Discorso n.53 di San Massimo di Torino (circa 350-423
d.C.)
Un grande e sublime dono, o fratelli, ci ha concesso Dio in
questo salutifero giorno pasquale, nel quale il Signore, risorgendo, concesse a
tutti la risurrezione e, salendo dalla profondità alle altezze, nel suo corpo
innalzò pure noi dalle realtà inferiori a quelle di lassù. Secondo l’Apostolo,
infatti, noi tutti cristiani siamo corpo di Cristo e sue membra. Se perciò
Cristo è risorto, con lui sono necessariamente risorte le sue carni.
E veramente, mentre egli dagli inferi risale sulla terra, fa
passare noi dalla morte alla vita. In effetti, il termine ebraico “pasqua” in
latino vuol dire “passaggio” o “avanzamento”, appunto perché tramite questo
mistero si passa dal peggio al meglio. È certo un utile passaggio il pervenire
dai peccati alla giustizia, dai vizi alla virtù, dalla vecchiaia all’infanzia.
Infanzia, direi, non di anni, ma di semplicità, dato che
anche i meriti hanno una loro età. Prima, infatti, eravamo prossimi alla morte
per la vecchiaia dei peccati; una volta risorto Cristo siamo stati rinnovati
nell’innocenza infantile. Anche la semplicità cristiana possiede una sua
infanzia. Come, infatti, un bambino non è in grado di arrabbiarsi, non sa
truffare, non ardisce vendicarsi, così l’infanzia cristiana non si adira con
chi danneggia, non si oppone a chi depreda, non resiste a chi percuote. Da ultimo,
come comandò il Signore, prega persino per i nemici; a chi toglie la tunica
lascia pure il mantello; a chi percuote sulla guancia, offre anche l’altra.
Sennonché l’infanzia di Cristo è migliore di quella naturale
in quanto questa non sa peccare, quella aborrisce il peccato; l’una è inoffensiva
per debolezza, l’altra innocente per virtù. A suo merito va perciò ascritto non
già che non possa fare il male, quanto che non vuole compierlo.
Come allora dicemmo, vi sono diverse età di meriti. In effetti,
come nei fanciulli si riscontra una maturità morale, così negli anziani si
trova l’innocenza dei bambini. Il fatto, poi, che anche nei giovani ci sia una
maturità morale, lo afferma il profeta: “Una vecchiaia veneranda non è quella
che dura a lungo, né si calcola dal numero degli anni; canizie infatti è la
sapienza dell’uomo” (Sap 4, 8s).
Agli apostoli, poi, già maturi ed attempati, il Signore
dice: “Se non vi mutate e non diventate come questo fanciullo, non entrerete
nel regno dei cieli” (Mt 18, 3). Li richiama alla loro origine, li spinge a
ritornare all’infanzia in modo che, pur invecchiati in un corpo caduco,
rinascano ad una condotta innocente, come dice il Salvatore.
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silvio