domenica 30 marzo 2008

Pensiero della Domenica - 38

A cura del sito “Vie dello Spirito

II^ dopo Pasqua - 30/03/2008

"Tommaso, non essere incredulo..."

Dopo la Risurrezione, Gesù apparve dieci volte: alle donne al sepolcro, a Pietro, ai due di Emmaus, a parecchi Apostoli in Gerusalemme, assente Tommaso - poi lui presente al lago di Tiberiade - al Monte della Galilea e a mensa per l’ultima volta all’Ascensione. Ma non tutto, come dice Giovanni, è stato scritto.
Abbiamo celebrato, con la liturgia, i trionfi della Risurrezione ed ora per 40 giorni. Fino all’Ascensione, Gesù deve convincere i suoi che Lui con il suo corpo glorioso, non è un fantasma, ma è veramente in carne ed ossa, come loro per tre anni lo avevano sempre visto, standogli accanto.

In verità, gli apostoli, della Sua risurrezione tante volte preannunciata, non avevano capito niente.
I discorsi che il Maestro faceva loro, di passione, morte, risurrezione, erano inconcepibili.
Hanno dovuto costatare di persona, i tragici fatti del tradimento di uno di loro e della fine cruente del loro Signore. Tanta è la delusione e lo scoraggiamento, che non riescono nemmeno ad ipotizzare che la promessa del Cristo di vincere la morte, si possa essere realizzata.

E mentre i più anziani non esprimono giudizi, il più giovane, Tommaso, confermerà la sua incredulità. Più facile e più radicata a quell’ età, con drastiche decisioni: “Io se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e se non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò…”.
E Gesù lo prende in parola: “… Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente...”.

L’hai notato l’atteggiamento del Cristo?
Non c’è una parola di rimprovero, per il comportamento vile dei suoi amici, dall’arresto nell’ orto degli ulivi in poi.
A Lui interessa confermarli nella fede, manifestando il Suo amore e le Sue premure di sempre per i suoi amici, ai quali dovrà dare, quando li lascerà definitivamente per tornare al Padre, l’arduo compito “… Andate in tutto il mondo, predicate e convertite, testimoniando con la vostra fede”.

Quando Tommaso si getta a terra e fa, finalmente, la sua professione di fede:
"Mio Signore e mio Dio!”, Gesù si rivolge immediatamente a me, a te, a tutti noi: ”… Beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”.
Qui sta il segreto della nostra fede.

Quante volte, anche noi, vorremmo avere prove concrete, tangibili, su tanti aspetti della nostra religione che ci sembrano assurdi, inconcepibili, perché al di fuori completamente dell’uso dei nostri sensi.
E scatta la nostra incredulità, che ci può portare, senza che ce ne accorgiamo, a negare, in pratica, anche i principali motivi di gioia, che ci propone la nostra fede.
Quante volte avrai inteso dire, e tu stesso ti sei posto l’interrogativo; si leggo il Vangelo e rimango attratto da questi eventi... però, questa vita eterna, paradiso, di cui tanto si parla, esisterà davvero?… Nemmeno le mie persone care, dopo la loro vita terrena, sono venute mai a dirmi niente, a darmi certezze...

Lo sai perché, a volte, ti assillano questi pensieri?
Perché con le esperienze amare della nostra vita quotidiana, sembra impossibile che possa esistere un luogo, un tempo di completa felicità eterna, senza fine!
Perché la Chiesa continua a farci cantare ALLELUIA? Proprio perché Cristo con la sua morte e risurrezione, ha garantito ad ognuno di noi, un posto in questa felicità senza fine.
Allontana dalla tua mente l’incredulità.
Fidati di Cristo, via verità e vita, ed anche io e te, gettiamoci insieme in ginocchio e ripetiamo dal profondo del cuore anche noi: ”CREDO SIGNORE, AUMENTA LA MIA FEDE”.
***
Don Lucio Luzzi

giovedì 27 marzo 2008

Lezioni di felicità

(Odette Toulemonde - 2006)
Commedia - 100 min di Eric-Emmanuel Schmitt con Albert Dupontel, Catherine Frot Produzione: Francia, Belgio

E´ raro che soffi il vento dello Spirito in commedie che sanno unire sorriso e riflessione.
A Eric-Emmanuel Schmitt, regista di "Lezioni di felicità", l´impresa è riuscita.
Romanziere e drammaturgo francese di successo, le sue opere sono state tradotte in venticinque lingue e rappresentate in trenta nazioni.
Tra i suoi romanzi ricordiamo Il Vangelo secondo Pilato, San Paolo, 2002; Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, e/o, 2003 e l´ultimo romanzo Oscar e la dama in rosa. Schmitt ha realizzato un film delizioso sulla vita quotidiana di Odette Toulemonde (un nome comunissimo in Francia, come dire "il signor Rossi") appassionata lettrice di bestsellers d´amore che la porteranno ad incontrare l´autore preferito, un certo Balthazar Balsan, e ad aiutarlo a risolvere la crisi familiare con depressione suicida annessa. Finale imprevedibile, dolce e poetico.
Il primo motivo per assaporare il film è la simpatia straordinaria di questa vedova, madre di due figli maggiorenni senza la minima intenzione di lasciare la comoda casa materna: la figlia è indolente e capricciosa, il figlio è omosessuale, unico cedimento del film agli stereotipi del `politicamente corretto´. Comunque non s´indulge mai in retorica gay, anche perché il punto di vista è quello amorevole e accogliente della mamma. Inoltre la spiccata fantasia permette a Odette di non farsi contaminare troppo dallo squallore circostante, la fa letteralmente volare per le strade del quartiere povero in cui vive, sempre con uno sguardo benevolo e trasognato.
Il regista racconta così la nascita del film: "L'idea mi è venuta in seguito ad un episodio che mi è successo in Germania qualche anno fa a Rostock, sul Mar Baltico. Lì sono uno scrittore molto famoso e dopo una lunghissima attesa per farsi firmare le copie del mio libro, una donna truccatissima e molto curata non ha saputo dirmi nulla e mi ha gettato una lettera con un cuore di spugna al suo interno. All'inizio ero indignato e disgustato sia dal tono mellifluo della missiva che dalla sua presentazione kitsch. Poi, in albergo, più per noia che per vero interesse, ho riletto la lettera e ho capito con quanto affetto sincero questa persona mi scrivesse. Mi sono reso conto che, a dispetto del ridicolo del nostro incontro e del vederla strizzata nel suo migliore tailleur, si trattava di una persona intelligente e serena".
Evidente la denuncia dello snobismo di una certa classe intellettualoide (molto attiva in Francia come da noi) incapace di comprendere i sentimenti e le verità elementari dell´esistenza umana: l´amore familiare, la femminilità sensuale e allo stesso tempo materna della protagonista, la resistenza di Odette alle avances dello scrittore ricco e bello in cerca di avventure...
Come Schmitt ha dichiarato sempre nella stessa intervista: "Attraverso la commedia ritenevo giusto dovere dire alcune cose sulla 'Cultura'. Forse nessun intellettuale si prende gioco della povertà, ma, di certo, tutti gli intellettuali ironizzano sulla cultura di massa e delle fasce sociali più basse. La cultura dei poveri fatta di televisione e riviste è considerata volgare. E' un pregiudizio aprioristico che talora è vero, ma non sempre. Queste considerazioni sono una reazione istintiva degli intellettuali contro chi è popolare e che ha un grande pubblico. Alle volte gli intellettuali sembrano fare assurdamente parte di un club elitario e misantropo dalle porte chiuse..." .Sappiamo quanto tutto ciò sia vero anche in Italia nei confronti di uno scrittore popolare nel senso più autentico del termine come Giovannino Guareschi del quale, finalmente, è in atto la riscoperta delle straordinarie qualità di narratore (Guido Conti, Giovannino Guareschi. Biografia di uno scrittore, Rizzoli, 2008)
Una seconda ragione per gustare un pizzico di gioia pasquale è la rappresentazione di alcune scene in cui Odette si rivolge a un signore chiamandolo "Gesù". All´inizio può sembrare solo un barbone che mima vagamente il Cristo nei lineamenti e nei gesti, ma a poco a poco si comprende che quel Gesù è frutto dell´immaginazione di Odette, della sua fede semplice e genuina che getta uno sguardo sul Signore, in cerca di conforto e sostegno morale.
Quasi brevi `giaculatorie´ cinematografiche che ricordano la schiettezza di certi dialoghi tra don Camillo e il Crocifisso.
In conclusione, una commedia che unisce levità ed armonia, suscitando ilarità e affrontando senza superficialità temi importanti.
Pervadono la narrazione la forza vitale della protagonista e il suo ottimismo.
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Luca e Claudia

martedì 25 marzo 2008

Conferenza

IDENTITA’ CULTURALE EUROPEA

UNA RIFLESSIONE POLITICA SULLA FISCALITA’
con la partecipazione del Generale Roberto Speciale
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Lunedì 31 marzo 2008
ore 21

CENTRO CONGRESSI TORINO INCONTRA
Via Nino Costa, 8
TORINO

Interverranno:

Presentazione
Dott. Stefano Rigon - Presidente dell’Associazione Identità culturale europea

Le tasse: 11° Comandamento? - Spunti per una riflessione tra fisco e morale

Dott. Ferdinando Francesco Leotta - Dirigente di Alleanza Cattolica

Le ragioni economiche della critica all’eccessiva fiscalità

Dott. Oscar Giannino - Direttore di Libero Mercato

Intervista di Oscar Giannino sul complesso rapporto tra chi fa le leggi e chi le applica a

Gen. c.a. Roberto Speciale - già Comandante generale della Guardia di finanza
On.le Dott. Guido Crosetto - Coordinatore di Forza Italia per il Piemonte

L’Associazione Identità culturale europea si prefigge (art. 2 dello Statuto) di realizzare iniziative culturali e politiche, ispirandosi ai principi liberali, del diritto naturale, della dottrina sociale della Chiesa e della tradizione culturale europea.
Nello svolgimento di tali attività l’associazione privilegia valori quali: la difesa della vita, la promozione della famiglia, della proprietà e della libertà economica, la libertà di insegnamento e la legalità.
L’eccessiva incidenza del prelievo sui contri-buenti onesti e la condanna sempre più enfa-tica dell’evasione fanno del fisco un punto centrale del presente confronto politico.

L’associazione Identità culturale europea ha organizzato un incontro di riflessione sul tema, ritenendo che le problematiche fiscali possano correttamente essere affrontate senza accettare né l’egemonia culturale dell’egualitarismo né il mito dello stato assistenziale.

Nel corso della serata saranno proposte considerazioni sulla valenza morale delle norme tributarie e sugli effetti della fiscalità nell’economia.

La disponibilità del Generale Roberto Speciale ad essere intervistato sulle recenti vicende che hanno riguardato i vertici della Guardia di Finanza è un’importante occasione per riflettere sul delicato rapporto che inter-corre tra coloro che sono chiamati ad attuare le norme ed i politici che le scrivono.

domenica 23 marzo 2008

Pasqua di Risurrezione

A cura del sito "Vie dello Spirito"

E' Pasqua: Alleluja!
Esultiamo di gioia: Alleluia!

Se hai l’opportunità di vivere con la Liturgia il Triduo Sacro (giovedì, venerdì e sabato) della settimana santa, puoi seguire, ora per ora, il drammatico epilogo della vita terrena di Gesù, che dal punto di vista umano è stata un fallimento in tutti i sensi.
Negli apostoli e nelle pie donne c’è soltanto sconcerto, delusione. Non hanno coraggio di parlare, ma nei loro volti appare evidente lo sconforto e la tristezza che invade il loro cuore.
La prima protagonista di eventi che accentuano ancora più il dolore, è una grande innamorata di Gesù, Maria Maddalena.
Vede tolta la pietra dal sepolcro e deduce subito che è stato manomesso; mossa dal suo animo ardente, immediatamente torna indietro a dare la drammatica notizia.
Chiama in disparte Pietro e Giovanni e dice loro: ”…Hanno portato via il Signore dal sepolcro… e non sappiamo dove lo hanno messo...”.

“Pietro quindi, con quell’altro discepolo… vennero al sepolcro; correvano... l’altro più lesto… giunse primo...”.
Bellissima questa scena dei due che corrono per recarsi al sepolcro a costatare l’accaduto.

Partono tutti e due di corsa, ma poco dopo Pietro, anziano, deve rallentare il passo; Giovanni invece, giovanissimo, corre veloce fino lassù; si affaccia sporgendo la testa entro la bassa apertura della cella interna mortuaria, ma non entra, e con un gesto di grande rispetto, aspetta Pietro, il capo, che entrò per primo.

Stupenda la figura di questo ragazzo che vide e credette, perché, fino ad allora, non avevano compreso la Scrittura, che Egli cioè, doveva risuscitare dai morti.
Pietro, invece, entrato, guarda ed esamina fasce e sindone con spirito critico, ma ancora non crede, perché lui ha interpretato la Scrittura con mentalità ebraica per cui il Messia doveva essere il Trionfatore terreno.
Oggi per noi prorompe immediata la gioia dell’Alleluja!

Ma gioia di che cosa?
Ripeteva spesso Paolo: “Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede”.
Eccolo il motivo della nostra grande esultanza. Al di sopra di ogni nostra condizione o situazione terrena sfavorevole, oggi, io, tu ed ogni cristiano possiamo e dobbiamo esultare di gioia perché con la morte di Cristo è venuta la nostra salvezza e, come Lui è risorto, così ognuno di noi risorgerà un giorno a nuova vita.

Io penso a te che durante l’anno sei sempre preso da mille occupazioni e preoccupazioni e provo per te, creatura di Dio, una grande tenerezza, perché istintivamente oggi lasci da parte tutto e vai anche tu alla Messa di Pasqua.
Saremo spiritualmente uniti e canteremo insieme il nostro alleluia. Ad un certo punto il celebrante, inviterà tutti ad un fraterno saluto di pace e di auguri. Sarà bello e facile, dare la mano al tuo vicino e con un sorriso dirgli:
“Buona Pasqua”.

Io in quel momento cercherò di pensare a quella persona che mi è antipatica, a quella famiglia del condominio con la quale da tempo abbiano rotto ogni relazione, a quella persona antagonista nel mio lavoro, nei miei interessi, nei mie sentimenti…
Anche tu, forse, ti trovi nelle stesse mie situazioni.

Facciamo uno sforzo; immaginiamo di tendere la mano a queste persone e dire loro ”Auguri, auguri, buona Pasqua...”, mentre al termine della Messa sentirai cantare: QUESTO E’ IL GIORNO CHE HA FATTO IL SIGNORE, RALLEGRIAMOCI ED ESULTIAMO, ALLELUJA!
Passeremo insieme una stupenda giornata di serenità e di pace.
***
Don Lucio Luzzi

venerdì 21 marzo 2008

Venerdì Santo - Passio Christi

«La contemplazione della passione di Gesù disumana l'uomo, lo solleva so­pra di sé, lo fa diventare un essere divino».
«Non v'è sorgente più potente a generare nell'anima il fervore della devozione, quanto la meditazione della passione del Signore».
«Gesù, io giubilo immensamente che per me hai creato l'universo; che mi hai creato a tua immagine, ma dove maggiormente mi glorio è in questo, che per me hai sofferto la tua dolorosissima passione e morte. Ecco, o Gesù, tutta la mia gloria, la mia sovrana allegrezza».
«A chi ricorrerò? Dove mi rivolgerò? Alla passione del mio Signore; mi bagnerò del suo sangue; mi trasformerò nel mio Dio crocifisso. E quale creatura oserà accusarmi quando mi vedrà così nobilmente vestito? Questa sarà la roccaforte dove mi ricovererò sicuro da tutti gli assalti».
San Bonaventura da Bagnoregio

«Non può non morire contento e con grande pace chi fissa la mente nella passione del Signore».
«Uno si turba, si accende in volto, delibera vendetta quando è ingiuriato. Però se vede un altro più sublime di lui, più degno di lui, subire le medesime insolenze con pazienza e tolleranza, il suo spirito si calma, ì tumulti interni si quietano: persuaso dall'esempio dell'altro uomo più rispettabile di lui. Oh se contemplassimo la passione del Signore, la sua invitta pazienza! si spegnerebbe l'ira del nostro cuore, saremmo più tolleranti; ci glorieremmo nei patimenti; ci stimeremmo onorati di assomigliare a Gesù Cristo!».
«Il ginepro, visto da Elia, era figura della croce e della passione di Cristo. Sotto la croce dobbiamo sedere, contemplare, con grande attenzione quanto Gesù ha patito per noi; e questo soprattutto per prepararci alla morte, sgombrandoci dai timori di essa, armandoci contro le tentazioni di satana, e fare una santa morte, morendo insieme al Salvatore divino. Chi così medita la passione di Cristo non solo non si rattrista di partire dal mondo, ma lo desidera ardentemente. Tanta paura della morte! io non saprei dire di chi è la colpa: se della morte o dei morenti».
Dionisio Cartusiano

«Contemplate la passione di Gesù, e riceverete la morte a braccia aperte».
Tommaso da Kempis

«Se contempliamo la passione di Cristo, diventiamo come impeccabili, poiché è tanto grande il vigore della passione di Gesù, che chi la tiene davanti agli occhi, e con devozione la conserva nella mente, diviene impeccabile».
Origene

«Si deve, con grande attenzione di mente, contemplare la passione di Cristo come unico e singolare rifugio in tutte le avversità e tentazioni ».
Ugo Eteriano

«Non v'è luogo più sicuro per l'anima che le piaghe di Gesù. Altrove troverà guerre, inquietudini, pericoli. O anime redente col sangue di Cristo, venite alla pietra, venite a Cristo crocifisso, nascondetevi nelle aperture delle sue piaghe. Qui troverete la sicurezza, la pace, la fermezza, la stabilità, la fortezza la vittoria, il merito, il trionfo di tutti i vostri nemici».
San Bernardo

«Il contemplare la passione del Signore è la fortezza dell'anima; è un'arma difensiva e offensiva contro tutti i peccati e i demoni. Al primo apparire della croce, i demoni, spaventati, fuggono e il cristiano si fortifica. Chi medita la passione di Gesù vince, perché combatte armato; chi non la medita è vinto, perche trovato senz'armi dal nemico».
San Tommaso d'Aquino

Fonte: Comunità Passionista S. M. di Pugliano
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silvio

giovedì 20 marzo 2008

FAQ sulla legge elettorale italiana vigente

dal sito di Alleanza Cattolica.
Roma, 7 marzo 2008. Un contributo di Massimo Introvigne alla comprensione dell'attuale legge elettorale, e delle conseguenze dei voti che verranno espressi in occasione delle elezioni politiche del 13-14 aprile 2008.

Chi “vince” le elezioni politiche del 13-14 aprile 2008?
Interpretando correttamente la legge elettorale vigente (legge 21 dicembre 2005, n. 270) si deve dire che “vince” le elezioni la coalizione che “arriva prima”, ottenendo anche solo un voto in più della prima coalizione concorrente (quella che “arriva seconda”), alla Camera. In effetti chi “arriva primo” si assicura il controllo della Camera, con un vantaggio di almeno cinquanta seggi, così che la situazione non può essere rovesciata dal “tradimento” di singoli deputati o piccoli gruppi. Giustamente, quindi, chi vince alla Camera “dà le carte” e ha il compito e la responsabilità di formare un governo, ancorché – ove non abbia la maggioranza al Senato – debba venire a patti con forze di minoranza. Chi invece vincesse al Senato e non alla Camera non avrebbe davvero “vinto” le elezioni, perché al Senato come vedremo non c’è premio di maggioranza nazionale e alla Camera sì. Cioè: chi controlla la Camera la controlla con un ampio vantaggio, chi controlla il Senato – a meno di trionfi con maggioranze di voti schiaccianti – lo controlla normalmente con un vantaggio ridotto. Alla Camera i rischi di “ribaltoni” in caso di “tradimento” di singoli deputati o gruppi sono minimi, al Senato sono massimi.

Si parla di un possibile “pareggio”: che significa?
Alla Camera la legge elettorale rende impossibile qualunque pareggio. Chi parla di “pareggio” lo fa con riferimento a due ipotesi che sono in realtà diverse. Prima ipotesi (possibile): una delle due coalizioni maggiori (quella che ha come candidato premier l’onorevole Silvio Berlusconi oppure quella che ha come candidato premier l’onorevole Walter Veltroni) si assicura il controllo della Camera, mentre nessuna delle due coalizioni si assicura il controllo del Senato. In questa ipotesi, una delle coalizioni maggiori al Senato si avvicina alla metà più uno dei seggi ma non la raggiunge. Deve quindi (a) cercare degli alleati in singoli senatori o gruppi (e ci sono diversi candidati possibili: singoli senatori “ribaltonisti” dell’altra coalizione maggiore – la Costituzione italiana vieta il cosiddetto “mandato imperativo” e ogni deputato o senatore ha sempre il diritto di “cambiare idea” –; senatori di liste minori che nonostante l’alta soglia di sbarramento fossero riuscite a essere rappresentate in Senato; senatori eletti fra gli italiani all’estero, per cui vige un sistema speciale di elezione; senatori a vita); (b) chiedere al Presidente della Repubblica (che ha questa prerogativa) di sciogliere solo il Senato e di indire nuove elezioni solo per il Senato, lasciando la Camera com’è; (c) chiedere al Presidente della Repubblica (o subire la sua decisione) di indire nuove elezioni sia per il Senato sia per la Camera; o (d) coalizzarsi con l’altra coalizione maggiore in un “governo di larghe intese” (cosiddetta “Grande Coalizione”). Seconda ipotesi (diversa, e di fatto improbabile): delle due coalizioni maggiori una si assicura il controllo della Camera e l’altra il chiaro controllo del Senato (così che un piccolo numero di singoli senatori “ribaltonisti” che “tradissero” non sarebbero sufficienti a mutare la situazione). In questo caso la coalizione che controlla la Camera avrebbe tre possibilità: (a) chiedere al Presidente della Repubblica (che ha questa prerogativa) di sciogliere solo il Senato e di indire nuove elezioni solo per il Senato, lasciando la Camera com’è; (b) chiedere al Presidente della Repubblica (o subire la sua decisione) di indire nuove elezioni sia per il Senato sia per la Camera; o (c) coalizzarsi con l’altra coalizione maggiore in un “governo di larghe intese” (cosiddetta “Grande Coalizione”).

Chi “vince” alla Camera?
Il sistema è molto semplice. La Camera è composta di 630 seggi. 12 sono assegnati agli italiani all’estero, e uno alla Valle d’Aosta. Per gli italiani all’estero e la Valle d’Aosta vigono sistemi elettorali diversi, che mi astengo dal descrivere perché alla Camera queste circoscrizioni non possono comunque essere decisive. Esclusi gli italiani all’estero e la Valle d’Aosta rimangono 617 seggi. La legge elettorale vigente ne assegna 340 (il 55%, una maggioranza che nelle intenzioni del legislatore – e con ogni verosimiglianza anche nei fatti – non è rovesciabile dal “tradimento” di singoli e di gruppetti) alla coalizione che, sulla base di un calcolo globale su tutte le Regioni italiane esclusa la Valle d’Aosta, ha prevalso (anche per un solo voto) sulla coalizione che è arrivata seconda. È sufficiente che la coalizione che è “arrivata prima” abbia conseguito almeno il dieci per cento dei voti nazionali (sempre Valle d’Aosta esclusa: se nessuna coalizione raggiungesse il dieci per cento scatterebbe un sistema diverso, ma mi astengo dal commentare anche questa ipotesi dal momento che è meramente teorica e del tutto inverosimile).

Che differenza c’è fra liste e coalizioni?
Le “liste” nascono da uno o più partiti o movimenti che si presentano con un unico simbolo e con un’unica lista di candidati. Il Popolo della Libertà, la Lega Nord, il Partito Democratico, l’Italia dei Valori, “Aborto? No grazie”, l’UDC, la Sinistra Arcobaleno, La Destra e altri sono “liste”. Il fatto che all’interno di una “lista” ci siano più “partiti” – per esempio, allo stato il Popolo della Libertà comprende Forza Italia, Alleanza Nazionale e altri; il Partito Democratico comprende il Partito Democratico stricto sensu e il Partito Radicale, e così via – è un fatto meramente privato, per la legge inesistente. Secondo la legge l’elettore vota per una “lista”, non per un partito.
Le liste possono essere coalizzate o non coalizzate. Sono “coalizzate” se convergono con altre liste designando uno stesso candidato premier. Per esempio il Popolo della Libertà, la Lega Nord e il Movimento per le Autonomie dell’onorevole Raffaele Lombardo sono liste coalizzate, perché designano lo stesso candidato premier: l’onorevole Silvio Berlusconi. Il Partito Democratico e l’Italia dei Valori sono liste coalizzate perché designano lo stesso candidato premier: l’onorevole Walter Veltroni. Invece l’UDC, La Destra, la Sinistra Arcobaleno e “Aborto? No grazie” sono liste non coalizzate, perché a un candidato premier corrisponde una sola lista e non una pluralità di liste.

In pratica, alla Camera, che differenza c’è fra liste coalizzate e non coalizzate?
Una differenza fondamentale. Alle liste coalizzate (se la loro coalizione nel suo insieme ha conseguito almeno il 10% dei voti) è sufficiente conseguire il 2% dei voti nazionali (esclusa sempre la Valle d’Aosta) per ottenere rappresentanti alla Camera – in qualche caso, per la verità, anche meno del 2%, grazie a un sistema di recupero all’interno delle coalizioni – e, se la loro coalizione vince, parteciperanno al premio di maggioranza. Le liste non coalizzate devono invece ottenere il 4% dei voti nazionali (Valle d’Aosta esclusa) per ottenere rappresentanti alla Camera.

Se voto per una lista non coalizzata alla Camera (per esempio La Destra o “Aborto? No grazie”) e questa lista non raggiunge il 4% che fine fa il mio voto? Si “recupera” in qualche modo?
No, non si recupera. Non ci sono più i sistemi di “resti” della legge elettorale precedente. Il voto va totalmente sprecato. È come se avessi votato scheda bianca o scheda nulla (salvo il fatto – ma è una scarsa consolazione, anzi la beffa aggiunta al danno – che il mio voto contribuisce a determinare il totale dei voti validi su cui, precisamente, si calcolano il 4% e le altre soglie di sbarramento).

Se voto per una lista coalizzata che alla Camera non raggiunge il 2% - per esempio, voto per la Lega Nord e questa, in (difficile) ipotesi, non raggiunge il 2% - il mio voto va ugualmente sprecato?
No. Perché in ogni caso è un voto per la coalizione, e contribuisce eventualmente a far vincere la coalizione e certamente a determinare il numero dei suoi seggi. C’è poi un meccanismo di recupero che potrebbe consentire a liste coalizzate di ottenere seggi anche se non raggiungono il 2%.

Che succede se una coalizione alla Camera prende più del 55% dei voti nel territorio nazionale esclusa la Valle d’Aosta? Le spettano sempre 340 seggi?
No, gliene spettano di più. La legge premia chi vince con meno del 55% ma non punisce chi vince con più del 55%. Se una coalizione (per esempio, la coalizione che indica come premier l’onorevole Silvio Berlusconi) vince con il 60% dei voti validi prende il 60% dei 617 seggi assegnati tramite la competizione nazionale (ricordiamo che gli altri 13, che portano il totale a 630, sono assegnati uno alla Valle d’Aosta e dodici agli italiani all’estero), cioè 370 seggi (dunque non 340, ma 30 in più).

Ha senso dire, per esempio, “mi auguro la vittoria nazionale della coalizione Berlusconi, tuttavia alla Camera nel Lazio non voto per una lista della coalizione Berlusconi ma per una lista non coalizzata che mi è simpatica – La Destra, l’UDC o «Aborto? No grazie» – perché tanto nel Lazio i sondaggi danno alla coalizione Berlusconi alla Camera una tale maggioranza da farmi concludere che vincerà comunque, anche senza il mio voto”?
No, non ha nessun senso. Il conteggio per determinare chi ha vinto è nazionale (esclude solo la Valle d’Aosta). Conta chi alla fine “arriva primo” anche con un solo voto più del secondo, e un voto dato in Emilia-Romagna e uno dato in Lombardia o nel Lazio ai fini di questa “classifica” hanno esattamente lo stesso valore e vanno a comporre la stessa somma. L’unica somma rilevante è quella nazionale, mentre le somme regionali sono squisitamente irrilevanti (tranne, per la verità, in un caso: le liste che rappresentano minoranze linguistiche non italofone, le quali – se [i.] si presentano in una sola circoscrizione e [ii.] in quella circoscrizione conseguono almeno il 20% dei voti validi – eleggono deputati anche se non sono coalizzate e non sono arrivate al 4% dei voti validi nazionali; ma questa eccezione si applica solo appunto alle liste di minoranze linguistiche che parlano lingue diverse dall’italiano).

Ha senso dire, per esempio, “mi auguro la vittoria nazionale della coalizione Berlusconi, tuttavia non voto per una lista della coalizione Berlusconi ma per una lista non coalizzata che mi è simpatica – La Destra, l’UDC o «Aborto? No grazie» – perché tanto i sondaggi nazionali italiani danno alla coalizione Berlusconi alla Camera una tale maggioranza da farmi concludere che vincerà comunque, anche senza il mio voto”?
Non ha senso, o ce l’ha solo per chi non s’intenda di sondaggi. Trascurando l’ipotesi di sondaggi manipolati, maliziosi o fasulli, i sondaggi elettorali sono per loro natura volatili e incerti. Nelle primarie all’interno del Partito Democratico per designare il candidato di tale partito alla presidenza degli Stati Uniti, in California alcuni sondaggi assegnavano alla senatrice Hillary Clinton, alla vigilia del voto, un vantaggio di venti punti percentuali sul senatore Barack Obama; è stato poi quest’ultimo a vincere le primarie californiane. Nelle elezioni politiche italiane del 2006 gli ultimi sondaggi assegnavano alla coalizione che indicava come premier l’onorevole Romano Prodi un vantaggio da quattro a sette punti percentuali rispetto alla coalizione che indicava come premier l’onorevole Silvio Berlusconi; alla fine la coalizione Prodi vinse alla Camera con un vantaggio dello 0,06% mentre al Senato la coalizione Berlusconi in termini di voti batté addirittura la coalizione Prodi dello 0,2% (pur non riuscendo poi ad avere la maggioranza dei senatori eletti in Senato una volta che nel calcolo entrarono i senatori eletti con modalità speciale fra gli italiani all’estero). Questo avviene perché la stragrande maggioranza dei sondaggi è condotta su un campione casuale di mille intervistati su oltre trentotto milioni di elettori (in Italia per la Camera), e le interviste sono fatte per telefono. Se è vero che gli elettori sono più riluttanti a rivelare il loro voto in un’intervista faccia a faccia, è anche vero che in tutti gli altri settori di ricerca (per esempio, in materia religiosa) le interviste telefoniche sono considerate meno affidabili. Questo non vuol dire che i sondaggi siano irrilevanti: migliore è il campione, migliore è il sondaggio, e un campione di mille elettori italiani se è stato scelto utilizzando correttamente le tecniche di campionamento e intervistato con una esatta applicazione del sistema C.A.T.I. (Computer Assisted Telephone Interviewing, “sistema d’interviste telefoniche aiutato da un computer”) – che è poi il sistema che quasi tutti i sondaggi di cui leggiamo sui giornali utilizzano – può dare dei risultati di un certo interesse. Ma i sondaggi elettorali sono semper incerti anche quando (come non sempre avviene) sono condotti accuratamente e in buona fede. Nei sondaggi elettorali un vantaggio inferiore al 10%, in particolare, non dà nessuna sicurezza ed è spesso stato ribaltato dalla realtà concreta del voto.

Ha senso dire “alla Camera voto per una lista minore, tanto poi dopo le elezioni si alleerà con la lista maggiore ideologicamente più affine e farà maggioranza”?
No, non ha più senso e risente di ricordi della vecchia legge elettorale. Chi “arriva primo” alla Camera, come si è visto, ha un vantaggio garantito di almeno cinquanta seggi e non ha bisogno di allearsi con nessuno. Se, in ipotesi, arrivasse prima, anche per un solo voto la coalizione Veltroni l’alleanza di tutti gli altri (in assurda ipotesi, Sinistra Arcobaleno + coalizione Berlusconi + UDC + La Destra + “Aborto? No grazie”, e naturalmente è difficile che la Sinistra Arcobaleno si allei con gli altri partiti e movimenti citati) avrebbe al massimo il 45% dei seggi e non disturberebbe in nessun modo il “manovratore” Veltroni.

Ma davvero si possono prendere 340 seggi della Camera anche con una percentuale molto inferiore al 50%?
Sì. Basta avere il 10%. Se ci sono dieci coalizioni in gara più o meno della stessa consistenza, e la prima prende il 10,01% e le altre tutte il 9 virgola qualcosa, la prima coalizione alla Camera prende 340 seggi (una comoda maggioranza) e le altre si dividono i seggi restanti. Se chi arriva primo ha (a) il 10% dei voti validi; (b) il 55%; (c) una cifra percentuale compresa fra 10 e 55 il risultato alla Camera è esattamente lo stesso: 340 seggi. Come si è visto, solo se la coalizione che arriva prima ha meno del 10% dei voti validi (un’ipotesi del tutto teorica) scatta un sistema diverso, mentre se ha più del 55% dei voti validi prende una percentuale dei 617 seggi in palio superiore a quei 340 che corrispondono al 55% e corrispondente invece alla percentuale di voti validi effettivamente ottenuta.

Al Senato non funziona così: perché?
Nel 2005 la maggioranza del Parlamento voleva per il Senato la stessa legge della Camera. Questo avrebbe consentito anche al Senato alla coalizione che “arriva prima” nella gara nazionale di avere una maggioranza tale da essere al riparo dai “ribaltoni” di singoli o piccoli gruppi. Il Presidente della Repubblica – che allora era il senatore Carlo Azeglio Ciampi – obiettò che l’articolo 57 della Costituzione impone di eleggere il Senato “a base regionale” e che una legge simile a quella della Camera per il Senato sarebbe stata incostituzionale. Di qui la differenza di norme per il Senato.

Dunque al Senato come funziona?
La “gara” che premia chi arriva primo alla Camera si svolge, come abbiamo visto, su base nazionale (esclusa solo la Valle d’Aosta). Per il Senato ci sono invece tante “gare” simili, una per ogni Regione, escluse però oltre alla Valle d’Aosta anche il Molise e il Trentino-Alto Adige (che hanno tre sistemi diversi, che mi astengo dall’illustrare per semplicità). In ogni Regione (escluse le tre citate) la “gara” è simile a quella nazionale. Anche per il Senato si distinguono “coalizioni” e “liste”. Ogni Regione ha un certo numero di senatori, attribuiti in base alla sua popolazione.

Chi “vince” la gara regionale al Senato?
In ogni Regione (escluse Valle d’Aosta, Molise e Trentino-Alto Adige) si ripropone lo stesso scenario della Camera. Si contano i voti delle coalizioni e la coalizione che vince prende il 55% dei senatori attribuiti a quella Regione. Cambia, rispetto alla Camera, il minimo di voti necessari per far scattare l’attribuzione del 55% dei seggi in ciascuna Regione, che non è più il 10% ma il 20%. Se nessuna coalizione o lista non coalizzata raggiunge il 20% in una Regione, in quella Regione i seggi sono distribuiti in modo proporzionale. Se invece almeno una coalizione supera il 20%, chi vince se ha dal 20% al 55% prende sempre lo stesso numero di seggi attribuiti a quella Regione – il 55% dei seggi – mentre se chi vince ha più del 55% prende un numero di seggi regionali che corrisponde alla sua percentuale (dunque può prenderne anche più del 55%).

E al Senato quali soglie di sbarramento (regionali) ci sono?
Il 3% dei voti validi espressi nella Regione per le liste che fanno parte di coalizioni che abbiano conseguito il 20% (anche qui con qualche possibilità di avere seggi anche per chi rimane sotto al 3%, se è in una coalizione). L’8% (una soglia molto alta) dei voti validi espressi nella Regione per le liste che non fanno parte di coalizioni.

Se una lista non coalizzata raggiunge l’8% in una Regione – per esempio La Destra raggiunge l’8% in Lazio – ne consegue che, oltre che in quella Regione, potrà eleggere senatori anche in altre Regioni?
No. Nella legge elettorale vigente i diversi sistemi elettorali regionali non comunicano, per così dire, fra loro. Ciascuna lista non coalizzata ottiene senatori solo nelle Regioni dove raggiunge effettivamente l’8%.

Chi “vince” la gara nazionale al Senato? Cioè, chi controlla al Senato?
È molto difficile dirlo, e perfino fare sondaggi. Occorrerebbe disporre di sondaggi affidabili regione per regione, e in più tenere conto delle tre regioni con sistemi particolari, degli italiani all’estero e dei senatori a vita (che, come si è visto nell’ultima legislatura, possono essere decisivi). Ma proprio per questo sarebbe essenziale per assicurare la governabilità che chi vince alla Camera vincesse anche al Senato in più regioni possibile, e vincesse “bene”.

Se voto per una lista non coalizzata al Senato (per esempio l’UDC o La Destra) e questa lista nella mia regione non raggiunge l’8% che fine fa il mio voto? Si “recupera” in qualche modo?
No, non si recupera. Non ci sono più i sistemi di “resti” della legge elettorale precedente; la legge del 2005 prevede il “riparto dei seggi esclusivamente su base regionale”, quindi i voti andati persi in una Regione non possono essere recuperati in un’altra Regione. Il voto dato a una lista non coalizzata che nella mia Regione non raggiunge l’8% va totalmente sprecato. È come se avessi votato scheda bianca o scheda nulla (salvo il fatto – ma è una scarsa consolazione, anzi la beffa aggiunta al danno – che il mio voto contribuisce a determinare il totale dei voti validi regionali su cui, precisamente, si calcolano l’8% e le altre soglie di sbarramento).

Se voto per una lista coalizzata che al Senato non raggiunge il 3% nella mia Regione - per esempio, voto per la Lega Nord e questa, nella mia Regione, non raggiunge il 3% - il mio voto va ugualmente sprecato?
No. Perché in ogni caso è un voto per la coalizione, e contribuisce eventualmente a far vincere la coalizione e certamente a determinare il numero dei suoi seggi regionali. C’è poi un meccanismo di recupero che potrebbe consentire a liste coalizzate di ottenere seggi anche se non raggiungono il 3%.

Ha senso dire, per esempio, “mi auguro una vittoria nazionale della coalizione Berlusconi, ma al Senato in Lombardia non voto per una lista della coalizione Berlusconi ma per una lista non coalizzata che mi è simpatica – La Destra o l’UDC – perché tanto in Lombardia i sondaggi danno alla coalizione Berlusconi una tale maggioranza da farmi concludere che vincerà comunque, anche senza il mio voto”?
Potrebbe avere un senso se si votasse per elezioni regionali. Ma qui non bisogna dimenticare che si tratta di elezioni politiche nazionali e che l’obiettivo non è “avere più senatori in Lombardia” ma “avere più senatori in Senato a Roma”. Dunque c’è una grande differenza se la coalizione Berlusconi in Lombardia, nell’ipotesi che vinca, vince con il 54,9%, con il 59% o con il 65%. Perché, se prende il 54.9%, porta a Roma il 55% dei senatori eletti in Lombardia. Ma se prende il 59% o il 65% prende più senatori in Lombardia, cioè più del 55% dei senatori eletti in Lombardia. Nella pratica due o tre senatori in più che, come si è visto nella precedente legislatura, nel conto nazionale in Senato a Roma possono fare la differenza.
***
roberto

Giovedì santo - In Coena Domini

«Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi siete dentro; io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà per voi flagello di sterminio». (Es 12, 13)

Gesù spezzò il pane («fractio panis») «nella notte in cui fu tradito» - «in qua nocte tradebatur» (1 Cor 11,23).
«Tradebatur» è, correttamente, associato al «tradimento» di Giuda. Tradito, sì, ma anche «tradotto», «consegnato».
Consegnato ai flagellatori e ai carnefici, ma anche a tutte le generazioni della storia perché, nelle piaghe dei suoi meriti, ci potessimo salvare.

La carne ed il sangue di Cristo sono per noi l’unico cibo e bevanda, perché gli unici che possono togliere la vera fame e la vera sete, che trattengono e affaticano l’esistenza.
La notte della Cena del Signore, Egli confessò: «dove vado io, voi non potete venire». (Gv 13, 33)
Però disse anche: «del luogo dove io vado, voi conoscete la via». (Gv 14, 4)
E di sé stesso, Gesù dice: «Io sono la Via, la Verità, la Vita» - «Ego sum Via, Veritas, Vita». (Gv 14, 6)
Per questo motivo - per il motivo che la Via è una Persona - non basta seguire la dottrina di Gesù per salvarsi, ma è necessaria l’unione sostanziale, carnale, spirituale, divina, con Lui.
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silvio

mercoledì 19 marzo 2008

S Giuseppe


O provvido S.Giuseppe

castissimo sposo della vergine Maria

protettore di Gesu` e della Chiesa

aTe affidiamo i moribondi di questo giorno

a te affidiamo la nostra famiglia e il nostro lavoro

Amen

domenica 16 marzo 2008

L'acqua sterile di Ponzio Pilato


Pilato nel racconto della passione di N.S.Gesù è noto per lavarsi le mani. Quanto mai è sterile quell'acqua, nel senso della salvezza se guardiamo al sangue e acqua, il vero sacramento che sgorgherà da lì a poco dal costato di Gesù.
***
roberto

venerdì 14 marzo 2008

Pensiero della Domenica - 37

A cura del sito “Vie dello Spirito

DOMENICA DELLE PALME - 16/03/2008

Benedetto colui che viene nel nome del Signore

E siamo arrivati alla settimana clou per i cristiani che, praticanti o meno, la chiamano Settimana Santa.
Gesù era partito da Gerico il venerdì, arrivando la sera stessa a Betania, (l’attuale El Avarie, cioè villaggio di Lazzaro), luogo di pace e di riposo, distante meno di tre chilometri da Gerusalemme.
Il sabato lo passa in casa di Simone il lebbroso, dove la sera, durante la cena, venne una donna e versò il profumo sul capo di Gesù (Mc. 14,3).
La domenica mattina si muove da Betania verso Betfage (l’attuale Et Tùr) e disse a due dei suoi discepoli: ”Andate nel villaggio, che vi sta di fronte e subito, entrando in esso troverete un asinello legato, sul quale nessuno è mai salito; scioglietelo e conducetemelo...”.
E cominciano i preparativi per l’ingresso trionfale a Gerusalemme.
Con ciò Gesù vuole attuare la circostanziata profezia di Zaccaria (9,9) scritta cinque secoli prima:
“Il tuo Re che a te viene… è mite e cavalca… sopra il puledro di un’asina...”
Cavalcare l’asino non era in Oriente, un segno di povertà; era invece un segno di mansuetudine (mentre il cavallo era usato per azioni bellicose).

I due Apostoli, Pietro e Giovanni, gettarono sul puledro i loro mantelli, formando così per Gesù, che vi si mise a sedere sopra, una bella sella a doppia gualdrappa.
Quando, al di là del fiume Cedron, apparve il grandioso spettacolo di Gerusalemme, con in primo piano il magnifico tempio, Gesù era già circondato dalla folla venuta dalla città, gremita di popolo per la Pasqua; accorsa in gran parte pensando che volesse istituire in Israele il regno messianico.
Infatti cominciarono a gridare OSANNA, gloria, lode, evviva...
Gesù vede che il tempio è profanato e la mattina dopo compirà la cacciata dei profanatori.
E qui avvenne quello che nella storia sempre si ripete: “Un giorno sull’altare e un giorno sulla polvere...”.

Nell’arco di pochi giorni il popolo, ora osannante, griderà inferocito: “Non lo vogliamo più in mezzo a noi…ammazzalo…”.
Ecco perchè questi sono stati chiamati i giorni della passione.
Con l’animo amareggiato, con il suo sguardo pieno di tristezza, dirà alla sua gente: “Popolo mio, che male ti ho fatto, in che cosa ti ho contristato… se ti ho fatto del male, percuotimi, ma se non ti ho fatto nulla di male, perché mi tratti così?...”.

Impossibile rimanere indifferenti di fronte a questa dura realtà del Cristo.
Quanto diverso da Lui il nostro atteggiamento!
Quando ci sentiamo traditi da amici (e spesso accade) ci sfoghiamo in tutti i modi... ”Dopo tutto quello che gli ho fatto… bella riconoscenza… non me lo sarei mai aspettato…”, e arriviamo a volte anche ad atteggiamenti di risentimento.

Prova anche tu a depurare il tuo cuore da queste scorie. Devi farlo subito perché fra giorni dobbiamo tutti insieme esprimere la vera gioia con l’ALLELUIA.
Sentiamoci tutti fratelli nella settimana santa e guardiamo a Cristo, l’unico, vero, autentico vincitore del male e della morte, che ci farà gridare insieme ALLELUIA, è arrivata la salvezza del mondo.
***
Don Lucio Luzzi

Il sangue dei martiri

Paulos Faraj Rahho, prega per noi.

«Beati i perseguitati per causa della giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi

Mt 5, 10-12
***
silvio

giovedì 13 marzo 2008

Moratoria contro l’aborto - 04

Quando sono di malumore dò sempre un’occhiata al giornale La Repubblica, perché mi garantisce qualche attimo di serena allegria.
Per leggere La Repubblica, infatti, non occorre usare il cervello, perché offre tutti i vantaggi di una salubre e spensierata attività ricreativa.

Anche quando la notizia è grottesca, come il suicidio del ginecologo abortista di Rapallo.
Grottesca sì, ma non per il suicidio in sé stesso (atto sacro, piuttosto, o sacrilego), quanto per il distillato di conformismo ipocrita che ne fa la succitata rivista.
Suicidarsi per avere eseguito normali interventi di appendicite?
Essì, perché - per gli abortisti - l’eliminazione di un embrione equivale all’asporto di un frammento intestinale.

Tutto in questa vicenda è grottesco e stoltamente interpretato dalle grancasse dell’ateismo di massa.
Grottesco è il menefreghismo per la sorte eterna del ginecologo, che potrebbe anche essersi dannato. Quello sì sarebbe un vero disastro.
Grottesche le motivazioni che hanno portato le due donne intervistate all’omicidio del proprio figlio. Non sono parole mie, beninteso, ma di una delle due protagoniste: «Non è stato facile, ma alla fine ho deciso che quel figlio non lo volevo».

Avete letto bene: la donna non parla di appendicite, o di “grumo di cellule”, o di “ootide”, o di qualche altra sciocchezza orwelliana.
La donna parla di «figlio». Scandisco labiale: f-i-g-l-i-o.
Questo è il vero dramma, che l’ipocrisia di La Repubblica non può nemmeno ipotizzare.
I suicidi, le disperazioni post abortive, sono da imputare all’orrendo omicidio perpetrato durante l’aborto.

Io prego per tutte le morti. In modo specialissimo, spero che l’omicida (il ginecologo) si sia pentito durante la caduta.
Se così fosse, potrebbe essersi salvato. Però bisogna pregare.
Non sto scherzando. È già successo.
***
silvio

martedì 11 marzo 2008

Il riformista

Fallito il tentativo storico di fare la rivoluzione armata, al marxismo non resta altra via se non il riformismo socialista.
Cambiare il mondo con le riforme. Rovesciarne le fondamenta. Sostituirle.

Il programma è invariato: sostituzione della religione con un surrogato (la società secolare perfetta), sostituzione dei doveri con una selva di diritti (libertarismo assoluto), sostituzione del pensiero metafisico con il pensiero debole (da Aristotele a Pippo Baudo), sostituzione delle differenze con il conformismo (da mamma e papà a genitore A e genitore B).

L’arcivescovo e primate di Spagna Antonio Cañizares, all’indomani del trionfo elettorale di Zapatero, dice che «è in corso una rivoluzione culturale».
Più precisamente, però, la rivoluzione culturale è in corso già da qualche secolo. E consiste, come spiega Cañizares, nel produrre «leggi che negano l’evidenza della natura e della ragione, che affidano allo Stato la formazione morale dei giovani, che si propongono di fondare una nuova cultura su una concezione falsa della libertà».

Ma forse Zapatero è provvidenziale.
In fondo, la Chiesa dell’ultimo quarantennio s’era un po’ - diciamo - assopita. La vera anima cattolica dell’Europa adesso scalpita.
Magari leggermente in ritardo, ma scalpita.
***

silvio

lunedì 10 marzo 2008

Salvati per mezzo della speranza

Con la lentezza di una lumaca sono riuscito a finire di leggere la lettera enciclica Spe salvi di Benedetto XVI, pubblicata il 30 novembre 2007.

Questi gli argomenti che trovo più interessanti:

1) Le osservazioni più acute giungono da alcune considerazioni sul Giudizio. In particolare, il Papa considera teologicamente il Giudizio universale e vi vede uno dei “luoghi” «di apprendimento e di esercizio della speranza» (dal n.41 al n.48).
Non solo, ma il ragionamento attorno al Giudizio, da parte degli uomini, dovrebbe evocare quasi una prova decisiva a favore di un mondo trascendente ed eterno: «Io sono convinto che la questione della giustizia costituisce l'argomento essenziale, in ogni caso l'argomento più forte, in favore della fede nella vita eterna.» (n.43)
La dimostrazione alla base di questa tesi è palese.
Nel mondo regna l’ingiustizia. Se non esistesse una vita oltremondana, dove l’ingiustizia viene annullata con un sommo (e divino) atto di giustizia, la storia umana non sarebbe che una vicenda squallida e priva di significato.
La speranza, dunque, di una vita oltre la morte è innanzi tutto fondata sulla ragionevolezza di concepire una giustizia futura e perfetta.

2) Citazione ed analisi della definizione di “fede”, data da San Paolo: «La fede è sostanza delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono.» (Eb 11, 1).
Benedetto XVI sottolinea l’importanza della parola hypostasis (sostanza), da ricercare nel tutto con il suo significato originale ed oggettivo.
In questo caso “sostanza” è da intendere come “fondamento”. È, però, da scartare tutto quello che è fondato su cose materiali e corruttibili. In questo caso, tale fondamento è debole e, tutto sommato, ingannevole.
Se si vuole costruire sulla vera roccia, è da ricercare la fede che «conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento» (n. 8).

3) Critica dell’idea di progresso, fondata su un uso distorto dei termini “ragione” e “libertà”.
Tale uso è stato veicolato, storicamente, dalle rivoluzioni francese e marxista (cfr. nn. 18-21).
L’errore principale, per il Papa, fu quello di non capire che la libertà, senza limite alcuno, è «libertà, anche per il male».
Questo è l’ostacolo primario al sorgere di un’ideale e futura società perfetta, dove il male e l’ingiustizia non avrebbero dovuto avere posto.
«Poiché l'uomo rimane sempre libero e poiché la sua libertà è sempre anche fragile, non esisterà mai in questo mondo il regno del bene definitivamente consolidato. Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora la libertà umana
***
silvio

venerdì 7 marzo 2008

Pensiero della Domenica - 36

A cura del sito “Vie dello Spirito

V^ Quaresima - 09/03/2008

“Lazzaro vieni fuori”

La Liturgia di questa V^ domenica di Quaresima è orientata alla prospettiva della risurrezione e ci presenta Cristo vincitore della morte.
L’Evangelista è ancora Giovanni che descrive le due sorelle in angoscia per la malattia grave del fratello Lazzaro. Marta e Maria non fanno alcuna richiesta concreta; ma con grande umiltà e fiducia, pur essendo già il fratello gravissimo, espongono soltanto la dolorosa situazione.
Ed ecco per l’ennesima volta, l’atteggiamento del Cristo che non percorre la via della razionalità e della logica: “Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: . Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro".
Betania era vicino a Gerusalemme circa quindici stadi; perciò molti Giudei erano venuti da Marta e da Maria per consolarle; data la relativa vicinanza erano venuti molti Giudei da Gerusalemme dove la famiglia era ben conosciuta, essendo di notevole rango. Il lutto stretto durava sette giorni, dei quali i primi tre erano di pianto (nelle lunghe visite, il silenzio dei visitatori era interrotto da pianti e da lamenti lugubri) e gli altri quattro di lutto. Inoltre durante trenta giorni, quelli che partecipavano al lutto, non si tagliavano i capelli e non si lavavano le vesti.

Marta, con la praticità del suo carattere accoglie Gesù così: “Signore, se tu eri qui, mio fratello non moriva... ma anche adesso so che quanto domanderai a Dio, Dio te la concederà...”. E con grande fede chiede ed otterrà il miracolo.
Ed inizia uno stupendo dialogo tra Gesù e Marta.
Sembra che il Cristo quasi si disinteressi della perdita dell’amico Lazzaro, ma prima deve persuadere Marta che Lui è risurrezione e vita.
Al termine del colloquio, Marta farà la sua mirabile professione di fede: “Si o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”.
Quando sopraggiunge anche la sorella Maria, si getta ai piedi di Gesù con un gesto di umile devozione e piange.

A noi sembra che il miracolo della risurrezione di Lazzaro sia una logica conseguenza della grande amicizia, ma i prodigi compiuti dal Cristo, sono tutti per evidenziare la sua Divinità.
Se riuscissimo ad avere questa sintonia, non esisterebbero dubbi, labili speranze; e invece siamo sempre noi che indichiamo a lui cosa deve fare, per la nostra tranquillità e pace.
Si avvicina la Pasqua.
Proviamo insieme a rafforzare la nostra fede ripetendo: Signore, io ho piena fiducia in Te; sono sicurissimo che fai tutto ed esclusivamente per il mio bene. Pensaci Tu a risolvere i miei problemi.
Come?
In che modo?
Non sono io che debbo darti le indicazioni; so soltanto che mi ami di un amore infinito e tutto farai e disponi per il mio vero bene.
Grazie.
Con Te non temo alcun male.
***
Don Lucio Luzzi

giovedì 6 marzo 2008

Arte e fede

«Se un pagano viene e ti dice: “Mostrami la tua fede”, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui essa è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri
San Giovanni Damasceno

«Qui litteras nesciunt […] ut in parietibus videndo legant.»
«Gli illetterati […] che leggano guardando le pareti [delle Chiese - n.d.r.].»
San Gregorio Magno

«L’oro barbaro e pesante delle icone, in sé futile alla luce del giorno, si anima con la luce tremolante di una lampada o di una candela in una chiesa, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste.»
Pavel Aleksandrovič Florenskij
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silvio

Popolo e "massa"

Il dualismo tra le due maggiori forze politiche , popolo delle libertà e partito democratico, non verte soltanto in una contrapposizione di tipo economico,che quasi non si distingue ,tra le due forze, vi è e vi sarà, soprattutto una visione culturale, di civiltà, profondamente diversa su come modellare la società. E' utile ricordare la differenza tra poplo e massa. Per questo propongo ai nostri lettori,un sunto di un profetico -perchè sempre attuale-radiomessaggio del 1944 di Papa Pio XII "Benignitas et humanitas" per una riflessione.

I sommi postulati morali di un retto e sano ordinamento democratico
Premesso che la democrazia, intesa in senso largo, ammette varie forme e può attuarsi così nelle monarchie come nelle repubbliche, due questioni si presentano al Nostro esame:
1° Quali caratteri debbono contraddistinguere gli uomini, che vivono nella democrazia e sotto il regime democratico?
2° Quali caratteri debbono contraddistinguere gli uomini, che nella democrazia tengono il pubblico potere?

Caratteri propri dei cittadini in regime democratico
[1. L’opinione personale di ciascuno nella democrazia]
Esprimere il proprio parere sui doveri e i sacrifici, che gli vengono imposti; non essere costretto ad ubbidire senza essere stato ascoltato: ecco due diritti del cittadino, che trovano nella democrazia, come indica il suo nome stesso, la loro espressione. Dalla solidità, dall’armonia, dai buoni frutti di questo contatto tra i cittadini e il governo dello Stato, si può riconoscere se una democrazia è veramente sana ed equilibrata, e quale sia la forza di vita e di sviluppo. Per quello poi che tocca l’estensione e la natura dei sacrifici richiesti a tutti i cittadini, - al tempo nostri in cui così vasta e decisiva è l’attività dello Stato, - la forma democratica di governo apparisce a molti come un postulato naturale imposto dalla stessa ragione. Quando però si reclama "più democrazia e migliore democrazia", una tale esigenza non può avere altro significato che di mettere il cittadino sempre più in condizione di avere la propria opinione personale, e di esprimerla e di farla valere in una maniera confacente al bene comune.
[2] Popolo e "massa"
Da ciò deriva una prima conclusione necessaria, con la sua conseguenza pratica. Lo Stato non contiene in sé e non aduna meccanicamente in un dato territorio un’agglomerazione amorfa d’individui. Esso è, e deve essere in realtà, l’unità organica e organizzatrice di un vero popolo.
Popolo e moltitudine amorfa o, come suol dirsi, "massa" sono due concetti diversi. Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, e non può essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo compongono, ciascuno dei quali – al proprio posto e nel propri modo – è una persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, invece, aspetta l’impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gl’istinti o le impressioni, pronta a seguire , a volta a volta, oggi questa, domani quell’altra bandiera. Dalla esuberanza di vita d’un vero popolo la vita si effonde, abbondante, ricca, nello Stato e in tutti i suoi organi, infondendo in essi, con vigore incessantemente rinnovato, la consapevolezza della propria responsabilità, il vero senso del bene comune. Della forza elementare della massa, abilmente maneggiata ed usta, può pure servirsi lo Stato: nelle mani ambiziose d’un solo o di più, che le tendenze egoistiche abbiano artificialmente raggruppati, lo Stato stesso può, con l’appoggio della massa, ridotta a non essere più che una semplice macchina, imporre il suo arbitrio alla parte migliore del vero popolo: l’interesse comune ne resta gravemente e per lungo tempo colpito e la ferita è bene spesso difficilmente guaribile. Da ciò appare chiara un’altra conclusione: la massa – quale Noi abbiamo or ora definita – è la nemica capitale della vera democrazia e del suo ideale di libertà e di uguaglianza.
[3. Libertà e uguaglianza nella vera democrazia]
In un popolo degno di tal nome, il cittadino sente in se stesso la coscienza della sua personalità, dei suoi doveri, e dei suoi diritti, della propria libertà congiunta col rispetto della libertà e della dignità altrui. In un popolo degno di tal nome, tutte le ineguaglianze, derivanti non dall’arbitrio, ma dalla natura stessa delle cose, ineguaglianze di cultura, di averi, di posizione sociale – senza pregiudizio, bene inteso, della giustizia e della mutua carità – non sono affatto un ostacolo all’esistenza e al predominio di un autentico spirito di comunità e di fratellanza. Che anzi esse, lungi dal ledere in alcun modo l’uguaglianza civile, le conferiscono il suo legittimo significato, che cioè, di fronte allo Stato, ciascuno ha il diritto di vivere onoratamente la propria vita personale, nel posto e nelle condizioni in cui i disegni e le disposizioni della provvidenza l’hanno collocato.
[4. Deformazione di uguaglianza e di libertà nello Stato massificato]
In contrasto con questo quadro dell’ideale democratico di libertà e d’uguaglianza in un popolo governato da mani oneste e provvide, quale spettacolo offre uno Stato democratico lasciato all’arbitrio della massa! La libertà, in quanto dovere morale della persona, si trasforma in una pretensione tirannica di dare libero sfogo agl’impulsi e agli appetiti umani a danno degli altri. L’uguaglianza degenera in un livellamento meccanico, in una uniformità monocroma: sentimento del vero onore, attività personale, rispetto della tradizione, dignità, in una parola, tutto quanto dà alla vita il suo valore, a poco a poco, sprofonda e dispare. E sopravvivono soltanto, da una parte , le vittime illuse del fascino appariscente della democrazia, confuso ingenuamente con lo spirito stesso della democrazia, con la libertà e l’uguaglianza; e, dall’altra parte, i profittatori più o meno numerosi che hanno saputo, mediante la forza del danaro, o quella dell’organizzazione, assicurarsi sugli altri una condizione privilegiata e lo stesso potere.

Caratteri degli uomini che nella democrazia tengono il pubblico potere
[1. L’autorità è essenzialmente necessaria]
Lo Stato democratico, sia esso monarchico o repubblicano, deve, come qualsiasi altra forma di governo, essere investito del potere di comandare con una autorità vera ed effettiva. Lo stesso ordine assoluto degli esseri e dei fini, che mostra l’uomo come persona autonoma, vale a dire soggetto di doveri e di diritti inviolabili, radice e termine della sua vita sociale, abbraccia anche lo Stato come società necessaria, rivestita dell’autorità, senza la quale non potrebbe né esistere né vivere. Che se gli uomini, prevalendosi della libertà personale, negassero ogni dipendenza da una superiore autorità munita del diritto di coazione, essi scalzerebbero con ciò stesso il fondamento della loro propria dignità e libertà, vale a dire quell’ordine assoluto degli esseri e dei fini.
Stabiliti su questa medesima base, la persona, lo Stato, il pubblico potere, con i loro rispettivi diritti, sono stretti e connessi in tal modo che o stanno o rovinano insieme.
[2. Il fondamento dell’autorità di Dio]
E poiché quell’ordine assoluto, alla luce della sana ragione, e segnatamente della fede cristiana, non può avere altra origine che in un Dio personale, nostro Creatore, consegue che la dignità dell’uomo è la dignità dell’immagine di Dio, la dignità dello Stato è la dignità della comunità morale voluta da Dio, la dignità dell’autorità politica è la dignità della sua partecipazione all’autorità di Dio.
Nessuna forma di Stato può non tener conto di questa intima e indissolubile connessione; meno che ogni altra la democrazia. Pertanto, se chi ha il pubblico potere non la vede o più o meno la trascura, scuotete nelle sue basi la sua propria autorità. Parimente se egli non terrà abbastanza in conto questa relazione, e non vedrà nella sua carica la missione di attuare l’ordine voluto da Dio, sorgerà il pericolo che l’egoismo del demonio o degli interessi prevalga sulle esigenze essenziali della morale politica e sociale, e che le vane apparenze di una democrazia di pura forma servano spesso come di maschera a quanto vi è in realtà di meno democratico.
[3. Le esigenze morali e spirituali relative ai detentori del potere]
Soltanto la chiara intelligenza dei fini assegnati da Dio ad ogni società umana, congiunta col sentimento profondo dei sublimi doveri dell’opera sociale, può mettere quelli, a cui è affidato il potere, in condizione di adempiere i propri obblighi di ordine sia legislativo, sia giudiziario od esecutivo, con quella coscienza della propria responsabilità, con quella oggettività, con quella imparzialità, con quella lealtà, con quella generosità, con quella incorruttibilità, senza la quali un governo democratico difficilmente riuscirebbe ad ottenere il rispetto, la fiducia e l’adesione della parte migliore del popolo.
Il sentimento profondo dei principi di un ordine politico e sociale, sano e conforme alle norme del diritto e della giustizia, è di particolare importanza in coloro che, in qualsiasi forma di regime democratico, hanno come rappresentanti del popolo, in tutto o in parte, il potere legislativo. E poiché il centro di gravità di una democrazia normalmente costituita risiede in questa rappresentanza parlamentare, da cui le correnti politiche s’irradiano in tutti i campi della vita pubblica – così per il bene come per il male - , la questione della elevatezza morale, della idoneità pratica, della capacità intellettuale dei deputati al parlamento, è per ogni popolo in regime democratico una questione di vita o di morte, di prosperità o di decadenza, di risanamento o di perpetuo malessere.
Per compiere un’azione feconda, per conciliare la stima e la fiducia, qualsiasi corpo legislativo deve – come attestano indubitabili esperienze – raccogliere nel suo seno una eletta di uomini, spiritualmente eminenti e di fermo carattere, che si considerino come i rappresentanti dell’intero popolo e non già come i mandatari di una folla, ai cui particolari interessi spesso purtroppo sono sacrificati i veri bisogni e le vere esigenze del bene comune. Una eletta di uomini, che non sia ristretta ad alcuna professione o condizione, bensì che sia l’immagine della molteplice vita di tutto il popolo. Una eletta di uomini di solida convinzione cristiana, di giudizio giusto e sicuro, di senso pratico ed equo, coerente con se stesso in tutte le circostanze; uomini di dottrina chiara e sana , di propositi saldi e rettilinei, uomini soprattutto capaci, in virtù dell’autorità che emana dalla loro pura coscienza e largamente s’irradia intorno ad essi, di essere guide e capi specialmente nei tempi in cui le incalzanti necessità sovreccitano la impressionabilità del popolo, e lo rendono più facile ad essere traviato e a smarrirsi; uomini che nei periodi di transizione, generalmente travagliati e lacerati dalle passioni, dalle divergenze delle opinioni e dalle opposizioni dei programmi, si sentono doppiamente in dovere di far circolare nelle vene del popolo e dello Stato, arse da mille febbri, l’antidoto spirituale delle vedute chiare, della bontà premurosa, della giustizia ugualmente favorevole a tutti, e la tendenza della volontà verso l’unione e la concordia nazionale in uno spirito di sincera fratellanza.
I popoli, il cui temperamento spirituale e morale è bastantemente sano e fecondo, trovano in sé stessi e possono dare al mondo gli araldi e gli strumenti della democrazia, che vivono in quelle disposizioni e le sanno mettere realmente in atto. Dove invece mancano tali uomini, altri vengono ad occupare il loro posto, per fare dell’attività politica l’arena della loro ambizione, una corsa ai guadagni per se stessi, per la loro casta o per la loro classe, mentre la caccia agl’interessi particolari fa perdere di vista e mette in pericolo il vero bene comune.
[L’assolutismo di Stato]
Una sana democrazia fondata sugl’immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate, sarà risolutamente contraria a quella corruzione, che attribuisce alla legislazione dello Stato un potere senza freno né limiti, e che fa anche del regime democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze, un puro e semplice sistema di assolutismo.
L’assolutismo di Stato (da non confondersi, in quanto tale, con la monarchia assoluta, di cui qui non si tratta) consiste infatti nell’erroneo principio che l’autorità dello Stato è illimitata, e che di fronte ad essa – anche quando dà libero corso alle sue mire dispotiche, oltrepassando i confini del bene e del male - , non è ammesso alcun appello ad una legge superiore e moralmente obbligante.
Un uomo compreso da rette idee intorno allo Stato e all’autorità e al potere di cui è rivestito, in quanto custode dell’ordine sociale, non penserà mai di offendere la maestà della legge positiva nell’ambito della sua naturale competenza. Ma questa maestà del diritto positivo umano allora soltanto è inappellabile, se si conferma – o almeno non si oppone – all’ordine assoluto, stabilito dal Creatore e messo in una nuova luce dalla rivelazione del Vangelo. Essa non può sussistere se non in quanto rispetta il fondamento, sul quale si appoggia la persona umana, non meno che lo Stato e il pubblico potere. E’ questo il criterio fondamentale di ogni sana forma di governo, compresa la democrazia; criterio col quale deve essere giudicato il valore morale di ogni legge particolare.
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roberto

mercoledì 5 marzo 2008

La Parola di Gesù dà e toglie la vista

Volevo chiosare il Vangelo della Domenica di questa settimana, nella parte conclusiva del medesimo.
«Gesù allora disse: “È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”.
Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: “Siamo ciechi anche noi?”.
Gesù rispose loro: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane”
.» (Gv 9, 39-41)

Gesù è il Salvatore, ossia colui che - in giudizio - realizza la guarigione della cecità spirituale, che causa il peccato.
Questa realizzazione, però, non può avvenire senza l’iniziativa - ma forse è meglio dire senza il sigillo della volontà - del peccatore. In questo caso, il cieco nato obbedisce a Gesù e si lava alla piscina di Siloe (Gv 9, 6-7).
L’obbedienza è l’umile ammissione di essere cieco, malato e, quindi, desideroso di guarire.

Viceversa, il superbo diventa cieco spiritualmente e rimane nel peccato.
È importante, però, eliminare un equivoco: Gesù viene nel mondo per un giudizio, ma non per giudicare. Nel senso che la guarigione non è un premio, così come la cecità non è una punizione (o una condanna) di Dio.
Altrove, infatti, Gesù così si esprime: «Se uno ode le mie parole e non le osserva, io non lo giudico; perché io non son venuto a giudicare il mondo, ma a salvare il mondo. Chi mi respinge e non riceve le mie parole, ha chi lo giudica; la parola che ho annunciata è quella che lo giudicherà nell'ultimo giorno.» (Gv 12, 47-48)

Non Gesù giudica il mondo ma, in un certo senso, è ciascuno di noi che rende a sé stesso il giudizio che liberamente ha scelto.
Eppure vi sarà un giudizio personale ed uno universale. E Gesù sarà “giusto giudice” e “salvatore”.
A questo proposito dirà:
«Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25, 34) e «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno» (Mt 25, 41).
È importante allora, per comprendere questa Parola, interpretare correttamente il senso del termine “giudizio”.

È sbagliato ritenere che la Parola di Dio abbia il solo effetto salvifico.
C’è un giudizio di salvezza ed un giudizio di condanna che, però, dipende da colui che è giudicato, non dal giudicante - Dio - che vorrebbe tutti salvi.
Per questo è descritto, nell’Apocalisse (1, 13.16), il Verbo «simile a figlio di uomo» dalla cui bocca esce «una spada affilata a doppio taglio»: perché duplice è l’effetto della Sua Parola.
L'effetto - beninteso - della Sua Parola è duplice, non la Sua volontà, che è volontà unica e di salvezza.
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silvio

lunedì 3 marzo 2008

L'Europa sta vivendo una fase di "relativismo aggressivo"

di Miriam Díez i Bosch
ROMA, lunedì, 25 febbraio 2008 (ZENIT.org).- L'Europa sta vivendo una fase di “relativismo aggressivo”. A dirlo è il professor Massimo Introvigne, autore del volume “Il segreto dell’Europa. Guida alla riscoperta delle radici cristiane” (Sugarco Edizioni http://www.sugarcoedizioni.it/ , 2008, 220 pagine, 16 euro).
“I nuovi relativisti aggressivi invece vogliono che il relativismo diventi legge ufficiale dello Stato”, afferma in questa intervista a ZENIT il dirigente di Alleanza Cattolica, fondatore e direttore del CESNUR, il Centro Studi sulle Nuove Religioni.

L'Europa è in crisi di identità?
Introvigne: Il Santo Padre in due occasioni - nel Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi del 22 dicembre 2006 e il 24 marzo 2007 in occasione del cinquantenario dei Trattati di Roma – ha usato un’espressione più forte, affermando che l’Europa “sembra volersi congedare dalla storia”.
“Congedarsi dalla storia” significa tirare il sipario, salutare gli spettatori e ammettere che la rappresentazione si è conclusa. È stata bella finché è durata, ma ora è finita. È possibile? Certamente: a differenza delle persone umane, le civiltà non hanno un’anima immortale. Cominciano e finiscono nella storia, e quella europea non fa eccezione. Sta succedendo? Molti politici lo negherebbero.
Tuttavia Benedetto XVI ha messo in luce tre aspetti – elencati come tali appunto nei due discorsi che ho citato – che corrispondono a dati di fatto che è molto difficile negare.
Il primo è l’”apostasia da se stessa” dell’Europa, il rifiuto di riconoscere le proprie radici – che sono tanto ovviamente cristiane da rendere qualunque discussione sul punto capziosa – e la propria storia, che porta poi a una debolezza e a una mancanza d’identità nei confronti di qualunque attacco o accadimento esterno. Che l’Europa non riesca a parlare con una voce sola lo vediamo ancora in questi giorni a proposito della questione del Kosovo.
Il secondo aspetto è la separazione delle leggi dalla morale. Non la semplice lontananza della politica, o di qualche uomo politico, dalla morale privata e pubblica, che non è un problema né recente né solo europeo, ma attraversa tutta la storia umana. No: si tratta della autonomia prima teorizzata e quindi poi fatalmente praticata delle leggi dalla morale. Dall’etica, non dalla religione, così che le critiche di “ingerenza” nei confronti della Chiesa non hanno a loro volta alcun senso, trattandosi qui della morale naturale e delle regole del gioco chiamato società – il Papa parla di “grammatica della vita sociale” – che non sono in quanto tali né cristiane né atee o buddhiste e che tutti dovrebbero condividere.

E questa grammatica della vita sociale non si rispetta?
Introvigne: Bene: oggi in Europa si afferma che queste regole del gioco non esistono, e che il legislatore deve limitarsi a fare il notaio e a formalizzare quanto già avviene nella società (o i media gli fanno credere che accada). Ci sono coppie omosessuali? Il legislatore ne prenda atto e le equipari alle famiglie. Ci sono musulmani che vivono in poligamia? Il legislatore li regolarizzi, o magari applichi la sharia come vorrebbe qualche personaggio europeo anche autorevole. Negli ospedali si pratica l’eutanasia? Lo Stato notaio la regoli per legge, com’è appena avvenuto in Lussemburgo.
Il terzo aspetto è la crisi demografica, il fatto drammatico che in Europa nascano sempre meno bambini: su questo punto i fatti si rifiutano ostinatamente di cooperare con le teorie di chi dice che l’Europa non è in crisi, e anche i risultati apparentemente in controtendenza di alcuni Paesi spesso derivano da semplici norme nuove sulla cittadinanza, che calcolano fra i nati cittadini anche i figli degli immigrati.

Laicismo aggressivo e anticristiano, relativismo... siamo in tempi oscuri?
Introvigne: Un intellettuale non cattolico, anzi comunista, come Antonio Gramsci diceva che quando c’è cattivo tempo si ha tendenza a prendersela con il barometro, mentre “abolito il barometro, non è con questo abolito il cattivo tempo”.
Oggi in Europa assistiamo a questo fenomeno: dal momento che Benedetto XVI è l’unico o quasi a denunciare la drammatica situazione di crisi sui tre aspetti cui ho fatto cenno – certo, forse anche perché non deve presentarsi a nessuna elezione, dove gli elettori di solito non premiamo gli annunciatori di cattive notizie – nell’immaginario di un certo laicismo europeo fa la fine del barometro di Gramsci.
Ma non è che impedendo di parlare al Papa – come è avvenuto a Roma all’Università La Sapienza – i problemi magicamente spariscano. Ci sono poi altri che pensano che quelli che il Papa denuncia come problemi siano in realtà risorse: che la crisi della famiglia tradizionale, l’aborto, l’eutanasia, la negazione del concetto di legge naturale, il multiculturalismo senza freni per cui non accettare di legalizzare la poligamia in una società dove ci sono molti musulmani è una forma di razzismo, siano tutti fenomeni positivi, da promuovere, che ci porteranno a una società con minori conflitti.
Per costoro il conflitto nasce dalla pretesa di chi crede che esista una verità; mentre dove si conviene che la verità non esiste il conflitto scompare.
Questa utopia è stata così spesso smentita dalla storia che sostenerla dovrebbe risultare ormai imbarazzante: ma non è così.
Dove le società sono complesse – e l’Europa di oggi lo è – non c’è scampo: o fra persone che hanno culture e religioni diverse si trova, appunto, una “grammatica della vita comune”, regole comuni che consentano di convivere – che possono soltanto derivare dalla ragione e da una legge naturale che la ragione può conoscere – o ci si riduce al conflitto di tutti contro tutti.
O le questioni conflittuali sono risolte con il richiamo a un diritto naturale valido per tutti o sono risolte a suon di violenza e di bombe.

Lei parla di diverse fasi di relativismo. Dove siamo oggi?
Introvigne: Siamo nella fase del relativismo aggressivo. Il vecchio relativista teorizzava, anche se non sempre praticava, la massima di Voltaire secondo cui “io non condivido la tua idea ma sono disposto a dare la vita perché tu possa sostenerla liberamente”.
Come sappiamo, Voltaire era il primo a non mettere in pratica questa massima quando si trattava della Chiesa cattolica.
Tuttavia c’erano, e ci sono ancora, dei vecchi volterriani che credono per davvero a quello che dicono e che, pur essendo personalmente relativisti, non chiedono allo Stato di punire chi non è relativista.
I nuovi relativisti aggressivi invece vogliono che il relativismo diventi legge ufficiale dello Stato, con conseguente repressione penale dei non relativisti. Un semplice esempio: i vecchi relativisti affermavano che “la camera da letto di un omosessuale è il suo castello” (adattando una vecchia massima inglese: il castello è il luogo dove neanche il re con le sue leggi può entrare), di cui
lo Stato non deve occuparsi, dove gli omosessuali non meno degli eterosessuali devono essere lasciati liberi di fare tutto quello che vogliono.
Il nuovo relativista pretende invece che lo Stato costruisca al gay le mura del castello e arresti chi si avvicina o anche semplicemente chi esprime opinioni critiche. È questo il senso delle leggi sull’omofobia, che non puniscono affatto chi malmena o insulta trivialmente gli omosessuali (per questo ci sono già naturalmente le leggi ordinarie) ma – secondo la formula della legge proposta dal Governo italiano ora dimissionario – reprimono chi esprima “giudizi di superiorità”, cioè consideri l’unione eterosessuale intrinsecamente superiore rispetto all’unione omosessuale, o pensi – come fa la Chiesa – che quest’ultima è intrinsecamente disordinata.

E allora, qual è il segreto dell'Europa?
Introvigne: Il segreto dell’Europa è la sua storia millenaria, in cui entrano certamente altre componenti – per esempio, è del tutto ineliminabile l’apporto delle comunità ebraiche – ma che nel suo percorso di fondo è cristiana. Per quanto ricoperti dai detriti di un enorme fuoco di sbarramento aperto dal laicismo e dal relativismo, i valori di questa storia sono ancora vivi e presenti.
Certo, lo sono di più in alcuni Paesi che in altri: per esempio, a proposito dell’Italia, Benedetto XVI ha detto al convegno ecclesiale di Verona, il 19 ottobre 2006, che “la Chiesa qui è una realtà molto viva, – e lo vediamo! – che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione” e che “le tradizioni cristiane sono spesso ancora radicate e continuano a produrre frutti”.
Ora, si potrebbe dire che lo stesso Benedetto XVI da una parte parla di un’Europa “pronta a congedarsi dalla storia”, dall’altra vede (almeno in Italia, ma non si tratta certo dell’unico Paese per cui sia valgono considerazioni analoghe, sia il Papa le ha proposte nei suoi discorsi) “tradizioni cristiane ancora radicate”: non ci sarà forse una contraddizione? La risposta è no.
Il Papa parlando della crisi dell’Europa non ci convoca a un funerale, ma al capezzale di un malato. Un malato grave, cui è inutile nascondere la gravità della sua condizione. Ma un malato che ha ancora in sé – nascoste da qualche parte – le potenzialità per guarire.
Come il buon medico, Benedetto XVI – se da una parte non tace sui pericoli che il morbo possa diventare mortale – dall’altra scruta con attenzione e valorizza sistematicamente ogni piccolo miglioramento, ogni spunto di guarigione.
Se nel deserto ogni tanto spunta una piantina, non va sradicata ma coltivata perché diventi domani un albero e dopodomani un bosco. Ma per coltivare la piantina occorre irrigarla, e non basta l’entusiasmo: che pure, quando è rivolto al Papa, ai suoi interventi e ai suoi viaggi è sempre un buon punto di partenza. È necessaria l’acqua solida della dottrina e del magistero.
Il libro “Il segreto dell’Europa” nasce dall’esperienza di trentacinque anni di attività che ho svolto in Alleanza Cattolica, un’agenzia di laici cattolici che ha come scopo principale lo studio, la diffusione e l’applicazione dell’insegnamento del magistero pontificio.
Mai come in questi anni – e senza assolutamente disprezzare chi nella Chiesa ha altre vocazioni e opera con modalità diverse – l’opera di diffusione degli insegnamenti del Papa (penso per esempio al magnifico affresco della storia profana e della storia della salvezza nella “Spe salvi”, come sempre però scomparsa dal radar dei mezzi di comunicazione di massa dopo pochi giorni dalla pubblicazione) mi sembra indispensabile e urgente.
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roberto