venerdì 30 novembre 2007

Il Padre Pio di Sergio Luzzatto

La figura di Sergio Luzzatto non ha mai suscitato in me una grossa simpatia. Si autodefinisce spesso – e comunque lo è a tutti gli effetti - storico “di professione”, soprattutto quando è coinvolto nelle non poche polemiche di cui a volte è protagonista. Nelle sue parole c’è un continuo voler rimarcare l’asserita oggettività e neutralità della ricerca storica che però, di fatto, non sono mai esistite, neanche negli approcci più distaccati e strettamente documentari. Un certo punto di vista nell’affrontare gli argomenti è inevitabile, sempre, e per questo l’accesa faziosità in cui spesso, nonostante gli intenti, si risolvono gli interventi di questo giovane professore di storia a Torino, a rifletterci bene, non dà fastidio più di tanto. Un po’ più urtante, invece, è la sua aria da professorino saccente, che sembra volare sempre alto sopra tutto e tutti con il suo fare imbronciato e stizzito, menando fendenti a destra e sinistra (nel senso anche politico dei termini) per punire gli incauti superficiali che osano addentrarsi nei territori riservati al professionista della storia. Uno scrittore come Giampaolo Pansa, il cui libro divulgativo “Il sangue dei Vinti” ha scatenato le ire del nostro, lo ha ribattezzato “ il signor Ghigliottina”. Viste queste premesse, mi aspettavo che il suo ultimo libro, sorprendentemente legato alle vicende di San Padre Pio, fosse dissacrante al massimo, viste anche le sue credenziali di laicissimo e progressista “doc”. Dissacrante nel senso di opera non agiografica, tutta volta a presentare la figura di un uomo collocato in un preciso contesto storico, laicamente analizzata senza indulgere a devozionalismi e attenzioni indebite, per un ateo come Luzzatto, alla realtà del soprannaturale, sulla quale il libro, come dice lo stesso storico, non vuole prendere nessuna posizione. Per cui, conoscendo già i suoi scritti, mi attendevo che Luzzatto desse molto spazio al rapporto tra la figura del frate del Gargano e gli eventi più sanguinosi svoltisi durante la sua vita, come i due conflitti mondiali e l’avvento dei totalitarismi di vari colori, argomenti di cui questo storico di origine ebraica è sicuramente esperto. In effetti, è andata proprio così: l’attenzione al contesto politico e sociale in cui si muove Padre Pio è preponderante. Riguardo alla “fenomenologia corporale” del santo, poi, quest’ultima fatica di Luzzatto su Padre Pio si muove sulla scia di altre sue opere senz’altro originali, come “ Il corpo del Duce”, in cui si affronta il tema del fascinoso carisma di Benito Mussolini da vivo e anche da morto, tramite il ruolo del corpo nelle diverse situazioni. In fondo, questi due libri di Luzzatto ora citati non sono così lontani, dato che anche la figura di Padre Pio viene inevitabilmente tratteggiata, come detto, facendo risaltare la sua ben nota e straordinaria corporeità ( stimmate, effluvi di sangue, bilocazione, il suo aspetto fisico e il suo modo di fare talvolta irruente e debordante, schietto e diretto, tipico di certa gente meridionale). Questa attenzione dello storico ebreo alla “fisicità” dei personaggi della storia, tutto sommato, credo abbia un po’ a che fare con il suo retaggio ebraico.
Comunque sia, anch’io inizialmente, come molti, mi sono lasciato un po’ fuorviare dalla deformazione mediatica dei contenuti del libro che, quasi certamente, non è stata casuale. Come, ad esempio, il voler sottolineare da parte della stampa, tra i tanti spunti contenuti nell’opera (“Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Nocevento”, Einaudi), quelli più eclatanti e di per sé banali, tra cui la vecchia storia dell’acido fenico. Il riferimento a quest'ultimo episodio, se estrapolato troppo seccamente dal contesto in cui è riportato nel libro, lascerebbe intendere che la sostanza sarebbe stata usata dal Padre per procurasi le stimmate. Mi sembra che tutto questo rientri nel rumore della grancassa mediatica, volta a esaltare solo quegli aspetti più adatti a creare reazioni automatiche in certi lettori, creando i presupposti per il battage pubblicitario che inevitabilmente segue la rissa e le polemiche. In questo caso, si tratta delle reazioni scatenate dopo il lancio del libro da parte di molti cattolici che, in buona fede e senza aver letto il libro, si sono subito scagliati contro chi avrebbe infangato la memoria di Padre Pio. Certo, delle ragioni per essere scettici non mancano: l’intento demistificatorio nell’opera di Luzzatto fa spesso capolino dalle oltre quattrocento pagine del libro. Ma è molto più velato, sicuramente non di grana grossa, ed è nascosto dietro all’apparente freddezza della ricerca, dietro a piccole frasi e osservazioni ironiche buttate qua e là con nonchalance, non certo nel pregiudizio crasso e macroscopico da positivista ottocentesco, per cui tutto il prodigioso è solo truffa e voglia di ingannare il popolino.
Tuttavia, la panoramica su una certa Italia di primo Novecento e post bellica, e al suo modo di rapportarsi alla dimensione del soprannaturale in un’epoca in cui ben altre “sacralità” neopagane stavano emergendo in Italia e Germania, appare a nostro avviso stimolante. Si legge, certamente, tra le righe un certo disprezzo, condito da osservazioni gratuite sulla sincerità dei loro gesti, verso alcune figure, come ad esempio quella del futuro papa Pio XII il quale, in visita a un lager di prigionieri italiani, pronuncia frasi di conforto, ritenute dal Luzzatto di semplice circostanza. Questo gratuito processo alle intenzioni è solo un banale, piccolo esempio, così come appare in fondo insignificante quell’osservare, in base ad alcuni documenti, che la fortuna della Casa Sollievo della Sofferenza, la grandiosa struttura voluta dal padre oggi all’avanguardia nelle cure di varie malattie, sarebbe legata anche a traffici di denaro facenti capo alla Francia e a Emanuele Brunatto, uno dei più noti figli spirituali di Padre Pio; un Brunatto, per altro, descritto come uno spregiudicato affarista e millantatore. In un’ottica di fede, la cosa non sorprende più di tanto: il Signore sa dare la luce anche tramite povere lampadine bruciate come siamo noi uomini (come ebbe a dire, mi pare, Oscar Luigi Scalfaro: il ché è tutto dire). In ogni caso, non manca una certa obiettività nel voler descrivere quello che è veramente successo nella Chiesa gerarchica riguardo alla figura del santo. Essa si è oggettivamente divisa a suo tempo sul Padre, anche se non in quella maniera così drammatica cui spesso si crede. Del resto, le vicende incentrate sulla “persecuzione”del santo del Gargano da parte di un padre Gemelli, un monsignor Maccari e un forse inconsapevole Giovanni XXIII erano già ben note. Ma è ben noto anche il favore che padre Pio ha incontrato presso Pio XII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, il che mi sembra bilanciare “ad abundantiam” certe deficienze manifestate da uomini di Chiesa.In definitiva, il libro di Luzzatto, con tutti i suoi limiti e pregiudizi, può risultare comunque stimolante, vista anche la brillantezza della prosa e il modo accattivante della narrazione.
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Paolo

martedì 27 novembre 2007

La rivista l’Ape

Nei primi anni dell’800, il marchese Cesare d’Azeglio (1763-1830) è al centro di una multiforme attività culturale, come fondatore e redattore del periodico L’Ape, considerato il primo esempio di giornalismo cattolico nell’Italia dell’800’: la rivista aveva per sottotitolo Scelta d’opuscoli letterari e morali estratti per lo più da fogli periodici ultramontani.
Si trattò quindi di una rivista che, almeno all’inizio, nei primi tre fascicoli, non pubblicò articoli originali bensì una scelta di articoli tratti da periodici stranieri, soprattutto francesi ma anche inglesi e tedeschi: a partire dal quarto numero cominciarono invece a comparire articoli originali di collaboratori italiani di chiara fama, come Diodata Saluzzo, Francesco Galeani Napione, Giovanni Marchetti, Luigi Clasio (Fiacchi) e Luigi Lanzi.
Essa vide la luce il 30 Agosto 1803 e uscì, con cadenza mensile, fino al 31 Luglio 1806.
All’inizio – come s’è detto – si pubblicavano articoli ripresi dai più importanti quotidiani dell’epoca, quali il Mercurio (ossia il Mercure de France ), il Journal des Débats, gli Annales litteraires et morales, peraltro già abbastanza noti in Italia: erano inoltre presenti recensioni e giudizi su libri italiani e stranieri. La responsabilità maggiore della pubblicazione del giornale ricadde sull’Azeglio, che celava la propria identità sotto lo pseudonimo di Ottavio Ponzoni o, più semplicemente, sotto la sigla O.P.: numerosissimi furono gli scritti - riportati in traduzione italiana- dei maggiori autori cattolici controrivoluzionari, dall’abate Barruel al La Harpe, dallo Chateubriand al de Bonald. Nata in un momento difficile della storia d’Italia, l’Ape rappresentò una voce stonata, se si vuole, rispetto alla temperie culturale del momento ma coraggiosa nella sua piena fedeltà all’ortodossia cattolica: pur con il timore di una reazione francese, essa costituì un primo e importante strumento di informazione e di scambio di idee, esaminando e passando al vaglio le principali novità storiche e filosofiche e indicando al cattolico "romano" una possibile forma di reazione culturale. Quando si muove l’obiezione che fosse una rivista d’élite, adatta ad un pubblico scelto e preparato, si dice certamente il vero, ma non bisogna dimenticare che, diffusa in uno stato come il Granducato di Toscana, in cui era stato presente a livello istituzionale il giansenismo, si propose senz’altro la circolazione di idee e di principi ad esso contrari, anticipando e mostrando anche la strada ad una possibile stampa "popolare", come nel caso degli almanacchi.
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Gianni

venerdì 23 novembre 2007

Pensiero della Domenica - 24

25/11/2007 - Cristo Re

Motivo della condanna: si proclama Re


Lo interrogarono: "Sei tu il re dei Giudei?". Rispose il Cristo: "Si, l'ho detto e lo ripeto: io sono Re". La Chiesa oggi, ha cambiato il colore liturgico; È terminato ormai il colore verde, che ci ha accompagnato per tutta la lunga serie delle domeniche estive. In questa domenica il celebrante indossa i paramenti di colore bianco; è la grande Festa di Cristo Re.

Leggendo la Bibbia si rimane sconcertati , perchè il linguaggio di Dio è completamente differente dal nostro. Per noi il concetto di Re è sinonimo d superiorità, predominio, potenza. Il simbolo della regalità è qualcuno che domina, che comanda, che è superiore agli altri, ai sudditi.
Ora sentire parlare Cristo che dice, io sono Re, fa una certa impressione e ne fece tanta al suo tempo, fu motivo di scandalo, tanto è vero che lo denunciarono, lo portarono in tribunale, perchè aveva osato dire che Lui era il vero Re, invece di Cesare. Ma il Cristo specifica: "Il mio Regno non è di questo mondo, altrimenti anche io avrei un esercito, una legione, miriadi di angeli che mi potrebbero difendere".
Cristo Re ripete ai suoi sudditi: "Io preparo un posto, in questo Regno Eterno che si chiama paradiso e vi invito a seguire questa strada, l'unica che porta alla salvezza, la strada dell'amore, della fratellanza, cercando ripetutamente nella vita terrena di guadagnarsi questo paradiso, facendo del bene... ".

La bandiera che sventola, del cristianesimo, porta una sola scritta: ama il prossimo tuo. Ricordati che il tuo prossimo più immediato è la famiglia dove sì vive continuamente, accettando, a volte, contrarietà, forse anche umiliazioni!
Cristo vorrebbe essere il Re della tua famiglia; per credere a questo ci vuole fede. Il 19 febbraio 1527 si riunì a Firenze nel palazzo della Signoria, quello che noi chiamiamo oggi il consiglio comunale.
C'erano i vessilliferi, i capitani del popolo e vari rappresentanti. Si discuteva del più e del meno, ad un certo punto prende la parola Pier Capponi. Parla animatamente di problemi sociali, di necessità che incombevano tra la popolazione; poi si mise in ginocchio davanti a tutti e disse: "lo propongo a Firenze Repubblicana di eleggere Cristo Re dei Fiorentini". Tutti scoppiarono in un applauso, approvarono questa sua mozione e fu eletto ufficialmente Cristo Re dei fiorentini!

Ancora oggi all'ingresso di palazzo della Signoria c'è una lapide in latino che ricorda questo atto di fede dei fiorentini. Prova anche tu a sentire la gioia di essere suddito di questo grande Re che ti viene incontro, ti aiuta, ti vuole bene, ti perdona; l'unico che ti sa capire, ti comprende nella tue miserie e nelle tue debolezze.

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don Lucio Luzzi

mercoledì 21 novembre 2007

Siamo macchine, o persone destinate alla Resurrezione?

Nonostante la sterminata mole cartacea e le innumerevoli discussioni sull’argomento, ritengo che la questione dei trapianti di organi e la concezione del corpo nella cultura odierna post-cristiana difficilmente possano essere affrontate con cognizione di causa, anche in certi ambienti che si professano cattolici.
Questo è dovuto soprattutto allo smarrimento dell'originario valore attribuito al corpo e al suo destino nella visione cristiana tradizionale. Da un lato, la cultura laicista, priva di un orizzonte trascendente, raramente riesce ad andare oltre una visione puramente funzionale e utilitaristica. E questo è comprensibile. Ma questa concezione, seppur in maniera sotterranea e a volte non del tutto cosciente, sembra essersi insinuata anche nel mondo cattolico.

L'idea di un destino trascendente ed eterno del nostro povero corpo mortale, legata alla fede nella Resurrezione della carne, appare oggi molto scolorita anche fra tanti cristiani. L'insistere pervicacemente sulla bontà del trapianto e la "bellezza" del gesto di donazione da parte di gruppi e associazioni cattoliche sembra allinearsi con la corrente mentalità laicista, mettendo in ombra il fatto che, dopotutto, un corpo umano non è solo una misera spoglia senza valore, trattabile come qualsiasi altro elemento naturale.
In realtà, dietro a un gesto di apparente bontà come il donare parti del proprio corpo, si nasconde un inconscio rifiuto (nel caso di questi cattolici) dell’idea dell’importanza del corpo come elemento destinato alla risurrezione finale, dunque pregno di significato anche fortemente simbolico e, in definitiva, non manipolabile a piacimento: principio, questo, che ha per secoli permeato la cultura cristiana e, di conseguenza, quella occidentale.

Forse, l'odierno “trapiantismo” esasperato di molti ambienti cattolici - che, certamente, è spesso accompagnato da buone intenzioni - sembra in realtà un ulteriore segnale della caduta della fede nell’Occidente secolarizzato. Il corpo non è più considerato come un elemento sacro perché “divinizzato” per merito dell’ incarnazione di Gesù e, quindi, già ora contenente un germe di eternità destinato a germogliare in futuro e preparato per essere investito dal soffio dello Spirito Santo al momento della Resurrezione.
Esso non è più un personalissimo santuario da custodire con gelosia (S. Paolo) ma, per l'influenza della mentalità contemporanea ancora carica di utilitarismo e di meccanicismo scientista, è diventato una macchina, fatta di pezzi intercambiabili. Non è più un insieme di carne, anima e spirito, elementi che, a partire grosso modo dalla filosofia di Cartesio, nella cultura occidentale sono stati dissociati l'uno dall'altro. E’ solo un qualcosa di materiale i cui pezzi, come nelle automobili, possono essere spostati o sostituiti a piacimento. In più, ovviamente, si innesta su questa concezione la vergognosa azione di medici che cercano continue sperimentazioni (scientismo) e il traffico degli organi, che spinge talvolta all'espianto anche prima della morte certificata.

Certo, a questa visione di derivazione positivista, ancora molto viva in certi ambienti scientifici e medici, si va sostituendo oggi un “revival” del vecchio pensiero gnostico e spiritualista: ma anche in quest'ultimo il corpo appare assai svalutato, forse anche di più rispetto al vecchio materialismo scientista. E comunque, sembra che anche questo filone neo-spiritualista stia attecchendo fortemente in certo mondo cattolico.

Si obietta spesso, da parte di credenti: ma si cerca di salvare vite umane, laddove organi della persona morta non possono più servire. Ecco, è proprio la parola "servire" che ci riporta alla mentalità materialistica fondata sull’utilitarismo, la quale non vede oltre l’orizzonte terrestre; tutto diventa lecito pur di continuare a vivere, dato che la vita terrena, puramente biologica è il solo bene supremo, non essendoci altre vite dopo di essa.
Così i valori profondi, anche simbolici, della fede nella Risurrezione della carne sono oscurati, e la dignità del corpo dell’essere umano deceduto viene calpestata. Il diritto a voler conservare il corpo integro in attesa della Resurrezione, su cui si basa l’idea della sepoltura cristiana nella cassa che custodisce le spoglie per l’atteso giorno, viene spesso conculcato, con mirate campagne di "sensibilizzazione" che spingono a entrare in questa prospettiva "usa e getta". E' una visione che in qualche modo ci riporta anche, tanto per dire, all'odierna banalizzazione e mercificazione della sessualità.

Ovviamente, in linea teorica non c’è nulla di anticristiano nel voler salvare vite tramite donazione di organi.
Anche il recente Catechismo (CCC, 2296) ribadisce in linea di principio la bontà di un atto del genere. Ma forse è necessario essere più consapevoli che comunque, dietro a tutto questo, c'è il rischio di scivolare in una concezione in fondo non più cristiana delle cose. Il morto è morto, non serve più, non è più “utile": perché affannarsi a pensare a una improbabile dimensione eterna in cui tutto il corpo assume valore, quando lo si può sfruttare "hic et nunc"?

Dunque, dietro all’attuale grancassa della società buonista, che preme per creare la mentalità della “donazione”, c’è spesso in realtà un principio materialistico, una visione anticristiana e secolarizzata che si esprime, ad esempio, nella crescente diffusione della cremazione, anche questa ritenuta accettabile da parte di diversi cattolici.
Tuttavia, chi non vede la differenza - religiosamente parlando – della cremazione rispetto all’inumazione, ha perso completamente il senso della speranza cristiana, e il valore simbolico estremamente pregnante del corpo. La Chiesa cattolica l’ha resa lecita oggi, andando oltre una una tradizione secolare. Certo, in questo caso c’è la clausola dell’ammissibilità della cremazione a patto che non si neghi per principio l’idea della Risurrezione, il che sembra il classico modo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Forse, anche questa concessione è uno dei segni - ormai tanti, forse troppi - di un parziale cedimento della prassi della Chiesa - non della dottrina - alla mentalità del mondo.
Di fatto, oggi, molte decisioni sembrano demandate alla coscienza del singolo, che può sicuramente imbrogliare le carte o, almeno, avere idee molto confuse sulla questione. Dire infatti che la cosa è accettabile, a patto che sia rimasta nella persona l’idea della Risurrezione (come poi verificarlo in concreto?), sembra un voler demandare troppo alla coscienza del singolo, oggi purtroppo abbondantemente deformata su certi temi.

Così, sembra che si rinunci implicitamente alla propria funzione di guida pastorale e di esempio, che prevederebbe una linea chiara e ben definita su questa e molte altre questioni. Di fatto, ci si apre al rischio dell’indifferenza e della perdita del senso della Tradizione, confondendo la massa dei fedeli poco attenti alle sottigliezze, e in cerca di risposte certe su temi che toccano i destini eterni.
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Paolo

Presentazione della Beata Vergine Maria

di Piero Bargellini, dal sito Santi e Beati

«La memoria odierna della Presentazione della Beata Vergine Maria ha un'importanza notevole, non solo perchè in essa vien commemorato uno dei misteri della vita di Colei che Dio ha scelto come Madre del Suo Figlio e come Madre della Chiesa, nè soltanto perchè in questa 'presentazione' di Maria vien richiamata la 'presentazione' al Padre celeste di Cristo e, anzi, di tutti i cristiani, ma anche perchè essa costituisce un gesto concreto di ecumenismo, di dialogo con i nostri fratelli dell'Oriente.

Questo emerge con chiarezza sia dalla nota di commento degli estensori del nuovo calendario sia dalla nota della Liturgia delle Ore, che dice: 'In questo giorno della dedicazione (543) della chiesa di S. Maria Nuova, costruita presso il tempio di Gerusalemme, celebriamo insieme ai cristiani d'oriente quella 'dedicazione' che Maria fece a Dio di se stessa fin dall'infanzia, mossa dallo Spirito Santo, della cui grazia era stata ricolma nella sua immacolata concezione'. Il fatto della presentazione di Maria al tempio, com'è, noto, non è narrato in nessun passo dei testi sacri, mentre viene proposto con abbondanza di particolari dagli apocrifi, cioè da quegli scritti molto antichi e per tanti aspetti analoghi ai libri della Bibbia, che tuttavia sempre la Chiesa ha rifiutato di considerare come ispirati da Dio e quindi come Sacra Scrittura.
Or secondo tali apocrifi, la presentazione di Maria al tempio non avvenne senza pompa: sia nel momento della sua offerta che durante la permanenza nel tempio si verificarono alcuni fatti prodigiosi: Maria, secondo la promessa fatta dai suoi genitori, fu condotta nel tempio a tre anni, accompagnata da un gran numero di fanciulle ebree che tenevano delle torce accese, col concorso delle autorità gerosolimitane e tra il canto degli angeli.

Per salire al tempio vi erano quindici gradini, che Maria salì da sola, benchè tanto piccola. Gli apocrifi dicono ancora che Maria nel tempio si alimentava con un cibo straordinario recatole direttamente dagli Angeli e che ella non risiedeva con le altre bambine ma addirittura nel 'Sancta Sanctorum' (che veniva invece "visitato" una sola volta all'anno dal solo Sommo Sacerdote).
La realtà della presentazione di Maria dovette essere molto più modesta e insieme più gloriosa.
Fu infatti anche attraverso questo servizio al Signore nel tempio, che Maria preparò il suo corpo, ma soprattutto la sua anima, ad accogliere il Figlio di Dio, attuando in se stessa la parola di Cristo: 'Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano'.»

Ragione e volontà

Riporto, di seguito, una considerazione di Blaise Pascal - ma non ne è certa la paternità - che non condivido interamente:

«
L’uomo è nato per pensare; perciò non c’è momento che non lo faccia; ma il puro pensiero, che lo renderebbe infelice se egli potesse sempre sostenerlo, lo affatica e lo prostra.
È una vita uniforme, alla quale non può adattarsi; egli ha bisogno di movimento e di azione, ha bisogno cioè di essere di tanto in tanto scosso dalle passioni, di cui sente di avere nel cuore sorgenti vive e profonde
.» (dal “Discorso sulle passioni d’amore”, 1652-1653)

Dalla tradizione classica del pensiero, specialmente medievale, direi che è più corretto dire che l’uomo è nato per pensare e per volere.
Ridurre l’attività primaria al solo pensiero non tiene conto del modello antropologico classico, che vede la persona come unione di corpo, anima e spirito (Aristotele, San Paolo).
Il pensiero moderno - in questo caso, ad esempio, Amartya Sen e Martha Nussbaum - parlerebbero della persona come insieme di “capacità” (“capability”).


In ogni caso non è auspicabile una divisione tra razionalità e volizione, come quella celebre che contrappose domenicani e francescani.
Pascal giunge così a concepire la passione quasi come “soccorso esterno” per l’uomo, annoiato dalla speculazione.
Ma la passione nasce da lui stesso, mediante la volontà, che non è mai separata dalla ragione.

Sono come due movimenti “interni” alla persona: la ragione che interpreta il mondo e la volontà che esercita l’arbitrio, nutrendo così le relazioni interpersonali - vicende, sentimenti, sofferenze, estasi.
Vedo, quindi, la volontà come la sorgente delle passioni, non meno della ragione che è la sorgente del pensiero speculativo.
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Silvio

lunedì 19 novembre 2007

Prima vera novità ecumenica

È abbastanza evidente come, finora, le pur lodevoli iniziative ecumeniche abbiano fruttificato assai poco. Constato, non giudico.
Il Concilio Vaticano II aveva preventivato un maggiore impegno a favore del riavvicinamento e della successiva unione - meglio: riunione - delle Chiese ortodosse e delle Confessioni cristiane protestanti alla Chiesa cattolica romana.


In merito alle Chiese ortodosse orientali, dopo lo storico abbraccio tra Paolo VI e Atenagora nel 1967, è come si fosse concordata una tacita prassi: ad ogni incontro tra il romano Pontefice ed un Patriarca dell'Oriente, veniva redatta una “dichiarazione comune”, nella quale erano riportate le comuni credenze di fede. Qualcosa del genere è avvenuto anche in relazione al Protestantesimo.

È però innegabile che, nel corso di quest'ultimo quarantennio, alle ripetute aperture, concessioni e “alleggerimenti” (per non dire aggiustamenti) dottrinari da parte della Chiesa di Roma, non sono corrisposte altrettante iniziative simili da parte della restante cristianità.
Anzi, bisogna dire con triste evidenza che, ortodossi e protestanti, non solo non hanno abbandonato quanto di errato vi è nelle loro pur nobili tradizioni, ma non si sono discostati nemmeno di una letterina dalle proprie posizioni originarie.


Non se ne sono discostati, fino al 13 ottobre di quest'anno.
Fino al Documento di Ravenna, titolato “Le conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa: comunione ecclesiale, conciliarità e autorità”, redatto a cura dei membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa.


Successivamente (prossimamente su Sivan) mi occuperò del principio di autorità e di conciliarità (da non confondere con il conciliarismo, che è un'eresia).
Adesso mi limito ad andare al nocciolo. Innanzitutto la Chiesa ortodossa riconosce la validità del concetto di taxis, ovvero dell'ordine canonico d'importanza delle cinque maggiori sedi episcopali dell'antichità: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Il documento ritiene valida l'opinione di Sant'Ignazio di Antiochia, secondo il quale la Chiesa di Roma «presiede nella carità». Pertanto, il Documento di Ravenna considera Roma al «primo posto nella taxis» e «il vescovo di Roma è pertanto il protos tra i patriarchi» (n. 41).


Non solo: al n. 42 del Documento si ribadisce che «la conciliarità [...] nei concili ecumenici, implica un ruolo attivo del vescovo di Roma, quale protos tra i vescovi delle sedi maggiori [...]».
Detto in altre parole, gli ortodossi - per la prima volta dopo parecchi secoli - riconoscono al romano Pontefice una supremazia d'autorità su tutti i vescovi dell'ecumene. Ovvero lo riconoscono quale primo Patriarca. Questa dichiarazione è notevolissima e costituisce una novità ecumenica assoluta, almeno rispetto agli ultimi due secoli.


Strada spianata, allora, verso la riunificazione? No. Primariamente perché è da specificare che il Papa è sì il primo Patriarca, ma lo è “tra pari”.
Si deve, dunque, chiarire quale dovrebbe essere il compito specifico del Papa, in una Chiesa riunificata. E questo chiarimento si avrà verosimilmente - sempre che si avrà - dopo parecchie discussioni (e scontri).
Una cosa però è già chiara: l'unità ha come maggior nemica la sete del potere, che riesce a tacitare anche l'evidenza teologica di un primato petrino.


Ulteriori approfondimenti qui e qui.
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Silvio

venerdì 16 novembre 2007

Pensiero della Domenica - 23

A cura del sitoVie dello Spirito

18/11/2007 XXXIII^ T.O.
Non vi lasciate ingannare

Siamo alla penultima domenica dell’anno liturgico. Domenica prossima, la chiusura con la Festa di Cristo Re e poi la Chiesa nella sua liturgia, inizierà il nuovo cammino con la preparazione al Natale. “Hora ruit” dicevano gli antichi, ed anche questo anno solare se ne sta andando, irripetibile per la nostra vite terrena!


La Parola di Dio di questa domenica inizia con un brano del profeta Malachia. E’ l’ultimo della serie di dodici profeti minori; di lui non sappiamo nulla. Profetizza la fine dei tempi, quando verrà il Signore a far trionfare la sua giustizia sugli empi e la sua misericordia sui giusti. E subito canteremo con il Salmo 97 che invita tutti “esultino davanti al Signore che viene / che viene a giudicare la terra. / Giudicherà il mondo con giustizia / e i popoli con rettitudine…”.


Nella lettera che l’apostolo Paolo invia agli abitanti di Tessalonica, c’è l’ammonizione a tutte le comunità cristiane di non vivere trascurando la realtà della fine dei tempi e nemmeno di agitarsi, ma compiere ogni giorno, con rettitudine, i propri doveri. E nel Vangelo di Luca viene descritto Gesù che per l’ultima volta esce dal tempio per recarsi a Betania e lì passare in profondo raccoglimento tutto il mercoledì santo. Passò dal cortile delle donne al cortile dei Gentili; uscì dal tempio, passando per la porta dorata, che era ad oriente, discese sul Cedron, risalì il monte degli Ulivi, costeggiò il monte verso sud-est per raggiungere alle sue falde orientali, Betania. Guarda da lì, in lontananza il tempio di Gerusalemme e dice: “Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta”. La tremenda profezia si avverò letteralmente nella conquista romana di Gerusalemme, avvenuta nell’anno 70, quando, contro gli ordini dello stesso Tito, il tempio fu raso al suolo, rimanendo tale anche in seguito, nonostante il tentativo di ricostruzione di Giuliano l’Apostata.


La prospettiva per i cristiani, dice Gesù, è quella di soffrire, per il suo nome, ma garantisce allo stesso tempo, la sua protezione. La condizione perché la sofferenza non produca alcuna menomazione, spirituale e corporale, nella vita eterna, è la costanza. Grande insegnamento per noi facili all’affievolimento, alla sfiducia, allo scoraggiamento. Se continuiamo a dare spazio nella nostra mente, agli interrogativi ossessionanti “Ma perché tanti guai... perché tanta sfortuna… perché la sofferenza”, le nostre conclusioni saranno pessimismo e rifiuto della Parola di Dio.

Cerchiamo di camminare illuminati dalla fede, nella consapevolezza che tutti andiamo verso la conclusione della nostra vita terrena, ma con la certezza, che la nostra esistenza spesso così amara e travagliata, sarà frutto di vita eterna. “Che giova all’ uomo guadagnare il mondo intero se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc.9,24-25).
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don Lucio Luzzi

giovedì 15 novembre 2007

Giuseppe Mazzini: uno strano tipo di credente

Articolo di Angela Pellicciari

«Secondo Giuseppe Montanelli, protagonista delle lotte risorgimentali nonché antenato di Indro, il giornalista scomparso da alcuni anni, il grande merito di Giuseppe Mazzini è stato quello di aver parlato di Dio, e quindi di spirito, ad una popolazione che, tutta cattolica, senza Dio non si sarebbe mossa di un passo. A lui «debbonsi lodi per alcun bene che fece -sostiene-, non come fuoruscito orditore di cospirazioni impotenti e sacrificatrici, ma come letterato propugnatore di spiritualismo. Né fu piccolo servigio». Sempre intento a scrivere a tutti, compresi papi e re, in perenne cospirazione politica, l’avvocato Giuseppe Mazzini, dall’estero, dirige le sorti e la vita di quanti, in Italia, obbedendo alle intuizioni del Maestro, mettono la propria vita e le proprie sostanze a disposizione dell’Ideale: Italia Una, Indipendente, Libera, Repubblicana.

Fondatore della Giovane Italia nel 1831 e della Giovane Europa nel 1834, Mazzini è, direttamente o indirettamente, all’origine di numerosi tentativi insurrezionali e di molti attentati -spesso riusciti- alla vita di persone che violano i patti giurati o che sono politicamente nemiche. Amato e osannato da protestanti, evangelici e anglicani, in una parola sostenuto da tutti i nemici della Chiesa cattolica, Mazzini mette Dio al centro della propria attività politica: Dio lo vuole, Dio e popolo, non si stancherà di ripetere, e scrivere, con ardore profetico. Quale Dio? Certamente il Dio che Mazzini ha in mente non è quello della tradizione cattolica; fin dal 1834, rivolgendosi Ai giovani italiani, così spiega quale sia il fine ultimo della lotta al potere temporale dei papi: «L’abolizione del potere temporale evidentemente portava seco l’emancipazione delle menti degli uomini dall’autorità spirituale».

Massimo D’Azeglio dice di lui che «legato a società bibliche inglesi e americane» cerca «di rendere l’Italia protestante». Ma D’Azeglio sbaglia perché il padre nobile del partito repubblicano condivide l’odio anticattolico e anticristiano della Carboneria: «La missione religiosa consiste nella sostituzione del dogma del progresso a quello della caduta e della redenzione per grazia». Ripudiata la Rivelazione, il nome di Dio serve a Mazzini per propagandare una nuova fede, la fede nel progresso: “Crediamo unica manifestazione di Dio visibile a noi la vita; e in essa cerchiamo gli indizi della legge divina. Crediamo nella coscienza, rivelazione della Vita nell’individuo e nella Tradizione, rivelazione della vita nell’Umanità». Così scrive a Pio IX nel 1865 e così continua: «Crediamo che il Progresso, legge di Dio, deve infallibilmente compiersi per tutti. Crediamo che l’istinto del Progresso» sia «la sola rivelazione di Dio sugli uomini, rivelazione continua per tutti». Maestro dell’inganno, maestro nel gioco delle parole, maestro nell’usare i termini più familiari alla popolazione cattolica attribuendo loro un significato radicalmente diverso, Mazzini ha un’unica fede: che il suo modo di pensare sarà condiviso da tutti. L’esule vive in un’epoca che, perlomeno in Italia, è ancora cristiana. Un’epoca quindi che rigetta nella maniera più netta la concezione del progresso che Mazzini sostiene debba infallibilmente compiersi per tutti. Ciononostante il leader repubblicano, colui che esalta con più convinzione il ruolo del popolo, sostiene, e predica, che TUTTI indistintamente dovranno pensarla come lui. Che TUTTI indistintamente dovranno smetterla di essere cristiani. Mazzini dà per scontato che la sua idea di progresso, e cioè la fine di ogni Rivelazione, diverrà realtà. Stessa identica fede, democratica e totalitaria, professa in quel periodo la Massoneria.

Nel 1863, la Costituente della rinata (dopo la parentesi della Restaurazione) Massoneria italiana, stabilisce, all’articolo 3, che i principi massonici debbano gradualmente divenire «legge effettiva e suprema di tutti li atti della vita individuale, domestica e civile» e specifica, all’articolo 8, che fine ultimo dell’Ordine è: «raccogliere tutti gli uomini liberi in una gran famiglia, la quale possa e debba a poco a poco succedere a tutte le chiese, fondate sulla fede cieca e l’autorità teocratica, a tutti i culti superstiziosi, intolleranti e nemici tra loro, per costruire la vera e sola chiesa dell’Umanità». «Crediamo che Dio è Dio e che l’Umanità è il suo Profeta», scrive Mazzini. Felice Orsini, l’attentatore a Napoleone III che pagherà con la vita il proprio gesto, ha facile gioco nell’apostrofare l’antico Maestro col beffardo nomignolo di «secondo Maometto». Bisogna proprio dirlo: quante cose si fanno e si predicano in nome dell’Umanità con la u maiuscola.»

lunedì 12 novembre 2007

Pensiero della Domenica - 22

A cura del sitoVie dello Spirito

XXXII^ T.O.
11/11/2007

La risurrezione dei morti è opera di Dio

La più grande fatica del Cristo, durante la sua evangelizzazione, è stata quella di sopportare i Sadducei che cercano ogni pretesto per mettere in difficoltà il Messia e trovare possibili capi di accusa. Si presentano infatti alcuni Sadducei, che notoriamente non credono che esista la risurrezione. Presumibilmente furono sobillati dagli stessi che avevano precedentemente inviato Farisei ed Erodiani a porre la questione del tributo a Cesare. Hanno sempre un atteggiamento cortese e danno la sensazione al popolo che segue Gesù, di chiedere spiegazioni , aiuto a comprendere la verità. Un giorno anche per il Cristo prevalse l’impulso umano e li apostrofò “Sepolcri imbiancati, razza di vipere...”.
Questa delegazione di Sadducei si appella alla legge scritta da Mosè (Deut.25,5-6) del “Levirato” (dal latino “levir” – cognato) che serviva ad impedire l’estinguersi della famiglia e si riferisce propriamente ai fratelli che abitano insieme. Simile uso vigeva anche presso altri popoli antichi. "C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette; e morirono tutti senza lasciare figli. Da ultimo anche la donna morì. Questa donna dunque, nella risurrezione, di chi sarà moglie?”.
Gesù prescinde dall’animo insidioso con cui veniva posto il caso ed approfitta ben volentieri dell’ occasione per dare, su un argomento così importante, un insegnamento spirituale. Sottolinea il fine primario del matrimonio, che è la conservazione e l’incremento della specie umana e fa una osservazione pratica molto elementare, facilmente accessibile anche a quelle menti grossolane; non vi è nel mondo dei risorti la necessità che vi è sulla terra, di nuove nascite perché l’umanità non si estingua.
La risurrezione da morte non si riferisce soltanto alla sopravvivenza dell’anima, per la quale non si poneva neppure il quesito, ma alla piena risurrezione che per la natura umana, fatta di anima e corpo, avverrà, alla fine dei tempi, con la risurrezione dei corpi. Soltanto per Gesù e la Madonna, tale risurrezione è avvenuta subito. Ecco la risposta di Gesù ai Sadducei: ”I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio”.
Quante volte abbiamo inteso anche noi parlare di anima immortale e di risurrezione alla fine dei tempi, del nostro corpo. E’ un fatto così straordinario che ci sembra impossibile possa realizzarsi! Noi materializziamo tutto con il nostro ragionamento e non riusciamo a capire e quantificare il tutto. Addirittura il paradiso in concreto non è che ci entusiasma troppo, perché non riusciamo ad ipotizzare in concreto questo godimento eterno, ed istintivamente ci sembra quasi di poterci annoiare, perché il nostro metro di paragone sono i fuggevoli momenti di godimento qui sulla terra. Ugualmente rimaniamo perplessi di fronte alla realtà di un corpo glorioso, perché la conformazione nostra fisica è sinonimo di materia, passioni, tendenze, esigenze, aspirazioni.
Togli questi interrogativi dalla tua mente di cosa faremo lassù. E’ la nostra materia che ci pone questi interrogativi. Pensa alle parole rassicuranti del Cristo “... Beati quelli che ora piangono…che soffrono…che sono miti…perché di essi è il Regno dei Cieli...” . E ricordati che lassù c’è un posto preparato per te!
***
don Lucio Luzzi

Comunicazione

ALLEANZA CATTOLICA

foedus catholicum


Mercoledì 14 novembre 2007 ore 21


DALL`UNIONE SOVIETICA ALLA RUSSIA:

RITORNO AL FUTURO

il 90.mo della rivoluzione d`ottobre nel 90.mo diFatima


Jolly Hotel Ambasciatori

Sala Marconi

Corso Vittorio Emanuele II, 104

TORINO


Ferdinando Leotta - Alleanza Cattolica: Saluto e presentazione.

Marta Dell'Asta - Ricercatrice Fondazione Russia Cristiana: Il contesto culturale e politico che ha preparato e accompagnato il golpe rosso.

Giovanni Cantoni - Direttore di Cristianità: 1989: implosione di un sistema imperiale rivoluzionario.

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Roberto

Siamo sempre tutti Caini?

L’ennesimo episodio tragico, in questo inizio di novembre: la morte di una donna per mano di un romeno. Lo svolgersi degli eventi segue, purtroppo, un copione già noto, anche se con sfumature diverse a seconda dei casi. E purtroppo, a nostro personalissimo giudizio, si ripete ancora una volta il tristissimo rito di un’omelia funebre quasi a senso unico. Un cappellano militare, dopo una rituale e per altro molto blanda invocazione di giustizia, che si auspica retoricamente severa, inflessibile e via discorrendo, passa a un’ammonizione altrettanto rituale – per quello che si è potuto constatare in casi analoghi negli ultimi tempi – sul rischio di una “gravissima” intolleranza xenofoba, invocando a sproposito rischi di dittature non meglio precisate; come se reazioni sporadiche come quella contro tre malcapitati cittadini “comunitari” romeni, giustamente stigmatizzate da quasi tutti, possano essere ritenute più gravi di una bomba esplosiva come quella dell’immigrazione incontrollata.

Nelle parole dell’uomo di Chiesa avvertiamo forte quel senso di rovesciamento di ogni canone di vera giustizia, che impone come primo e unico dovere il riaffermare la giustizia di Dio contro il male commesso dagli uomini, il conforto spirituale e morale verso la vittima e la condanna senza se e senza ma dell’assassino; mettendo decisamente da parte analisi basate su un sociologismo retrogrado e stantio tipo “è colpa della povertà, della società, ecc.”, come ci sembra abbia lasciato intendere questo sacerdote. Di fronte a qualcuno che ha visto irrompere la tragedia nella propria vita, dire che in fondo siamo tutti Caini, e tutto dipende dal caso e dalle circostanze esterne (educazione, cultura ecc.) non crediamo sia quello che chiunque, tanto meno se credente in Cristo, vorrebbe sentirsi dire. Che il peccato alligni in tutti noi è fuori discussione, ma in certi contesti è bene evidenziarlo nella maniera giusta, mostrando una vera misericordia nei confronti della vittima sofferente, oggi quasi sempre dimenticata per un distorto senso di cristiana pietà. Bisogna dirle decisamente che, per una volta, è lei dalla parte del giusto e della Verità. E’ lei che ha subito il male e ha diritto a una riparazione, non solo terrena. L'usuale citazione della "legge suprema dell’Amore", ritualmente invocata accanto alla sottolineatura della colpa di non aver saputo mantenere l’unità dei cristiani (che cosa c’entri questo, lo sa solo il cappellano…), non è purtroppo accompagnata da un saldo riferimento al principio della giustizia retributiva, che non è uno dei minori attributi divini secondo la visione cattolica.

Qualche stralcio dell'omelia in questione:

'Sento parlare di intolleranza, ma noi vogliamo giustizia, severa, austera, ma non intolleranza'. sono le parole del cappellano della Marina Militare, nella sua omelia durante il funerale di Giovanna Reggiani. L'intolleranza, ha proseguito il cappellano, 'e' foriera di tensioni pericolose, su questo terreno cresce la malaerba, la dittatura'.

Nella notte, ha proseguito, 'si alza la mano di Caino, noi lo cerchiamo fuori, ma Caino e' in noi: io mi sento Caino quando torno a casa e trovo un letto caldo che mi accoglie, libri, musica. Io ho avuto istruzione, cultura, una famiglia, ma cosa mi sarebbe successo se non avessi avuto tutto ciò'. “In ogni uomo, ha aggiunto, 'c'e' il senso del bene del male e Caino ha sbagliato e ci vuole giustizia. Ma anche Caino che ha alzato la mano su Giovanna e' morto'. Il cappellano militare sottolinea che "i cristiani si riconoscono anzitutto nell'amore verso il prossimo". In tal senso, confessa, "siamo tutti colpevoli, nessuna confessione cristiana esclusa, per non aver neanche saputo tenere l'unità del cristianesimo». Quanto ai provvedimenti legislativi chiesti o promessi di volta in volta, "si accumulano leggi su leggi: credo che il nostro Codice sia infinito ... Ma tutte queste leggi non servono -ammonisce- se dentro di noi non abbiamo la legge suprema dell'amore".

I passi dell'omelia sono tratti da: qui
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Paolo