vita e le proprie sostanze a disposizione dell’Ideale: Italia Una, Indipendente, Libera, Repubblicana.

Fondatore della Giovane Italia nel 1831 e della Giovane Europa nel 1834, Mazzini è, direttamente o indirettamente, all’origine di numerosi tentativi insurrezionali e di molti attentati -spesso riusciti- alla vita di persone che violano i patti giurati o che sono politicamente nemiche. Amato e osannato da protestanti, evangelici e anglicani, in una parola sostenuto da tutti i nemici della Chiesa cattolica, Mazzini mette Dio al centro della propria attività politica: Dio lo vuole, Dio e popolo, non si stancherà di ripetere, e scrivere, con ardore profetico. Quale Dio? Certamente il Dio che Mazzini ha in mente non è quello della tradizione cattolica; fin dal 1834, rivolgendosi Ai giovani italiani, così spiega quale sia il fine ultimo della lotta al potere temporale dei papi: «L’abolizione del potere temporale evidentemente portava seco l’emancipazione delle menti degli uomini dall’autorità spirituale».

Massimo D’Azeglio dice di lui che «legato a società bibliche inglesi e americane» cerca «di rendere l’Italia protestante». Ma D’Azeglio sbaglia perché il padre nobile del partito repubblicano condivide l’odio anticattolico e anticristiano della Carboneria: «La missione religiosa consiste nella sostituzione del dogma del progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia». Ripudiata la Rivelazione, il nome di Dio serve a Mazzini per propagandare una nuova fede, la fede nel progresso: “Crediamo unica manifestazione di Dio visibile a noi la vita; e in essa cerchiamo gli indizi della legge divina. Crediamo nella coscienza, rivelazione della Vita nell’individuo e nella Tradizione, rivelazione della vita nell’Umanità». Così scrive a Pio IX nel 1865 e così continua: «Crediamo che il Progresso, legge di Dio, deve infallibilmente compiersi per tutti. Crediamo che l’istinto del Progresso» sia «la sola rivelazione di Dio sugli uomini, rivelazione continua per tutti». Maestro dell’inganno, maestro nel gioco delle parole, maestro nell’usare i termini più familiari alla popolazione cattolica attribuendo loro un significato radicalmente diverso, Mazzini ha un’unica fede: che il suo modo di pensare sarà condiviso da tutti. L’esule vive in un’epoca che, perlomeno in Italia, è ancora cristiana. Un’epoca quindi che rigetta nella maniera più netta la concezione del progresso che Mazzini sostiene debba infallibilmente compiersi per tutti. Ciononostante il leader repubblicano, colui che esalta con più convinzione il ruolo del popolo, sostiene, e predica, che TUTTI indistintamente dovranno pensarla come lui. Che TUTTI indistintamente dovranno smetterla di essere cristiani. Mazzini dà per scontato che la sua idea di progresso, e cioè la fine di ogni Rivelazione, diverrà realtà. Stessa identica fede, democratica e totalitaria, professa in quel periodo la Massoneria.

Nel 1863, la Costituente della rinata (dopo la parentesi della Restaurazione) Massoneria italiana, stabilisce, all’articolo 3, che i principi massonici debbano gradualmente divenire «legge effettiva e suprema di tutti li atti della vita individuale, domestica e civile» e specifica, all’articolo 8, che fine ultimo dell’Ordine è: «raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e l’autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell’Umanità». «Crediamo che Dio è Dio e che l’Umanità è il suo Profeta», scrive Mazzini. Felice Orsini, l’attentatore a Napoleone III che pagherà con la vita il proprio gesto, ha facile gioco nell’apostrofare l’antico Maestro col beffardo nomignolo di «secondo Maometto». Bisogna proprio dirlo: quante cose si fanno e si predicano in nome dell’Umanità con la u maiuscola.»

lunedì 12 novembre 2007

Pensiero della Domenica - 22

A cura del sitoVie dello Spirito

XXXII^ T.O.
11/11/2007

La risurrezione dei morti è opera di Dio

La più grande fatica del Cristo, durante la sua evangelizzazione, è stata quella di sopportare i Sadducei che cercano ogni pretesto per mettere in difficoltà il Messia e trovare possibili capi di accusa. Si presentano infatti alcuni Sadducei, che notoriamente non credono che esista la risurrezione. Presumibilmente furono sobillati dagli stessi che avevano precedentemente inviato Farisei ed Erodiani a porre la questione del tributo a Cesare. Hanno sempre un atteggiamento cortese e danno la sensazione al popolo che segue Gesù, di chiedere spiegazioni , aiuto a comprendere la verità. Un giorno anche per il Cristo prevalse l’impulso umano e li apostrofò “Sepolcri imbiancati, razza di vipere...”.
Questa delegazione di Sadducei si appella alla legge scritta da Mosè (Deut.25,5-6) del “Levirato” (dal latino “levir” – cognato) che serviva ad impedire l’estinguersi della famiglia e si riferisce propriamente ai fratelli che abitano insieme. Simile uso vigeva anche presso altri popoli antichi. "C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette; e morirono tutti senza lasciare figli. Da ultimo anche la donna morì. Questa donna dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie?”.
Gesù prescinde dall’animo insidioso con cui veniva posto il caso ed approfitta ben volentieri dell’ occasione per dare, su un argomento così importante, un insegnamento spirituale. Sottolinea il fine primario del matrimonio, che è la conservazione e l’incremento della specie umana e fa una osservazione pratica molto elementare, facilmente accessibile anche a quelle menti grossolane; non vi è nel mondo dei risorti la necessità che vi è sulla terra, di nuove nascite perché l’umanità non si estingua.
La risurrezione da morte non si riferisce soltanto alla sopravvivenza dell’anima, per la quale non si poneva neppure il quesito, ma alla piena risurrezione che per la natura umana, fatta di anima e corpo, avverrà, alla fine dei tempi, con la risurrezione dei corpi. Soltanto per Gesù e la Madonna, tale risurrezione è avvenuta subito. Ecco la risposta di Gesù ai Sadducei: ”I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio”.
Quante volte abbiamo inteso anche noi parlare di anima immortale e di risurrezione alla fine dei tempi, del nostro corpo. E’ un fatto così straordinario che ci sembra impossibile possa realizzarsi! Noi materializziamo tutto con il nostro ragionamento e non riusciamo a capire e quantificare il tutto. Addirittura il paradiso in concreto non è che ci entusiasma troppo, perché non riusciamo ad ipotizzare in concreto questo godimento eterno, ed istintivamente ci sembra quasi di poterci annoiare, perché il nostro metro di paragone sono i fuggevoli momenti di godimento qui sulla terra. Ugualmente rimaniamo perplessi di fronte alla realtà di un corpo glorioso, perché la conformazione nostra fisica è sinonimo di materia, passioni, tendenze, esigenze, aspirazioni.
Togli questi interrogativi dalla tua mente di cosa faremo lassù. E’ la nostra materia che ci pone questi interrogativi. Pensa alle parole rassicuranti del Cristo “... Beati quelli che ora piangono…che soffrono…che sono miti…perché di essi è il Regno dei Cieli...” . E ricordati che lassù c’è un posto preparato per te!
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don Lucio Luzzi