venerdì 29 marzo 2013

“Uscire” dal proprio egoismo per amore


di Silvio Brachetta

Papa Francesco, nella sua prima udienza generale, è tornato sulla verità teologica e magisteriale secondo cui Gesù Cristo «uscì» da se stesso per la salvezza dell’uomo.

Gli ultimi due Pontefici si erano già espressi sull’arcana «uscita» del Figlio dal Padre. Giovanni Paolo II, ad esempio, nell’udienza generale del 24 giugno 1987, riproponeva le parole di Gesù stesso trascritte dall’Evangelista san Giovanni: «[…] da Dio sono uscito e vengo e non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato» (Gv 8, 42); «[i miei discepoli] sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato» (Gv 17, 8). San Girolamo, nel compilare la Vulgata, utilizza per il passo di Gv 8, 42 la categoria teologica della «processione» - procèdere, dal lat. pro (davanti) e cèdere (ritirarsi), ovvero “uscire”, “nascere” - e per il passo di Gv 17, 8 usa direttamente il verbo exire (uscire, appunto).

Benedetto XVI, all’Assemblea speciale per il Medioriente del Sinodo dei Vescovi (11 ottobre 2010), affermava che «Dio non è rimasto in sé: è uscito da sé», unendosi con l’uomo, in Gesù. Il papa stava parlando dell’incarnazione e, in particolare, del ruolo peculiare della Theòtokos, della Santa Vergine Madre di Dio.

Allo stesso modo, Papa Francesco ha invitato tutti a uscire da noi stessi «come Gesù, come Dio è uscito da se stesso in Gesù». Gesù infatti - ha precisato - «è uscito da se stesso per tutti noi», non per una qualche necessità, ma nella libera donazione amorosa di se.
San Paolo, nel celebre inno cristologico della Lettera ai Filippesi, affermò che Gesù Cristo «exinanivit semetipsum» (sempre secondo la Vulgata di san Girolamo) - cioè «spogliò», «annientò» o «svuotò se stesso» - «assumendo la condizione di servo» (Fil 2, 7). In quell’«exinanivit» è contenuto il mistero della povertà divina: sebbene «exinanivit» potrebbe tradursi con «si rese inane, inutile», l’attenzione va posta primariamente sul termine latino «ex», che richiama alla mente l’azione o l’operazione dell’«uscire» o del «trarre fuori».

Ma se la generazione del Figlio fu opera del Padre, come si può dire che il Figlio ci ha amato? Leggendo san Paolo - spiega sant’Agostino d’Ippona - vediamo «che la nascita del Figlio fu opera del Padre, ma poiché fu proprio il Figlio che “spogliò se stesso assumendo la condizione di servo”, vediamo che la nascita del Figlio fu anche opera dello stesso Figlio» (Discorso LII). È uno dei misteri più grandi, nascosto in Dio dall’eternità.
Eppure dinnanzi all’umiliazione del Cristo, non possiamo che convenire con sant’Agostino: «Estremo abbassamento! Cristo volle umiliarsi: è a tua disposizione, o cristiano, quel che devi far tuo» (Discorso CCCIV).

La teologia interroga la mistica


di Piero Vassallo

L'urgenza di opporre la fede al dubbio ha suggerito al regnante papa Francesco l'affermazione che la Chiesa cattolica non è una associazione secolare, unicamente o prevalentemente intesa all'assistenza materiale dei bisognosi.
Eccitati dal fumo postconciliare, i promotori dello scempio liturgico e dell'avventurismo teologico hanno, infatti, alzato il labaro della socialità umanitaria, mettendo in discussione il primato dello spirituale e misconoscendo il valore pedagogico delle sublimi, eroiche esperienze mistiche vissute, contro la corrente del modernismo, da Santa Gemma Galgani (1878-1903) e da San Pio da Pietrelcina (1887-1968).

Le biografie eroiche dei due santi stigmatizzati, sono di fatto sottovalutate e quasi censurate da pastori aperti alla teologia simpatica e buonista, in devastante circolazione fra gli stati d'animo suscitati dalle teorie modernizzanti di Karl Rahner.
La minaccia di un'involuzione secolare/storicistica dell'unica, vera religione e il rischio di uno strisciante deprezzamento dell'esperienza mistica, fu avvertita negli anni Settanta da padre Cornelio Fabro, il quale, in un magistrale saggio, affermò che "La testimonianza di Santa Gemma Galgani vissuta nel soprannaturale è quasi del tutto smarrita in questa tribolata Chiesa del post-Concilio" (Cfr.: Cornelio Fabro, "Lettere su Santa Gemma al Monastero di Lucca", a cura di Elvio Fontana, Edivi, Segni 2013).

Il disorientamento del clero aperturista è peraltro oggetto di una rivelazione di Gesù a Santa Gemma: "Figlia mia, vedi, se non fosse per il rispetto a questi Angeli che mi stanno d'attorno, quanti ne fulminerei all'altare. E voleva dire nel tempo che dicono la Messa".
Nella presentazione del volume citato, Suor Rosa Goglia, che per la durata di un ventennio fu preziosa e sagace collaboratrice del geniale interprete del tomismo, rammenta che Fabro, fin dagli anni del seminario, fu attirato dal carisma di Santa Gemma e dalla abissale, sconvolgente profondità delle rivelazioni da lei ricevute: "Padre Fabro si sente attirato dal suo [di Santa Gemma] carisma che si dipana in varie manifestazioni: il suo sentire sovrasensibile, la presenza del soprannaturale nel vivere quotidiano, tutto ciò che Gemma sente ma non capisce, ma vive in santità e in fierezza".

In tempi segnati dalla tentazione di rovesciare il sovrannaturale nel sociale e la giustizia di Dio nella tolleranza del peccato, Fabro ha proposto una meditazione sulla pietà eroica e sulle sofferenze sopportate da Santa Gemma per amore di Cristo: "la purificazione inesorabile compiuta da Dio in un'anima innocente, ci apre uno spiraglio sull'orrore del peccato e delle brutture della vita che non possono lasciare indifferenti".
Ora nella vita esemplarmente eroica di Santa Gemma si legge la confutazione delle tesi intorno ai cristiani anonimi.
Le rivelazioni a Santa Gemma sono i contravveleni della carità al perdonismo "La spiritualità che emana da queste righe [di Santa Gemma] all'apparenza così semplici, così squillanti di gioie e pene divine narrate con infantile tenerezza, ha un'essenza metafisica di senso assoluto; non c'è che un'unica via per la salvezza: quella della Croce, e sono gli innocenti che devono espiare per i peccatori".

La rivelazione ai Santi è uno spiraglio aperto dalla divina misericordia per alleviare l'angoscia che opprime coloro che sono prigionieri del sistema dell'empietà.
Fabro al proposito formula un giudizio incendiario, che fa cadere i ponti lanciati dall'avventurismo teologico verso il compromesso con l'errore: "Il mondo moderno è indubbiamente preda della malattia del peccato, che diventa sempre più evidente e lacerante con le ideologie e tecniche moderne, che hanno scardinato e stanno incenerendo con i nuovi universali antropologici delle cosiddette scienze umane, ogni protezione per l'intimità dell'io, ch'è ora trascinato e travolto nel vuoto di un moto perpetuo d'insignificanza e della rottura d'ogni limite".

Le pagine più avvincenti dell'epistolario e dei saggi pubblicati in appendice contengono un'audace riflessione fabriana intesa all'approfondimento della teologia mistica.
Alcune sconvolgenti rivelazioni a Santa Gemma suggeriscono al teologo "la contemporaneità ossia presenza di Cristo alla storia umana: Gesù è sofferente con noi per e con noi fino alla fine del mondo quando il Figlio dell'uomo farà il giudizio della storia e il principe di questo mondo sarà cacciato fuori".

Quasi a smentita dell'irenismo festante, Fabro deduce dalle lettere di Santa Gemma un nuovo argomento della teologia mistica, la contemplazione in Cristo "di una contemporaneità di solidarietà e di misericordia per i peccati del mondo come una continuazione nel senso esistenziale di una ripetizione (reale-mistica) della sua Passione".
Di qui un nuovo argomento teologico, offerto a Fabro da Santa Gemma e da San Pio da Pietralcina, e proposto alla meditazione di noi peccatori nel Venerdì Santo: "L'Uomo-Dio nella gloria soffre ancora? Come Dio non certamente. Come Uomo, i Santi e i mistici lo vedono soffrire per i peccati degli uomini, lo sentono invocare la riparazione e chiedere di essere confortato. Perché non ammettere che qui abbiamo un tempo nuovo e una presenza nuova di Cristo? La presenza esistenziale ed il tempo esistenziale dell'Uomo-Dio? L'Emmanuele che è Dio con noi? Perciò la storia umana ed ogni atto libero, sia dei Santi come dei peccatori, è presente a Cristo, in un modo estensivo così che ogni atto gli è presente nella qualità propria del momento del suo accadere".

mercoledì 27 marzo 2013

Margherita Hack: “il comunismo ha soppresso le libertà”, “le conquiste sociali fatte sotto il fascismo oggi ce le sogniamo”


A cura di: barricate.net, francarame.it

Sul nuovo numero di Barricate, la nuova rivista dei Movimenti in edicola ogni due mesi, stupisce l'intervista all'astrofisica Margherita Hack, nota icona della sinistra movimentista. La Hack non solo non demonizza il fascismo segnalandone le conquiste sociali, ma afferma di detestare i sovietismi e critica il marximo per aver soppresso la libertà individuale. Ecco un'estratto dall'intervista, la cui versione completa è leggibile sul cartaceo in edicola questo mese:

Margherita lei è ancora comunista?

Si. Ma il Comunismo ha soppresso le libertà. Io sono per la tutela della proprietà privata, il rispetto dell’individuo che non è solo gruppo. Questo è socialismo puro. Poi guardi basterebbe rispettare la Costituzione per avere una società più giusta.

Lei come Marxista cosa avrebbe fatto?

Guardi il marxismo voleva inquadrare tutti, a me non va bene. Il Sovietismo è stato una dittatura vergognosa. Il mio Socialismo persegue la giustizia sociale senza sopprimere le libertà individuali.

E il Fascismo?

Fu dittatura pure quella. Mio padre mi raccontava che i fascisti arrivarono al potere perché c’erano troppi scioperi e voglia di ordine. Le dirò, le conquiste sociali fatte sotto il fascismo oggi ce le sogniamo, il che è tutto dire. Non si trattava solo dei treni in orario. Assegni familiari per i figli a carico, borse di studio per dare opportunità anche ai meno abbienti, bonifiche dei territori, edilizia sociale. Questo perché solo dieci anni prima Mussolini era in realtà un Socialista marxista e massimalista che si portò con sé il senso del sociale, del popolo. Le dirò, in un certo senso il fascismo modernizzò il paese. Nei confronti del Nazismo fu dittatura all’acqua di rose: se Mussolini non avesse firmato le infamanti leggi razziali, sarebbe morto di morte naturale come Franco. Resta una dittatura, ma anche espressione d’italianità. Bisognerebbe fare un’analisi meno ideologica su questo.

Per l’ennesima volta Margherita Hack ci stupisce. Si definisce comunista antisovietica, a favore della proprietà privata e non demonizza il fascismo. Ma quanti, oltre lei, hanno oggi l’onestà intellettuale e gli attributi per lanciarsi senza paura in analisi così scomode per una Comunista? La Hack è stata e resta un punto di riferimento per molti a sinistra. Un’icona per i giovani. Forse la sua schiettezza dovrebbe essere studiata da coloro che la politica la praticano con un piede nel bizantinismo e uno in Macchiavelli.
Un pensiero libero, partecipativo, incalzante e più movimentista, a oltre novanta anni, di molti pigri cittadini rassegnati al non cambiamento.

L’embrione umano non è una questione di laboratorio


di Silvio Brachetta

L’Arcivescovo di Parigi e Cardinale francese André Vingt-Trois è recentemente intervenuto in difesa della vita umana, con una ferma critica alla proposta di legge per la manipolazione (e la distruzione) di embrioni umani.
Giovedì 28 marzo i deputati francesi dell’Assemblea nazionale discuteranno se approvare o meno la richiesta di deroga della legge, in vigore da circa un decennio, di divieto alla ricerca sugli embrioni. Il Senato ha già dato l’approvazione (il 7 dicembre 2012) e il gruppo radicale francese di sinistra, promotore della proposta legislativa, ha il pieno sostegno del Governo socialista e del Primo ministro Jean-Marc Ayrault.
Secondo quanto riporta il quotidiano cattolico francese La Croix, mons. Vingt-Trois, nel corso del suo intervento settimanale su Radio Notre-Dame, ha detto che la proposta di legge è «un grave errore circa l’equilibrio della nostra società». Ha poi aggiunto: «Quando diamo libero corso a tutti i tipi di ricerca sugli embrioni, questo significa ritenere che l’embrione è un nulla, una questione di laboratorio».
E, in effetti, quello che sta avvenendo in Francia è molto simile a un processo di nullificazione umana e famigliare. Non va dimenticato, a questo proposito, che in aprile potrebbe essere approvato il disegno di legge a favore del matrimonio omosessuale e delle adozioni per le coppie omosessuali, proposto dal Ministro della Giustizia Christiane Taubira.
Quanto alla proposta di manipolazione embrionale, il Cardinale Vingt-Trois ha precisato che «lo statuto umano dell’embrione è gravemente compromesso». Non solo, ma è «un duplice errore». Innanzi tutto «è un errore poiché […] ci viene detto che le cellule embrionali saranno la fonte per il trattamento rigenerativo delle malattie nervose e, fino ad oggi, non ci sono in questo settore nemmeno dei test di protocollo».
Ma è un errore anche perché «altri percorsi di ricerca più promettenti sono in fase di sperimentazione e sono stati pure confermati da un premio Nobel [il giapponese Shinya Yamanaka, studioso di riprogrammabilità delle cellule staminali adulte, ndr]». Mons. Vingt-Trois allude qui al fatto che la ricerca sulle staminali adulte approda almeno a qualche risultato concreto, rispetto all’impiego delle staminali embrionali che, sinora, è stato del tutto deludente. Per questo motivo i danari a disposizione dei laboratori di ricerca sarebbero spesi assai meglio nel caso di sperimentazione sulle staminali adulte.
Il «potere economico dei laboratori di ricerca» infatti - ha concluso il Cardinale - «rimane ostinatamente infruttuoso quando non si utilizzano i fondi raccolti con procedure di grande mobilitazione emotiva, il cui investimento non sempre è controllabile».

Parigi, centinaia di migliaia in piazza. «Nozze gay, non cederemo»


di Redazione

Centinaia di migliaia di persone hanno marciato ieri nel centro di Parigi, per dire no ai matrimoni gay. La folla - un milione e 400mila persone per gli organizzatori, qualche centinaia di migliaia secondo la polizia - ha tentato di raggiungere gli Champs Elysees ma è stata bloccata dalla polizia che ha usato i lacrimogeni e le cariche per disperdere i più esagitati.
La manifestazione era diretta contro il disegno di legge per legalizzare i matrimoni tra persone dello stesso sesso e la possibilità che le coppie gay adottino figli, già approvato dalla Camera bassa e che ad aprile approderà al Senato per il varo definitivo.

L'imponente corteo si è snodato lungo cinque chilometri, dal distretto finanziario della Defence fino all'Arc de Triomphe, all'inizio dei viali simbolo della capitale francese. La polizia ha confermato l'uso dei lacrimogeni “per disperdere 100-200 persone che cercavano di forzare i blocchi”.
I manifestanti hanno chiesto al governo di ritirare il provvedimento e di sottoporlo a referendum.
La Francia del «no», comunque, sembra più determinata che mai. I leader della Manif pour tous (Manifestazione per tutti) sono convinti che al Senato, dove la bozza sarà discussa a partire dal 4 aprile e dove la maggioranza di sinistra è minima, il “fattore coscienza” potrebbe davvero risultare decisivo.
All’Assemblée, c’erano già stati dei franchi tiratori e nelle ultime ore i segnali incoraggianti non mancano.

Sembrano intanto aprirsi nuove brecce nel bunker politico attorno alla contestatissima bozza.
La guardasigilli Christiane Taubira, l’ex attivista originaria della Guyana che ha coordinato la redazione della bozza, continua ad assicurare che il dossier «sarà chiuso entro l’estate». Ma sembra una previsione funzionale soprattutto a contrastare i dubbi profondi che già serpeggiano alla Camera alta, dove certi senatori parlano apertamente di «bozza raffazzonata» e dove soprattutto è circolata una nota giuridica confidenziale sul forte sospetto d’incostituzionalità del cosiddetto «matrimonio per tutti».
Ai senatori, in proposito, è appena giunta una vibrante lettera aperta di 170 fra i più noti docenti universitari di diritto pubblico, costituzionale, privato e di storia del diritto. L’invito a bocciare la bozza in toto non potrebbe essere espresso in modo più chiaro e acceso. I senatori devono assumere le loro responsabilità di fronte alla storia poiché occorre «proteggere le donne e i bambini contro un testo che, sotto l’apparenza di buone intenzioni, si rivela quello della schiavitù moderna delle donne e della nuova tratta dei bambini!», gridano alto e forte i 170 guardiani del diritto usciti allo scoperto.

Sono parole pesanti come macigni e che ricalcano in gran parte la stessa identica posizione difesa fin dalla scorsa estate dalla Chiesa cattolica, affiancata in seguito vieppiù anche dai rappresentanti di tutte le altre principali confessioni religiose. Intanto, nelle ultime ore, 4 vescovi – i monsignori Jean-Pierre Cattenoz (Avignone), Marc Aillet (Bayonne), Dominique Rey (Tolone) e Raymont Centène (Vannes) – hanno apertamente invitato i fedeli a recarsi a Parigi per protestare. Inoltre, sui senatori, scelti in modo indiretto da “grandi elettori” che sono in gran parte dei sindaci, pesa sempre più proprio la pressione degli amministratori locali.
Il “Collettivo dei sindaci per l’Infanzia”, frontalmente opposto alla bozza Taubira, continua a registrare nuove adesioni, giunte ormai a quota 20mila. E un fortissimo segnale è giunto a Parigi pure dai popolosi territori e dipartimenti dell’Oltremare, decisivi meno di un anno fa nell’affermazione presidenziale del socialista François Hollande.

Se in generale, secondo un sondaggio Ifop, solo il 39% dei francesi preferisce la bozza alle altre ipotesi (senza adozioni gay) discusse nel dibattito, nelle popolose Antille solo il 12% degli intervistati è favorevole (sondaggio Harris). La Taubira viene fra l’altro massicciamente bocciata dai suoi stessi elettori della Guyana, dove i favorevoli sono appena il 33%. Nonostante un residuo clima di silenzio assecondato da molti media fra i più influenti, tutti questi fattori peseranno di certo al Senato, accanto alla sempre più diffusa ondata di delusione verso l’esecutivo socialista, divenuto in pochi mesi il più impopolare della Quinta repubblica. «La maschera sta per cadere», sussurrano fiduciosi tanti militanti.

martedì 26 marzo 2013

Guida delle anime non psicanalisi


di Inos Biffi

Ai sette sacramenti istituiti da Cristo appartiene la riconciliazione del peccatore pentito che riceve il perdono divino mediante il ministero della Chiesa, che ha assunto diverse modalità nel variare dei tempi, la più evidente delle quali è stata il passaggio dalla forma pubblica della penitenza a quella privata. della penitenza a quella privata.
In realtà le componenti essenziali del sacramento non sono mutate: il pentimento per la colpa grave, il proposito di evitarla, l’impegno di ripararla, quindi l’assoluzione della Chiesa e la rinnovata e piena comunione ecclesiale. Ma se questi sono i termini del sacramento, il suo esercizio, specialmente con la penitenza privata, ha portato con il ministro del sacramento un tipo di rapporto non riducibile alla semplice assoluzione preceduta dalla confessione. Facilmente l’ambito della confessione segna il luogo e l’occasione tra penitente e confessore di un dialogo e di un confronto preziosi e insieme estremamente delicati, rientranti d’altra parte nel compito della «cura d’anime», per usare l’espressione della Regula pastoralis di Gregorio Magno, che definisce «la guida delle anime» «l’arte delle arti» (I, 1).
Senza dubbio, la riconciliazione sacramentale non va confusa con una seduta psicanalitica, così come va nettamente distinta la figura del confessore rispetto a quella dello psicologo. Il primo è chiamato a essere il ministro della grazia divina per il penitente; il secondo si propone di guarire lo spirito malato di un paziente. Com’è noto, la tradizione cristiana e non solo cristiana conosce la figura della guida spirituale. Una volta si parlava di “direttore ”spirituale; oggi sembra sia diventato affatto sconveniente parlare di direttore, perché equivarrebbe ad ammettere una specie di dominio che compromette dall’esterno la libertà all’anima.
È senza dubbio possibile un’ingerenza indebita e si può anche riconoscere che questo sia avvenuto; in ogni caso, il pensiero va non solo ai grandi direttori e maestri di spirito che hanno illustrato la storia della Chiesa, che furono guide sapienti di anime eccezionali, ma anche ai tanti illuminati confessori che hanno indirizzato e sostenuto il cammino interiore di numerosi fedeli. Anche al riguardo, vanno chiaramente distinti il ministero dell’assoluzione della colpa e il carisma della direzione spirituale. E, d’altra parte, lo stesso incontro sacramentale si accompagna normalmente nel confessore all’esercizio di alcune delle opere di misericordia spirituale, come il consiglio, l’insegnamento, l’ammonizione, il conforto, miranti a rinfrancare e a illuminare il penitente, e con cui, per usare ancora le parole di Gregorio Magno, si assolve l’impegno della «cura delle anime».
Ma a questo punto appare chiaro che, se per l’assoluzione basta che il confessore ne abbia la facoltà, per que-sta cura d’anime occorre che egli sia provveduto di un corredo di capacità e di doti che non s’improvvisano e che possiamo ravvisare nella maturità di giudizio, nella prudenza, nella preparazione dottrinale, nella discrezione, nell’affidabilità, nel senso di responsabilità, e anche nella pazienza, che sa attendere e che si guarda dal caricare il penitente di un peso che al momento non potrebbe portare. Ovviamente, senza cedere per ciò a nessuna forma di relativismo dottrinale. Il farlo sarebbe un inganno per la coscienza del penitente stesso. Vien da dire, allora, che non è sufficiente la santità personale. Secondo san Tommaso, quando si tratta di affidare la prelatura, non si deve considerare unicamente la santità: «È possibile, egli scrive, che a colui che è più perfetto riguardo alla carità, manchino diverse qualità che sono invece richieste perché si sia dei prelati idonei, e che si trovano invece in chi possiede minor carità, come la scienza, l’operosità, l’energia, e altre doti del genere» (Quaestiones quodlibetales, 4, c).
Analogamente si può dire di chi, nel ministero del perdono, si fa guida con l’esercizio delle opere di misericordia spirituale. Da qui la necessità di un’accurata e seria formazione, e forse selezione, della figura del confessore, perché sia in grado di edificare la comunità cristiana, certo fermo restante che l’insostituibile maestro interiore delle anime è pur sempre lo Spirito Santo.

La filosofia politica di Platone: un esempio per la nostra epoca


di Giulio Alfano

Introduzione

La lettera VII di Platone è oggi assolutamente interessante ad una lettura politica contemporanea. Non si intende certamente proporne una nuova interpretazione, ma più modestamente sollecitare alcuni motivi che invitano ad una nuova lettura del testo platonico e per questo vi sono ragioni non solo storiografiche filologiche, ma di adattamento del testo alla nostra situazione odierna.
Sia Whitehead, che Heidegger hanno convenuto quantunque in modo assai differenziati, che la tradizione filosofica europea consiste in una serie di note marginali all’opera di Platone (M. HEIDEGGER, La fine della filosofia, Quest. IV, Gallimard, Parigi, 1976, p. 130) e che per certi versi la stessa metafisica parla il linguaggio platonico ed anche il celebre filosofo politico Leo Strass o il fenomenologo Jan Patocka sottolineano che ricostruire il sistema platonico serve a chiarire quale (J.R. PIERPAULI, Leo Strass e la filosofia politica, Lancelot, Buenos Aires, 2007)  possa essere il pensiero di Platone sullo status stesso della filosofia, nella quale la filosofia politica ha un ruolo privilegiato,di fronte all’ampliamento della scienza sociale positivista che è non valorativa ed eticamente neutra, incapace di offrire indicazioni sull’ordine della politica, ma anche dell’Assiologia che è poi ciò che maggiormente interessa l’uomo ai fini del suo orientamento etico politico.
In Socrate ed in Platone sono rintracciabili i momenti fondanti della filosofia e della cultura europea, perché il loro messaggio relativo alla cura dell’anima costituisce l’eredità più significativa della nostra cultura e, nel contempo, il riferimento stesso della vocazione filosofica, anche di fronte alla crisi dell’Europa. La stessa scuola di Tubinga (H. KRAMER, Platone e i fondamenti della metafisica, Rizzoli, Milano, 1982) rivaluta il ruolo essenziale delle dottrine non scritte per interpretare il platonismo nella sua sobrietà di espressione perché Platone è stato, come pochi, l’assertore del binomio filosofia-silenzio e la Lettera VII ci spiega il senso dell’itinerario filosofico, perché è una riflessione di Platone sulla sua stessa situazione e perciò sulla condizione umana che,nella sua autenticità, è “filosofare”.
Il racconto di Platone sui suoi tentativi di dedicarsi alla politica vanno collegati con l’avanzare in lui della ricerca filosofica come capacità di orientamento dell’azione e ciò si può cogliere anche nel frammento sulla comunicazione dedicato al senso che egli attribuisce alla filosofia... Non è certo casuale la compresenza di tali argomenti in un solo scritto, elaborato peraltro in forma diretta, perché si tratta di un procedimento richiesto dalla complessità dell’argomento, con insegnamenti fondamentali in un epoca come quella che noi stiamo vivendo, nella quale la specializzazione è sovente conflittuale con la finalità dell’insieme dell’impegno culturale, apparendo difficile se non impossibile collegare teoria e prassi e considerare nel contempo la vocazione speculativa al servizio della situazione storica vigente.
E’ necessario perciò concentrarsi sulla Lettera VII come frammento autobiografico nel quale Platone racconta la propria formazione e anche del tipo di comunicazione che la filosofia deve instaurare. La filosofia allora apparirà come sforzo di comprensione che va continuamente rinnovato, senza allontanarla da un impegno pratico sobrio, perché è questo il centro del messaggio socratico platonico sulla cura dell’anima.

1. Il nucleo della politica e il ruolo della filosofia

La Lettera VII è un’apologia del maestro, Platone, e del discepolo, Dione, ma anche un’apologia di Atene sulla responsabilità della quale in un certo modo ricade la morte disgraziata di Dione, dal momento che furono gli ateniesi che come falsi amici ne furono gli effettivi assassini. Platone è preoccupato di legittimare la propria condotta ed il suo modo di agire riguardo la situazione siciliana e doveva, per l’onore della sua scuola e per la patria, giustificare la propria condotta.
Ciò ci induce a pensare che la Lettera non fosse rivolta solo agli intimi di Dione e certamente alcuni anni dopo la morte di Dione, Platone indirizza la Lettera VII ai parenti di Dione stesso, in risposta ad una richiesta di collaborazione ai loro progetti di restaurazione che questi gli avevano rivolto dall’esilio e Platone era certamente il più indicato per esporre i loro programmi e le posizioni di Dione dal momento che egli era stato il suo maestro e amico e fu l’occasione per Platone di rammentare la propria formazione politica. Da buon ateniese amava la sua città si sentiva fiero di esservi nato,quantunque durante l’adolescenza ne fosse stato testimone della decadenza e la gloria ateniese gli proveniva soltanto dal racconto dei suoi familiari.
Tuttavia la gioventù aveva portato con sé la forza e la speranza e Platone stesso scrive: “quando ero giovane ebbi un’esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica,non appena fossi divenuto padrone di me stesso”(324bc). Dopo la rivoluzione dei Trenta, infatti, gli si offrì la possibilità d’intervenire nella cosa pubblica e pensò che il governo potesse portare la città ad un migliore ordine, ma ben presto intervenne la delusione, perché si accorse che non era vero ciò che aveva supposto.
Alla caduta della tirannia e all’instaurazione del regime democratico tornò in lui forte il desiderio della politica, ma ancora gravi ingiustizie,tra cui non secondaria, la condanna di Scoratelo delusero e preferì restare in disparte, osservando gli uomini che si dedicavano alla politica, le leggi e i costumi e parendogli difficile partecipare all’amministrazione dello stato restando onesto e tramite l’osservazione e l’esperienza giunge ad una prima conclusione per cui è fortemente difficile governare con rettitudine, ma nella consapevolezza che non “era possibile fare nulla senza amici fidati” (325d).
Non era facile avere amici in una città ormai decadente, lontana vieppiù dalle proprie tradizioni e senza novità se non effimere e di amici non era facile trovarne perché i retti costumi erano scomparsi dalle abitudini della città e non si intravedevano dei nuovi modi di condurre la vita pubblica sulla retta via perché le leggi si corrompevano con grande facilità. La partecipazione alla vita politica quindi si smorza con rapidità di fronte all’ingiustizia e alla corruzione, passando dall’immediatezza dei sentimenti iniziali, alla meditazione sugli uomini e le leggi, giungendo ad un “noi” costruito sull’amicizia e riconoscendo nella compagnia e nella reciproca fiducia, la condizione di possibilità di ogni azione politica.
La testimonianza platonica ci comunica è che il rispetto di questa condizione incontra sempre difficoltà nuove e ciò lo conduce ad una diagnosi sui mali della città. Innanzitutto l’interruzione della tradizione, poi l’impossibilità di un reale rinnovamento ed, infine, una sorta di mania legiferatrice.
Platone sintetizza così il suo itinerario politico “io, che una volta desideravo moltissimo di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene”(325e); in realtà si era spostato dal desiderio dell’impulso, allo sguardo e da questo all’attesa, che neppure gli provoca in realtà un isolamento,ma lo fa persistere nel suo scopo “continuavo, sì, ad osservare se ci potesse essere un miglioramento, e, soprattutto, se potesse migliorare il governo dello stato, ma, per agire, aspettavo il momento opportuno” (325e).
Egli era partito dalla volontà dell’azione politica nella sua città e l’impulso era stato frenato dalle sventure che accadevano in essa; egli non parte da un modello universale che si vuole poi incarnare in una situazione concreta che occasionalmente era la sua. La meditazione che compie segue viceversa l’itinerario inverso: sorge e si appunta su una situazione concreta e quello che vuole non è già portare a termine un modello preventivamente pensato, ma guarire la sua città dai mali che l’affliggono. La cura, quindi, pur non essendo facile da realizzare, è assai concreta e consiste in un rinnovamento completo delle leggi e degli uomini resi capaci di portare a termine tale progetto (PLATONE Repubblica, 471 a)
Perciò non è possibile interpretare l’opera politica di Platone come l’intento fallito di realizzare un modello che non sarebbe altro che una chimera o un’utopia. Una lettura esaustiva della “Repubblica” lo smentisce, perché, dopo aver descritto nei primi libri la struttura di uno stato che possa definirsi giusto, Glaucone chiede a Socrate di spiegare perché tale progetto non sia una chimera e come possa realizzarsi (Ibid. 472 b) e la risposta di Socrate consiste nel proporre che uno stato possa essere governato come vicino ad un modello, in modo che non possa mai essere interpretato come chimera e Platone conclude,allora, che tutti gli stati sono mal governati e propone la vera filosofia come “scoperta” della giustizia: i filosofi saranno allora coloro che sapranno ciò che è giusto o, meno e quali siano le leggi migliori ed allora occorre che governino i filosofi oppure che i governanti diventino filosofi.
Le preoccupazioni, a questo punto, diventano di carattere speculativo, curando l’Accademia come luogo deputato alla formazione dottrinale,ma anche riponendo fiducia nei viaggi a Siracusa. La genesi della filosofia platonica sorge in una concreta situazione della sua città, in una determinata situazione e solo attraverso l’attenta osservazione nasce un programma possibile, perché il momento dello sguardo è il punto di partenza della speculazione filosofica, in cui la teoresi si interseca con l’urgenza della prassi e l’idea diventa realtà politica.

2. Gli uomini e le leggi secondo Platone

Durante il suo primo viaggio in Sicilia Platone constatò il lusso ed il disordine dominanti, che lo sollecitarono ad una nuova considerazione, che sarebbe stata poi uno dei punti centrali del suo pensiero politico: la riforma della città doveva necessariamente passare attraverso la riforma dei cittadini, perché: “non c’è città che possa vivere tranquilla, quali siano le sue leggi, quando i cittadini pensano di dover spendere sempre a profusione e di non dover far altro che banchettare ed affaticarsi nelle cure d’amore” (Ibid. 326 cd).
Per quanto si stabiliscano leggi buone e giuste,nessuna città cadrà bene se non si dà quella prima condizione: nessuna nazione o città, nessuna istituzione resterà sana e robusta senza la fermezza, lo sforzo e la moderazione dei suoi membri e in caso contrario i regimi politici non smetteranno di cambiare “i governanti neppure il nome vorranno sentire di una costituzione giusta e senza privilegi (Ivi).
Dione incontra Platone e diventa suo discepolo imparando e decidendo di seguire il modo di vita che discende dagli insegnamenti platonici: moderazione e virtù e dopo la partenza del maestro, Dione indirizza tutti gli sforzi per realizzare queste convinzioni. La morte di Dionisio il Vecchio e l’arrivo al potere di Dionisio il Giovane, fanno in modo che Dione ritenga possibile realizzare la riforma dello stato chiedendo aiuto a Platone per convertire Dionisio alla filosofia.
Lo stesso Platone racconta di essere partito per Siracusa non volendo tradire l’amicizia di Dione e la stessa causa della filosofia, anche se le condizioni sono affatto incoraggianti, perché Dionisio, seguendo le adulazioni dei suoi cortigiani, esilia Dione come cospiratore e imprigiona lo stesso Platone che, ottenuta la libertà, ritorna ad Atene. Ma vuole dare lo stesso consigli agli amici di Dione, perché ogni intento di rinnovamento politico deve prescindere dalla violenza e ci sia chiara la necessità di circondarsi di amici fedeli e fidati, perché l’azione politica va portata a termine nell’amicizia e la legislazione deve essere sempre il luogo supremo di governo di uno stato per cui occorre stabilire una legislazione giusta che annulli l’arbitrarietà della tirannia per una uguaglianza e comunità di diritti, attraverso, però, una riforma interiore dei cittadini, che è condizione indispensabile per ogni miglioramento sociale, attraverso il ristabilimento dei valori morali.
Le circostanze dei viaggi che condussero Platone a tentare di convincere di nuovo Dionisio alla filosofia sono legati anche all’indulgenza verso gli inviti fattigli dallo stesso Dionisio, ma soprattutto perché gli erano giunte voci circa un affetto straordinario di Dionisio verso la filosofia (Ibid 338 b). Platone ne dubitava ma la possibilità lo costringeva “moralmente” e quindi non bisognava tralasciare l’opportunità che uno stato fosse governato secondo la filosofia e, quindi, la giustizia; va ricordato che Platone si reca in Sicilia non per realizzare in partenza uno stato ideale, ma per educare un tiranno in modo che ciò che fallisce non è il modello ideale, ma l’intento pedagogico per l’inadeguato carattere del tiranno ad addentrarsi nel cammino filosofico.
Ne nasce una teoria sull’apprendimento e sulla possibilità della comunicazione filosofica, concludendo che Dionisio non è affatto un vero filosofo e Platone spiega, sempre nella Lettera VII, gli avvenimenti degli ultimi giorni di soggiorno in Sicilia, le diffidenze sempre maggiori del sovrano verso di lui e il comportamento di questo verso Dione e non è senza ostacoli anche la partenza di Platone che si ritrova con Dione nel Peloponneso, mentre prepara la guerra per la liberazione dalla Sicilia.
Platone si rifiuta di prendervi parte perché contrario alla violenza e durante gli ultimi anni Dione fu accusato di aspirare alla tirannia e comunque Platone finisce la Lettera smentendo questa opinione e difendendo le intenzioni di Dione, il quale non aspirava a regimi in cui i forti sottomettono i deboli, ma a dare allo stato la costituzione e le leggi più giuste e belle, senza uccisioni o stragi (Ibid 351 c)

3. La filosofia e la politica come impegno etico

Platone intraprende nuovamente il viaggio per la Sicilia cedendo alle insistenze di Dione e agli inviti del tiranno, che sembrava interessato alla filosofia ed occorreva subito accertarlo usando un procedimento che consiste nel “mostrare cosa sia davvero lo studio filosofico e quante difficoltà presenti e quale fatica comporti (Ibid 340 b c) ed è lo sforzo la parola ricorrente usata da Platone riguardo il lavoro del filosofo e la stessa comunicazione filosofica.
Quando si espone l’impegno filosofico, secondo Platone, ci possono essere due diverse reazioni da parte di quelli che si proclamano ostinatamente filosofi, una delle quali rivela chi lo è veramente: perché “se colui che ascolta è dotato di natura divina ed è veramente filosofo, congeniale a questo studio e degno di esso, giudica che quella che gli è indicata sia una via meravigliosa e che si deve fare ogni sforzo per seguirla e non si possa vivere altrimenti” (Ivi).
Platone quindi definisce il filosofo tramite due note:idoneità e dignità rispetto alla filosofia perché è un filosofo colui che di fronte alla vita teoretica non ha più alternativa,dato che non potrebbe fare altro perché la filosofia è una certa comprensione che comporta la ricerca di una comprensione più piena e il filosofo “unisce gli sforzi con quelli della guida e non desiste se prima non ha raggiunto completamente il fine o non ha acquistato tanta forza da poter progredire da solo senza l’aiuto del maestro” (Ivi).
Così in parallelo a quanto sostiene nel VII Libro della Repubblica,il lavoro del maestro non è di mostrare lo scopo della ricerca, ma di aiutare il discepolo a saper percorrere una strada nella quale lo stesso camminare offre già parte del senso ricercato.
La ricerca di una comprensione più piena non è qualcosa con la quale ha a che fare l’attività teorica,ma che comporta anche uno stretto legame con il modo di vivere. Il filosofo,non cessando di dedicarsi alle sue occupazioni, deve condurre un regime di vita che favorisca ottimamente la predisposizione all’apprendere, al ricordare, al ragionare e all’essere misurato (Ibid 340 d) e dovrà essere un determinato modo di vivere, regolare, moderato e sobrio, in una vita come sforzo, impegno, ascesi.
C’è una struttura dialogica che fa in modo che l’apprendimento non sia solo teorico ma anche e soprattutto “etico”: dall’esame che Platone farà dell’atteggiamento di Dionisio saranno evidenti due mancanze: di “eticità” e di “sforzo” per la comprensione, entrambe collegate fra loro. La seconda reazione, di coloro che non sono veri filosofie che quindi restano nell’”opinione”, consiste nel tirarsi indietro di fronte allo sforzo e alla moderazione necessari per il lavoro filosofico “vedendo quante cose devono imparare e fatiche sopportare, sono incapaci di esercitarsi e si convincono di conoscere sufficientemente tutto e non avere più bisogno di affaticarsi” (Ibid 341 a)
La finalità di Platone non è quella di verificare se Dionisio sia o meno preso dal sacro fuoco della filosofia, ma indurlo a riconosce sé stesso e a classificare il suo atteggiamento. Si arriverà così a concludere che Dionisio è tra quelli che di fronte all’impegno filosofico si tirano indietro e tra essi va collocato nel sottogruppo di coloro che credono di saperne a sufficienza.
Già dai primi giorni di soggiorno a Siracusa Platone capisce che Dionisio “presumeva di sapere e di possedere sufficientemente molte cognizioni e per quello che aveva udito dagli altri” (Ivi) e l’opposizione tra un vero filosofo e Dionisio, implicita nell’osservazione si stabilisce come antinomia tra la coscienza dell’ignoranza e il sapere già molte cose (doxosophia); tra la difficoltà di comprensione delle cose elevate e il possesso di esse; tra il continuo sforzo e l’essere già nel dominio; tra il sapere maturato in sé stesso e il sapere ricevuto dagli altri, che comporta la passività.
Secondo alcune voci Dionisio avrebbe più tardi scritto un libro su quelle Dottrine filosofiche fondamentali che Platone gli aveva comunicato. Comunque il tema non si riferisce tanto ad un’impossibilità grammaticale, quanto a difficoltà di carattere pedagogico relative alla comprensione e se il “leit motiv” è la determinazione dell’atteggiamento di Dionisio la tematica trattata è la comunicazione e l’apprendimento della filosofia.
Nella parte iniziale delle sue diagnosi Platone afferma che quelli che hanno scritto su ciò che per lui è il sommo degli sforzi speculativi, non l’hanno capito bene, perché la comunicazione deve avvenire nell’ambito dell’oralità e poi la riflessione filosofica non è un bene per la maggioranza degli uomini perché molti non essendone per natura capaci, non ne comprenderebbero il significato e perciò alcuni finirebbero per disprezzarla, altri presumerebbero di sapere grandi cose senza affatto averle capite e l’esposizione della conoscenza umana consiste in un lavoro di maturazione e discussione nell’ambito della comunicazione non scritta, per raggiungere l’intuizione e quindi la comprensione globale.
La comunicazione filosofica è quindi possibile solo attraverso un processo di formazione spirituale lungo e che si realizzi nell’ambito della dialettica esercitata oralmente, sotto la guida del maestro: questi sono gli scopi della via che il vero filosofo deve percorrere per raggiungere la comprensione di quelle ardue verità che sono i principi della realtà: esercizio intenso, sforzo, perché “le cose belle sono difficili!” (Ivi).
Si devono rintracciare i contrari,o teoria dei principi,e l’esercizio dialettico deve trovare in ogni problema l’aspetto vero e quello falso, con un lavoro di confronto tra nomi,definizioni e figure, attraverso la comparazione, perché la struttura della conoscenza umana è discorsiva ed essendo lenta la maturazione,solo l’esercizio orale può stimolare maggiormente l’attività del discepolo. Platone conclude circa le aspirazioni filosofiche di Dionisio, affermando che non è un vero filosofo, ma un uomo strano,sensibile più alle adulazioni dei retori e dei cortigiani che alle esigenze di tensione che la filosofia comporta.
La Lettera VII è il vero testamento di Platone che studiato nell’insieme offre una ricchezza maggiore che nelle sue parti; ci indica altresì il forte vincolo tra la filosofia e la politica e la riflessione sulla città giusta è un’offensiva contro la decadenza della polis e la retorica è il discorso che proviene dalla tirannia e dall’ingiustizia mentre la filosofia è la via della verità e della giustizia. (Platone, Fedone 75 b)
Rivolgere lo sguardo verso la realtà deve diventare l’autentica guida della vita umana tanto a livello pubblico come a livello privato e lo sforzo della filosofia è la tensione dal temporale verso la realtà vera che è l’eterno. La Lettera VII non espone una dottrina ma propone un atteggiamento e in ciò consiste il suo socratismo perché come il testamento socratico, anche quello platonico è la vocazione ad un’esistenza filosofica, comprendendo un senso che è parte della spiegazione sistematica dell’essere.

4. Attualità di Platone

Platone nella sua concezione filosofico politica ci ha dato un modello di “utopia” nel quale non c’è illusione che la sua repubblica ideale si trovasse dietro l’angolo o potesse essere conquistata senza uno sforzo continuo nel tempo di tutti i suoi membri, se si pensa che la sua critica alla tirannide, all’oligarchia, alla demagogia conserva ancora oggi una propria attualità:infatti liberarsi dalle suggestioni delle apparenze e dalle informazioni frammentarie richiede una fatica di tutti attraverso le vie laboriose della cultura, dell’arte, della matematica e della filosofia.
Platone avverte che se si vuole governare lo stato non ci si deve abbandonare a recriminazioni, ma fare in modo che chi lo governa e lo amministra conosca ciò che è bene e ciò che è male e lo dimostri attraverso un lungo curriculum di studi. L’idea che il filosofo debba essere il capo della città compare per la prima volta nella “Repubblica”, ma dalla morte di Socrate c’era in lui questo pensiero come ci dimostra anche nel “Menone”.
La filosofia di Platone costituisce il completamento di quella di Socrate in termini di metafisica e trova negli scritti giovanili la sua prima espressione e spiega anche il proseguire della polemica antisofistica,perché la conculcazione della filosofia delle opinioni sensoriali costituisce, per Platone, la preparazione in negativo del suo sistema.
Il problema dell’essere costituisce l’eredità lasciata da Socrate a Platone che conduce poi all’elaborazione della sua grande metafisica,che nasce dal dialogo interiore e che sale dalle apparenze sensibili alla conoscenza della verità e delle realtà in sé sussistenti. Come afferma nel “Convivio”, per Platone Amore e Filosofia si immedesimano vicendevolmente, perché amore è figlio di Penia e di Poros e non è affatto delicato e bello come si crede, ma duro e ispido, dimorando sempre con la povertà.
Se la veridicità non è propria del sentire ma del pensiero logico,concettuale e ideale, nell’uso adeguato dei concetti nei giudizi, essa in modo eminente appartiene alle conoscenze di valore non provvisorio ma universale e perciò la sensazione è conoscenza verace. Platone sviluppa l’innatezza delle idee universali propria della maieutica socratica,giudicando impossibile ricavare le conoscenze universali dai dati sensibili, perché imperfetti e particolari, mentre quelle sono universali e perfette; ma Socrate nulla aveva detto delle condizioni metafisiche della maieutica, eppure solo dalla giustificazione metafisica dell’innatismo, questo poteva universalmente essere garantito. Platone afferma che i concetti sono in noi perché li abbiamo appresi nel loro vero mondo; la presenza nella nostra mente di concetti perfetti e universali è possibile solo come reminiscenza di un’originaria intuizione delle idee, che è l’anima pura, ha avuto anteriormente alla nascita terrena, al suo imprigionamento nel corpo. La vera conoscenza in noi è latente, ma comunque anteriormente ad ogni sensazione; il mondo delle idee viene concepito da Platone come un mondo gerarchico di esseri perfetti, immateriali e realissimi, al cui vertice sta l’idea della bellezza-bontà, perché “Mi pare che nell’ordine intelligibile, l’idea di bene sia vista ultima e con grande difficoltà: ma una volta veduta se ne deve concludere che è l’idea del bene per tutti, causa di quanto è bene, di quanto è bello” (Platone, Repubblica VII, 514).

Soltanto lo stato di grazia che è il sublime delirio amoroso può condurre però a tale grado supremo e alla suprema bellezza si ascende per gradi di un’iniziazione che continuamente eleva dalle cose che “partecipano” la bellezza e quel principio che ne è l’immutabile fondamento. La perfezione non tende a nulla perché non manca di nulla e perciò Platone considera le idee come supreme realtà che non esistono in quanto pensate,ma sono pensate in quanto esistono per sé, indipendentemente dalle anime conoscenti: l’Iperuranio è l’Assoluto e lo stesso Demiurgo, di cui egli parla nel “Timeo”, lo presuppone.
Il Demiurgo è mediatore tra il mondo delle idee e quello corporeo, vive nella beata contemplazione del mondo delle idee, cui si contrappone il caos materiale. E il Demiurgo,consustanziato della perfezione iperuranica, non può volere che il bene; perciò plasma il caos ad immagine del mondo delle idee e così è nato il nostro mondo, tendente perché imperfetto sempre al suo modello, che è l’Idea, senza mai poterne raggiungere la perfezione con inquieta instabilità e per questo, per quanto la sua natura imperfetta lo permetteva, il mondo-copia è stato plasmato ad imitazione dell’Idea e perciò c’è un solo mondo-copia.
Il Demiurgo vi immette l’anima e l’opera viene ancora più perfezionata con la creazione mondana dell’instabile immagine dell’eternità: il tempo. La vita dell’anima umana nel corpo è, però, nella filosofia platonica, un’incarcerazione, per cui la vita assume il significato religioso di preparazione alla morte,attesa di liberazione dal corpo per raggiungere la purezza della visione beata. E la metafisica di Platone è profondamente legata allo studio dell’anima e alla sua immortalità, perché è già implicito che la nascita dell’uomo sia per l’anima solo l’inizio di una provvisoria abitazione corporea, come si afferma nella dottrina della reminiscenza, ma l’anima può dirsi veramente immortale solo se destinata a sopravvivere al corpo per l’eternità.
Nel problema dell’azione si ritrova in Platone la pienezza dell’insegnamento socratico: lo spirito dell’etica di Socrate rivive infatti felicemente nei dialoghi platonici, che in sede teorica ribadiscono i fondamenti socratici della critica all’eraclitismo scettico dei sofisti, e in quella morale la polemica di Socrate contro la morale del più forte contro l’elogio dell’intemperante, tiranno o retore, contro la riduzione del bene a piacere e l’abilità retorica dei sofisti è convincimento da ignoranti perché le conseguenze corruttrici di un insegnamento che nulla insegna sono palesi, perché “avviene che un oratore politico non conosca affatto il bene o il male e tratta il popolo con la stessa ignoranza facendolo persuaso non su questioni da nulla, ma sul bene e il male e siccome egli ha studiato le opinioni del suo popolo,può indurlo facilmente a commettere il male anziché il bene”(Platone, Fed. 260 c).
Di conseguenza la retorica non è un’arte ma un trucco per procacciare l’apparenza del bene; si afferma così l’accettazione dell’elogio della forza e, quindi, dell’ingiustizia e chi commette ingiustizia è l’uomo più misero ed infelice. La morale platonica rifiuta ogni edonismo e condanni il mondo della corporeità; tre sono per Platone le parti dell’anima che egli, con scetticismo ingenuo, immagina in tre diverse parti del corpo e ciascuna esprime una particolare capacità: c’è una potenza con cui l’uomo apprende; un’altra che presiede all’impeto volitivo e irascibile e una terza che ha innumerevoli aspetti e perciò non si può chiamare con un nome particolare, che si desume dall’aspetto suo più caratteristico e deciso ed è la facoltà concupiscente per la violenza con cui l’uomo concupisce il cibo, il bere, l’amore e altri simili appetiti.

Le tre virtù della sapienza,della fortezza e della temperanza, si arricchiscono di una quarta, la giustizia, che pur non avendo una sede particolare, ha, tuttavia, una funzione regolatrice e mediatrice delle altre,provvedendo affinché ciascuna operi nei suoi giusti confini (Platone, Repubblica VII, 580 d).
La politica è per lo stato ciò che la morale è per l’individuo; la Repubblica di Platone è la grande e vasta delineazione dello stato-tipo, dello stato modello, dello stato-idea e ciò congiunge assai profondamente la filosofia teoretica alla filosofia della pratica platonica: l’essenza dell’idealismo iperuranico è, infatti, tutta presente nella politica platonica e ne illumina i caratteri. Lo stato è un grande individuo che deve avere, per parlare figurato, il suo capo, il suo petto e i suoi visceri e le corrispondenti virtù, tra le quali la giustizia armonizzatrice al punto che Platone dichiara “una città ci parve giusta quando di tre ordini che vi sono, ciascuno compie intero il suo ufficio” (Ibid. IV, 435, b).
Tuttavia lo stato in cui vive Platone è quello che condanna legalmente Socrate e ciò avviene perché Socrate è un filosofo e perché nelle città come esse sono, di fatto non vi è posto per gli uomini che conoscono e praticano la giustizia. Dunque è necessario riformare la città in direzione dell’uomo, perché l’uomo giusto, Socrate, non sia considerato un pericoloso rivoluzionario di cui la comunità debba sbarazzarsi al più presto. La politica è la filosofia stessa di Platone, la sua risposta alla condanna e alla morte di Socrate ed è a partire da questa ancor oggi scandalosa verità, che si può comprendere l’essenza tragica del suo pensiero.
Lo stato moderno è quanto di più lontano si possa immaginare dalla polis antica, dove tutti si conoscevano e dove in una giornata si poteva fare a piedi il giro della città. Tuttavia quando leggiamo le severe parole di Platone sulla decadenza della democrazia ateniese verso l’abisso della dittatura e del dispotismo, attraverso l’anarchia e la demagogia, anche noi moderni non possiamo che ripetere l’antico motto “de nobis fabula narratur”, perché la natura umana è ben poco cambiata nel corso dei secoli e il fascino delle cose buone è sempre dominato dagli stessi interessi, “honoris divitiae voluptates” e i motivi che guidano l’uomo probo sono sempre gli stessi: onore, fedeltà, amore del vero e devozione al bene.
A Platone sta a cuore la formazione della classe dirigente, cui deve essere affidato il compito supremo di stabilire l’unità interiore dello stato mediante il dominio assoluto e impersonale della ragione, che con la sua universalità può stabilire una perfetta armonia, subordinando gli interessi particolari a quelli generali della comunità,perché la ragione è conoscenza dell’eterno, del divino, è scienza di ciò che è bene in sé, di quell’esemplare perfetto di giustizia, di bellezza, di bontà, sul quale la vita umana, individuale e sociale deve essere modellata, per improntare del mondo eterno, l’ordinamento e le istituzioni della società, tenendo lo sguardo anche alla natura propria dell’uomo.

Washington: Marcia in favore del Matrimonio


di Donata Fontana

A poche ore da quella tenutasi a Parigi, ieri a Washington si è svolta la “Marcia in difesa del matrimonio”, sull’esempio della fortunatissima “March for Life” che ogni anno si snoda – sempre più partecipata – per le strade della capitale USA a sostegno dei valori della vita, del matrimonio e della famiglia. L’iniziativa, benedetta e supportata dalla Conferenza Episcopale del Nord America – che ha indetto per tutto il 2013 uno speciale tempo di preghiera proprio dedicato al matrimonio –, è stata promossa dall’”Organizzazione Nazionale per il Matrimonio” e ha goduto, nei giorni scorsi, dell’approvazione di politici, membri del Congresso e intellettuali, americani e non solo.
La scelta della data non poteva certo essere casuale: proprio oggi cominciano i lavori della Corte Suprema – consesso di giudici nominati a vita quali garanti della Costituzione – sul ricorso presentato contro la Proposition n. 8 della California. Risultato di un referendum abrogativo del 20087, la Proposition vieta nello Stato il matrimonio tra persone dello stesso sesso, in pieno contrasto, quindi, con una antecedente sentenza della Corte Suprema. Proprio per questa supposta incostituzionalità, la Proposition è stata più volte impugnata e dichiarata illegittima dal Tribunale statale della California e, ora, è al vaglio finale ed inappellabile della Corte Suprema stessa.
Oltre alle esplicite politiche dell’attuale Amministrazione – che intende seguire alla lettera l’agenda per i diritti degli omosessuali sponsorizzata con tenacia dall’ex segretario di Stato Hillary Clinton – ora anche il mondo accademico-scientifico americano si schiera dalla parte della parificazione tra matrimoni eterosessuali e non.
La settimana scorsa, infatti, l’Accademia americana di Pediatria (AAP) ha pubblicato un documento in cui vengono approvate le unioni tra omosessuali e incoraggiata l’adozione di bambini da parte di coppie gay o lesbiche; il tutto, si legge nel comunicato, per favorire stabile sviluppo e crescita serena del bambino. «I bambini prosperano in famiglie che sono stabili e che forniscono sicurezza permanente, e il modo in cui farlo è attraverso il matrimonio», sostiene il dott. Benjamin Siegel, Presidente della commissione AAP sugli aspetti psicosociali del bambino – nonché uno degli autore del documento –, argomentando che il matrimonio sia «indipendentemente dall'orientamento sessuale dei genitori, il modo migliore per garantire sicurezza per i figli».
Mentre non si può fare a meno di notare la confusione terminologica in cui la stessa AAP incappa – inventando la fantasiosa nozione di “co-genitore”, qualifica presumibilmente da riconoscersi al partner di una coppia omosessuale che non è uno dei due genitori biologici del figlio adottato – balza agli occhi anche la pretestuosità dell’intero documento. Innanzitutto mancano, nel documento, basi scientifiche o riferimenti a studi, ricerche o principi assodati della psicologia - secondo i quali tali affermazioni debbano essere accolte con l’autorevolezza che un pronunciamento di un’Accademia medica meriterebbe – e vengono ignorate molte evidenze che, nella letteratura medica mondiale, fanno esplicito riferimento a una grave incidenza sullo sviluppo del bambino dell'orientamento sessuale di chi lo circonda.
Risulta palese, inoltre, la componente ideologica nell’intera dichiarazione: pubblicato come anticipazione di un focus dell’Accademia tutto dedicato alla psicologia infantile in relazione al matrimonio dei genitori, il documento stupisce per la sua attualità politica, capitando un po' troppo a fagiolo. Il testo è stato, di fatti, diffuso sul sito dell’AAP proprio una manciata di giorni prima l’inizio dei lavori della Corte Suprema sulla Proposition n. 8, e il direttivo dell’”Organizzazione nazionale per il Matrimonio” mette in guardia sull’influenza che i pediatri avranno sicuramente sulla decisione dei Giudici Supremi. La posizione dell’APP mostra una chiara scelta politico-ideologica di fondo, volendo fornire un partigiano supporto accademico alle politiche sociali e legislative di parificazione tra matrimonio eterosessuale e non in tutti gli Stati federali.

lunedì 25 marzo 2013

La mistica che servì e venerò Dio studiando i misteri del cosmo


di Silvio Brachetta

Se proprio dovesse servire un esempio - e oggi pare proprio che serva - di cosa sia un’autentica riforma della Chiesa, potrebbe essere opportuno guardare a quel che successe in Europa tra i secoli XI e XII, dopo il primo millennio dell’era cristiana. Come rispose la Chiesa di quel tempo al secolarismo che la stava strangolando, alla crisi del celibato ecclesiastico o alla vendita simoniaca dei sacri ministeri ai prelati più danarosi? In due modi: illecito e grossolano il primo, adeguato il secondo. Ce ne parla Cristina Siccardi nel suo libro dedicato a santa Ildegarda di Bingen (1098-1179) e, non a caso, sottotitolato “Mistica e scienziata”. Da una parte, molti cristiani reagirono in modo incongruo, con proteste, scismi e ribellioni. È questa la via dell’errore, eretica e foriera di aridità spirituale e fondamentalismo. Ildegarda contestò con energia questo genere di riforma che avviene sempre per un «cambiamento delle strutture», da parte di una volontà presuntuosa e disobbediente.
Assieme a Ildegarda, invece, molti seguirono la modalità della conversione, nell’umiltà e nella penitenza. Da questa prassi nacque l’epoca più luminosa del Medioevo: s’innescò una competizione tra gli aristocratici per la costruzione di un gran numero di cattedrali, tra i monaci per il recupero spirituale della cristianità e tra i pontefici stessi, resi forti dalla robusta formazione monastica alle spalle, per una difesa più incisiva dell’ambito religioso. Per comprendere la portata di tali iniziative, è sufficiente accennare al grandioso movimento scaturito nel comprensorio monastico di Cluny (Francia) e irradiatosi per centinaia di monasteri in tutto l’Occidente. Dalla realtà cluniacense si sviluppò un rinnovato esercizio della preghiera, della laboriosità e della “sequela Christi”. Il pontefice Gregorio VII avviò inoltre un’imponente riforma generale della Chiesa - detta appunto “gregoriana” - che, dinnanzi al potere temporale dei principi, impose l’autorità pontificia sulla questione delle investiture episcopali e, quanto ai chierici, ne osteggiò la simonia e il concubinaggio.
La riforma fu assai poco attenta al laicato, poiché il popolo di Dio aderiva già spontaneamente alla prassi devozionale e le occupazioni quotidiane nelle famiglie erano, in genere, costantemente scandite dalle pratiche religiose e riferite al Cielo. Così la famiglia di Ildegarda fu una di quelle che non opposero ostacoli alla vocazione della giovinetta, ma anzi la consacrarono a Dio all’età di tre anni. Vocazione, però, non del tutto ordinaria: fin da bambina, la futura santa aveva il dono di una doppia capacità percettiva, ossia poteva vedere per mezzo dei sensi fisici e di quelli spirituali. Due mondi le erano accessibili: il mondo fisico, temporale e il mondo arcano degli spiriti, atemporale, eterno. Per mezzo di visioni, Dio le svelava i suoi misteri e la legge recondita delle creature. Ma, allo stesso tempo, la prostrava con malattie e sofferenze varie «perché non si gonfiasse di superbia», come le fu comunicato in una delle visioni.
La santità d’Ildegarda, quindi, non va ricercata nelle visioni, che sono gloria di Dio, ma nell’obbedienza costante e nella sottomissione alla volontà divina. Per obbedire a Dio, a soli otto anni Ildegarda entrò, come reclusa, tra le monache benedettine dell’eremo di san Disibodo (Disibodenberg). Per obbedienza e controvoglia, solo dopo i quarant’anni cominciò a mettere per iscritto le visioni, con la redazione dello “Scivias” (“Conosci le vie”) e di altre opere. La Sibilla del Reno - così fu soprannominata - scrisse ampliamente sulle discipline più disparate: teologia, filosofia, medicina, cosmologia, musica, poesia. Ma, in modo particolare, la santa va ricordata (e imitata) per alcune questioni importanti. A parte la mistica, Ildegarda aveva il carisma di un carattere risoluto. Rimproverò e ammonì apertamente, ad esempio, i costumi secolarizzati del clero e difese la Chiesa, contrastando le false dottrine anche per mezzo delle sue stesse opere letterarie, a volte con toni decisamente apologetici. Cristina Siccardi ci presenta pure l’Ildegarda scienziata, per la quale l’uomo di fede «deve compiere la sua opera nel mondo sciendo, cogitando e operando», senza alcuna opposizione alla fede. Ed è proprio la fede che riconosce nel cosmo un’intelligenza e una volontà divine, escludendo per esso ogni tipo di evoluzionismo o freddo meccanicismo. Per tutto questo Benedetto XVI ha recentemente (7 ottobre) proclamato santa Ildegarda Dottore della Chiesa.

Cristina Siccardi, Ildegarda di Bingen. Mistica e scienziata, Edizioni Paoline, 2012, pp. 232, euro 16,00

venerdì 22 marzo 2013

Dodici anni di episcopato dell’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi


L'Arcivescovo ha celebrato il dodicesimo anniversario della propria ordinazione episcopale il 19 marzo scorso, festa di San Giuseppe, nel Santuario di San Giuseppe della Chiusa-Ricmaje.

di Alessandro Perich

«Una felicissima coincidenza» ha definito l’Arcivescovo Mons. Crepaldi la celebrazione eucaristica di ringraziamento per il suo dodicesimo anniversario di ordinazione episcopale tenutasi martedì 19 marzo, solennità di san Giuseppe nel Santuario di San Giuseppe della Chiusa-Ricmaje contemporaneamente alla santa Messa dell’inizio del pontificato di Papa Francesco.
Il Vicario generale, Mons. Salvadè, ha rivolto l’indirizzo di saluto e ringraziamento, seguito da quello del Vicario dei fedeli di lingua slovena don Anton Bedenčič. Alle celebrazione, in lingua slovena e italiana, erano presenti, oltre a fedeli e sacerdoti, diversi collaboratori di Curia e il Seminario Redemptoris Mater al completo.
Nell’omelia, l’Arcivescovo, grato per l’ordinazione episcopale ricevuta a san Pietro per imposizione delle mani del Beato Giovanni Paolo II, ha ricordato come, in quella circostanza, abbia chiesto al Signore, alla Madonna e a San Giuseppe di custodire il suo ministero e la sua persona affinché fosse uno strumento nelle mani di Dio.
«Il Signore - ha detto - per il mistero santo della sua Incarnazione arriva a noi nella concretezza delle coordinate dello spazio e del tempo. E’ qui, nella concreta Chiesa di Trieste, che Lo incontriamo, beneficiamo della sua grazia attraverso il mistero sacramentale, facciamo tesoro dell’amicizia cristiana partecipando della stessa fede, della stessa speranza e della stessa carità. Esercitiamo il ministero di portare la croce, nel sopportarci e perdonarci reciprocamente, ministero che Papa Francesco ha con spontaneità e immediatezza presentato nel suo primo Angelus parlando della misericordia: “La misericordia cambia il mondo”».
Ha proseguito parlando dei Papi della sua vita, a partire da Pio XII fino a Papa Francesco, di cui ha avuto la possibilità di ascoltare l’omelia per l’inizio del ministero petrino, pochi minuti prima della celebrazione.