martedì 26 marzo 2013

La filosofia politica di Platone: un esempio per la nostra epoca


di Giulio Alfano

Introduzione

La lettera VII di Platone è oggi assolutamente interessante ad una lettura politica contemporanea. Non si intende certamente proporne una nuova interpretazione, ma più modestamente sollecitare alcuni motivi che invitano ad una nuova lettura del testo platonico e per questo vi sono ragioni non solo storiografiche filologiche, ma di adattamento del testo alla nostra situazione odierna.
Sia Whitehead, che Heidegger hanno convenuto quantunque in modo assai differenziati, che la tradizione filosofica europea consiste in una serie di note marginali all’opera di Platone (M. HEIDEGGER, La fine della filosofia, Quest. IV, Gallimard, Parigi, 1976, p. 130) e che per certi versi la stessa metafisica parla il linguaggio platonico ed anche il celebre filosofo politico Leo Strass o il fenomenologo Jan Patocka sottolineano che ricostruire il sistema platonico serve a chiarire quale (J.R. PIERPAULI, Leo Strass e la filosofia politica, Lancelot, Buenos Aires, 2007)  possa essere il pensiero di Platone sullo status stesso della filosofia, nella quale la filosofia politica ha un ruolo privilegiato,di fronte all’ampliamento della scienza sociale positivista che è non valorativa ed eticamente neutra, incapace di offrire indicazioni sull’ordine della politica, ma anche dell’Assiologia che è poi ciò che maggiormente interessa l’uomo ai fini del suo orientamento etico politico.
In Socrate ed in Platone sono rintracciabili i momenti fondanti della filosofia e della cultura europea, perché il loro messaggio relativo alla cura dell’anima costituisce l’eredità più significativa della nostra cultura e, nel contempo, il riferimento stesso della vocazione filosofica, anche di fronte alla crisi dell’Europa. La stessa scuola di Tubinga (H. KRAMER, Platone e i fondamenti della metafisica, Rizzoli, Milano, 1982) rivaluta il ruolo essenziale delle dottrine non scritte per interpretare il platonismo nella sua sobrietà di espressione perché Platone è stato, come pochi, l’assertore del binomio filosofia-silenzio e la Lettera VII ci spiega il senso dell’itinerario filosofico, perché è una riflessione di Platone sulla sua stessa situazione e perciò sulla condizione umana che,nella sua autenticità, è “filosofare”.
Il racconto di Platone sui suoi tentativi di dedicarsi alla politica vanno collegati con l’avanzare in lui della ricerca filosofica come capacità di orientamento dell’azione e ciò si può cogliere anche nel frammento sulla comunicazione dedicato al senso che egli attribuisce alla filosofia... Non è certo casuale la compresenza di tali argomenti in un solo scritto, elaborato peraltro in forma diretta, perché si tratta di un procedimento richiesto dalla complessità dell’argomento, con insegnamenti fondamentali in un epoca come quella che noi stiamo vivendo, nella quale la specializzazione è sovente conflittuale con la finalità dell’insieme dell’impegno culturale, apparendo difficile se non impossibile collegare teoria e prassi e considerare nel contempo la vocazione speculativa al servizio della situazione storica vigente.
E’ necessario perciò concentrarsi sulla Lettera VII come frammento autobiografico nel quale Platone racconta la propria formazione e anche del tipo di comunicazione che la filosofia deve instaurare. La filosofia allora apparirà come sforzo di comprensione che va continuamente rinnovato, senza allontanarla da un impegno pratico sobrio, perché è questo il centro del messaggio socratico platonico sulla cura dell’anima.

1. Il nucleo della politica e il ruolo della filosofia

La Lettera VII è un’apologia del maestro, Platone, e del discepolo, Dione, ma anche un’apologia di Atene sulla responsabilità della quale in un certo modo ricade la morte disgraziata di Dione, dal momento che furono gli ateniesi che come falsi amici ne furono gli effettivi assassini. Platone è preoccupato di legittimare la propria condotta ed il suo modo di agire riguardo la situazione siciliana e doveva, per l’onore della sua scuola e per la patria, giustificare la propria condotta.
Ciò ci induce a pensare che la Lettera non fosse rivolta solo agli intimi di Dione e certamente alcuni anni dopo la morte di Dione, Platone indirizza la Lettera VII ai parenti di Dione stesso, in risposta ad una richiesta di collaborazione ai loro progetti di restaurazione che questi gli avevano rivolto dall’esilio e Platone era certamente il più indicato per esporre i loro programmi e le posizioni di Dione dal momento che egli era stato il suo maestro e amico e fu l’occasione per Platone di rammentare la propria formazione politica. Da buon ateniese amava la sua città si sentiva fiero di esservi nato,quantunque durante l’adolescenza ne fosse stato testimone della decadenza e la gloria ateniese gli proveniva soltanto dal racconto dei suoi familiari.
Tuttavia la gioventù aveva portato con sé la forza e la speranza e Platone stesso scrive: “quando ero giovane ebbi un’esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica,non appena fossi divenuto padrone di me stesso”(324bc). Dopo la rivoluzione dei Trenta, infatti, gli si offrì la possibilità d’intervenire nella cosa pubblica e pensò che il governo potesse portare la città ad un migliore ordine, ma ben presto intervenne la delusione, perché si accorse che non era vero ciò che aveva supposto.
Alla caduta della tirannia e all’instaurazione del regime democratico tornò in lui forte il desiderio della politica, ma ancora gravi ingiustizie,tra cui non secondaria, la condanna di Scoratelo delusero e preferì restare in disparte, osservando gli uomini che si dedicavano alla politica, le leggi e i costumi e parendogli difficile partecipare all’amministrazione dello stato restando onesto e tramite l’osservazione e l’esperienza giunge ad una prima conclusione per cui è fortemente difficile governare con rettitudine, ma nella consapevolezza che non “era possibile fare nulla senza amici fidati” (325d).
Non era facile avere amici in una città ormai decadente, lontana vieppiù dalle proprie tradizioni e senza novità se non effimere e di amici non era facile trovarne perché i retti costumi erano scomparsi dalle abitudini della città e non si intravedevano dei nuovi modi di condurre la vita pubblica sulla retta via perché le leggi si corrompevano con grande facilità. La partecipazione alla vita politica quindi si smorza con rapidità di fronte all’ingiustizia e alla corruzione, passando dall’immediatezza dei sentimenti iniziali, alla meditazione sugli uomini e le leggi, giungendo ad un “noi” costruito sull’amicizia e riconoscendo nella compagnia e nella reciproca fiducia, la condizione di possibilità di ogni azione politica.
La testimonianza platonica ci comunica è che il rispetto di questa condizione incontra sempre difficoltà nuove e ciò lo conduce ad una diagnosi sui mali della città. Innanzitutto l’interruzione della tradizione, poi l’impossibilità di un reale rinnovamento ed, infine, una sorta di mania legiferatrice.
Platone sintetizza così il suo itinerario politico “io, che una volta desideravo moltissimo di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene”(325e); in realtà si era spostato dal desiderio dell’impulso, allo sguardo e da questo all’attesa, che neppure gli provoca in realtà un isolamento,ma lo fa persistere nel suo scopo “continuavo, sì, ad osservare se ci potesse essere un miglioramento, e, soprattutto, se potesse migliorare il governo dello stato, ma, per agire, aspettavo il momento opportuno” (325e).
Egli era partito dalla volontà dell’azione politica nella sua città e l’impulso era stato frenato dalle sventure che accadevano in essa; egli non parte da un modello universale che si vuole poi incarnare in una situazione concreta che occasionalmente era la sua. La meditazione che compie segue viceversa l’itinerario inverso: sorge e si appunta su una situazione concreta e quello che vuole non è già portare a termine un modello preventivamente pensato, ma guarire la sua città dai mali che l’affliggono. La cura, quindi, pur non essendo facile da realizzare, è assai concreta e consiste in un rinnovamento completo delle leggi e degli uomini resi capaci di portare a termine tale progetto (PLATONE Repubblica, 471 a)
Perciò non è possibile interpretare l’opera politica di Platone come l’intento fallito di realizzare un modello che non sarebbe altro che una chimera o un’utopia. Una lettura esaustiva della “Repubblica” lo smentisce, perché, dopo aver descritto nei primi libri la struttura di uno stato che possa definirsi giusto, Glaucone chiede a Socrate di spiegare perché tale progetto non sia una chimera e come possa realizzarsi (Ibid. 472 b) e la risposta di Socrate consiste nel proporre che uno stato possa essere governato come vicino ad un modello, in modo che non possa mai essere interpretato come chimera e Platone conclude,allora, che tutti gli stati sono mal governati e propone la vera filosofia come “scoperta” della giustizia: i filosofi saranno allora coloro che sapranno ciò che è giusto o, meno e quali siano le leggi migliori ed allora occorre che governino i filosofi oppure che i governanti diventino filosofi.
Le preoccupazioni, a questo punto, diventano di carattere speculativo, curando l’Accademia come luogo deputato alla formazione dottrinale,ma anche riponendo fiducia nei viaggi a Siracusa. La genesi della filosofia platonica sorge in una concreta situazione della sua città, in una determinata situazione e solo attraverso l’attenta osservazione nasce un programma possibile, perché il momento dello sguardo è il punto di partenza della speculazione filosofica, in cui la teoresi si interseca con l’urgenza della prassi e l’idea diventa realtà politica.

2. Gli uomini e le leggi secondo Platone

Durante il suo primo viaggio in Sicilia Platone constatò il lusso ed il disordine dominanti, che lo sollecitarono ad una nuova considerazione, che sarebbe stata poi uno dei punti centrali del suo pensiero politico: la riforma della città doveva necessariamente passare attraverso la riforma dei cittadini, perché: “non c’è città che possa vivere tranquilla, quali siano le sue leggi, quando i cittadini pensano di dover spendere sempre a profusione e di non dover far altro che banchettare ed affaticarsi nelle cure d’amore” (Ibid. 326 cd).
Per quanto si stabiliscano leggi buone e giuste,nessuna città cadrà bene se non si dà quella prima condizione: nessuna nazione o città, nessuna istituzione resterà sana e robusta senza la fermezza, lo sforzo e la moderazione dei suoi membri e in caso contrario i regimi politici non smetteranno di cambiare “i governanti neppure il nome vorranno sentire di una costituzione giusta e senza privilegi (Ivi).
Dione incontra Platone e diventa suo discepolo imparando e decidendo di seguire il modo di vita che discende dagli insegnamenti platonici: moderazione e virtù e dopo la partenza del maestro, Dione indirizza tutti gli sforzi per realizzare queste convinzioni. La morte di Dionisio il Vecchio e l’arrivo al potere di Dionisio il Giovane, fanno in modo che Dione ritenga possibile realizzare la riforma dello stato chiedendo aiuto a Platone per convertire Dionisio alla filosofia.
Lo stesso Platone racconta di essere partito per Siracusa non volendo tradire l’amicizia di Dione e la stessa causa della filosofia, anche se le condizioni sono affatto incoraggianti, perché Dionisio, seguendo le adulazioni dei suoi cortigiani, esilia Dione come cospiratore e imprigiona lo stesso Platone che, ottenuta la libertà, ritorna ad Atene. Ma vuole dare lo stesso consigli agli amici di Dione, perché ogni intento di rinnovamento politico deve prescindere dalla violenza e ci sia chiara la necessità di circondarsi di amici fedeli e fidati, perché l’azione politica va portata a termine nell’amicizia e la legislazione deve essere sempre il luogo supremo di governo di uno stato per cui occorre stabilire una legislazione giusta che annulli l’arbitrarietà della tirannia per una uguaglianza e comunità di diritti, attraverso, però, una riforma interiore dei cittadini, che è condizione indispensabile per ogni miglioramento sociale, attraverso il ristabilimento dei valori morali.
Le circostanze dei viaggi che condussero Platone a tentare di convincere di nuovo Dionisio alla filosofia sono legati anche all’indulgenza verso gli inviti fattigli dallo stesso Dionisio, ma soprattutto perché gli erano giunte voci circa un affetto straordinario di Dionisio verso la filosofia (Ibid 338 b). Platone ne dubitava ma la possibilità lo costringeva “moralmente” e quindi non bisognava tralasciare l’opportunità che uno stato fosse governato secondo la filosofia e, quindi, la giustizia; va ricordato che Platone si reca in Sicilia non per realizzare in partenza uno stato ideale, ma per educare un tiranno in modo che ciò che fallisce non è il modello ideale, ma l’intento pedagogico per l’inadeguato carattere del tiranno ad addentrarsi nel cammino filosofico.
Ne nasce una teoria sull’apprendimento e sulla possibilità della comunicazione filosofica, concludendo che Dionisio non è affatto un vero filosofo e Platone spiega, sempre nella Lettera VII, gli avvenimenti degli ultimi giorni di soggiorno in Sicilia, le diffidenze sempre maggiori del sovrano verso di lui e il comportamento di questo verso Dione e non è senza ostacoli anche la partenza di Platone che si ritrova con Dione nel Peloponneso, mentre prepara la guerra per la liberazione dalla Sicilia.
Platone si rifiuta di prendervi parte perché contrario alla violenza e durante gli ultimi anni Dione fu accusato di aspirare alla tirannia e comunque Platone finisce la Lettera smentendo questa opinione e difendendo le intenzioni di Dione, il quale non aspirava a regimi in cui i forti sottomettono i deboli, ma a dare allo stato la costituzione e le leggi più giuste e belle, senza uccisioni o stragi (Ibid 351 c)

3. La filosofia e la politica come impegno etico

Platone intraprende nuovamente il viaggio per la Sicilia cedendo alle insistenze di Dione e agli inviti del tiranno, che sembrava interessato alla filosofia ed occorreva subito accertarlo usando un procedimento che consiste nel “mostrare cosa sia davvero lo studio filosofico e quante difficoltà presenti e quale fatica comporti (Ibid 340 b c) ed è lo sforzo la parola ricorrente usata da Platone riguardo il lavoro del filosofo e la stessa comunicazione filosofica.
Quando si espone l’impegno filosofico, secondo Platone, ci possono essere due diverse reazioni da parte di quelli che si proclamano ostinatamente filosofi, una delle quali rivela chi lo è veramente: perché “se colui che ascolta è dotato di natura divina ed è veramente filosofo, congeniale a questo studio e degno di esso, giudica che quella che gli è indicata sia una via meravigliosa e che si deve fare ogni sforzo per seguirla e non si possa vivere altrimenti” (Ivi).
Platone quindi definisce il filosofo tramite due note:idoneità e dignità rispetto alla filosofia perché è un filosofo colui che di fronte alla vita teoretica non ha più alternativa,dato che non potrebbe fare altro perché la filosofia è una certa comprensione che comporta la ricerca di una comprensione più piena e il filosofo “unisce gli sforzi con quelli della guida e non desiste se prima non ha raggiunto completamente il fine o non ha acquistato tanta forza da poter progredire da solo senza l’aiuto del maestro” (Ivi).
Così in parallelo a quanto sostiene nel VII Libro della Repubblica,il lavoro del maestro non è di mostrare lo scopo della ricerca, ma di aiutare il discepolo a saper percorrere una strada nella quale lo stesso camminare offre già parte del senso ricercato.
La ricerca di una comprensione più piena non è qualcosa con la quale ha a che fare l’attività teorica,ma che comporta anche uno stretto legame con il modo di vivere. Il filosofo,non cessando di dedicarsi alle sue occupazioni, deve condurre un regime di vita che favorisca ottimamente la predisposizione all’apprendere, al ricordare, al ragionare e all’essere misurato (Ibid 340 d) e dovrà essere un determinato modo di vivere, regolare, moderato e sobrio, in una vita come sforzo, impegno, ascesi.
C’è una struttura dialogica che fa in modo che l’apprendimento non sia solo teorico ma anche e soprattutto “etico”: dall’esame che Platone farà dell’atteggiamento di Dionisio saranno evidenti due mancanze: di “eticità” e di “sforzo” per la comprensione, entrambe collegate fra loro. La seconda reazione, di coloro che non sono veri filosofie che quindi restano nell’”opinione”, consiste nel tirarsi indietro di fronte allo sforzo e alla moderazione necessari per il lavoro filosofico “vedendo quante cose devono imparare e fatiche sopportare, sono incapaci di esercitarsi e si convincono di conoscere sufficientemente tutto e non avere più bisogno di affaticarsi” (Ibid 341 a)
La finalità di Platone non è quella di verificare se Dionisio sia o meno preso dal sacro fuoco della filosofia, ma indurlo a riconosce sé stesso e a classificare il suo atteggiamento. Si arriverà così a concludere che Dionisio è tra quelli che di fronte all’impegno filosofico si tirano indietro e tra essi va collocato nel sottogruppo di coloro che credono di saperne a sufficienza.
Già dai primi giorni di soggiorno a Siracusa Platone capisce che Dionisio “presumeva di sapere e di possedere sufficientemente molte cognizioni e per quello che aveva udito dagli altri” (Ivi) e l’opposizione tra un vero filosofo e Dionisio, implicita nell’osservazione si stabilisce come antinomia tra la coscienza dell’ignoranza e il sapere già molte cose (doxosophia); tra la difficoltà di comprensione delle cose elevate e il possesso di esse; tra il continuo sforzo e l’essere già nel dominio; tra il sapere maturato in sé stesso e il sapere ricevuto dagli altri, che comporta la passività.
Secondo alcune voci Dionisio avrebbe più tardi scritto un libro su quelle Dottrine filosofiche fondamentali che Platone gli aveva comunicato. Comunque il tema non si riferisce tanto ad un’impossibilità grammaticale, quanto a difficoltà di carattere pedagogico relative alla comprensione e se il “leit motiv” è la determinazione dell’atteggiamento di Dionisio la tematica trattata è la comunicazione e l’apprendimento della filosofia.
Nella parte iniziale delle sue diagnosi Platone afferma che quelli che hanno scritto su ciò che per lui è il sommo degli sforzi speculativi, non l’hanno capito bene, perché la comunicazione deve avvenire nell’ambito dell’oralità e poi la riflessione filosofica non è un bene per la maggioranza degli uomini perché molti non essendone per natura capaci, non ne comprenderebbero il significato e perciò alcuni finirebbero per disprezzarla, altri presumerebbero di sapere grandi cose senza affatto averle capite e l’esposizione della conoscenza umana consiste in un lavoro di maturazione e discussione nell’ambito della comunicazione non scritta, per raggiungere l’intuizione e quindi la comprensione globale.
La comunicazione filosofica è quindi possibile solo attraverso un processo di formazione spirituale lungo e che si realizzi nell’ambito della dialettica esercitata oralmente, sotto la guida del maestro: questi sono gli scopi della via che il vero filosofo deve percorrere per raggiungere la comprensione di quelle ardue verità che sono i principi della realtà: esercizio intenso, sforzo, perché “le cose belle sono difficili!” (Ivi).
Si devono rintracciare i contrari,o teoria dei principi,e l’esercizio dialettico deve trovare in ogni problema l’aspetto vero e quello falso, con un lavoro di confronto tra nomi,definizioni e figure, attraverso la comparazione, perché la struttura della conoscenza umana è discorsiva ed essendo lenta la maturazione,solo l’esercizio orale può stimolare maggiormente l’attività del discepolo. Platone conclude circa le aspirazioni filosofiche di Dionisio, affermando che non è un vero filosofo, ma un uomo strano,sensibile più alle adulazioni dei retori e dei cortigiani che alle esigenze di tensione che la filosofia comporta.
La Lettera VII è il vero testamento di Platone che studiato nell’insieme offre una ricchezza maggiore che nelle sue parti; ci indica altresì il forte vincolo tra la filosofia e la politica e la riflessione sulla città giusta è un’offensiva contro la decadenza della polis e la retorica è il discorso che proviene dalla tirannia e dall’ingiustizia mentre la filosofia è la via della verità e della giustizia. (Platone, Fedone 75 b)
Rivolgere lo sguardo verso la realtà deve diventare l’autentica guida della vita umana tanto a livello pubblico come a livello privato e lo sforzo della filosofia è la tensione dal temporale verso la realtà vera che è l’eterno. La Lettera VII non espone una dottrina ma propone un atteggiamento e in ciò consiste il suo socratismo perché come il testamento socratico, anche quello platonico è la vocazione ad un’esistenza filosofica, comprendendo un senso che è parte della spiegazione sistematica dell’essere.

4. Attualità di Platone

Platone nella sua concezione filosofico politica ci ha dato un modello di “utopia” nel quale non c’è illusione che la sua repubblica ideale si trovasse dietro l’angolo o potesse essere conquistata senza uno sforzo continuo nel tempo di tutti i suoi membri, se si pensa che la sua critica alla tirannide, all’oligarchia, alla demagogia conserva ancora oggi una propria attualità:infatti liberarsi dalle suggestioni delle apparenze e dalle informazioni frammentarie richiede una fatica di tutti attraverso le vie laboriose della cultura, dell’arte, della matematica e della filosofia.
Platone avverte che se si vuole governare lo stato non ci si deve abbandonare a recriminazioni, ma fare in modo che chi lo governa e lo amministra conosca ciò che è bene e ciò che è male e lo dimostri attraverso un lungo curriculum di studi. L’idea che il filosofo debba essere il capo della città compare per la prima volta nella “Repubblica”, ma dalla morte di Socrate c’era in lui questo pensiero come ci dimostra anche nel “Menone”.
La filosofia di Platone costituisce il completamento di quella di Socrate in termini di metafisica e trova negli scritti giovanili la sua prima espressione e spiega anche il proseguire della polemica antisofistica,perché la conculcazione della filosofia delle opinioni sensoriali costituisce, per Platone, la preparazione in negativo del suo sistema.
Il problema dell’essere costituisce l’eredità lasciata da Socrate a Platone che conduce poi all’elaborazione della sua grande metafisica,che nasce dal dialogo interiore e che sale dalle apparenze sensibili alla conoscenza della verità e delle realtà in sé sussistenti. Come afferma nel “Convivio”, per Platone Amore e Filosofia si immedesimano vicendevolmente, perché amore è figlio di Penia e di Poros e non è affatto delicato e bello come si crede, ma duro e ispido, dimorando sempre con la povertà.
Se la veridicità non è propria del sentire ma del pensiero logico,concettuale e ideale, nell’uso adeguato dei concetti nei giudizi, essa in modo eminente appartiene alle conoscenze di valore non provvisorio ma universale e perciò la sensazione è conoscenza verace. Platone sviluppa l’innatezza delle idee universali propria della maieutica socratica,giudicando impossibile ricavare le conoscenze universali dai dati sensibili, perché imperfetti e particolari, mentre quelle sono universali e perfette; ma Socrate nulla aveva detto delle condizioni metafisiche della maieutica, eppure solo dalla giustificazione metafisica dell’innatismo, questo poteva universalmente essere garantito. Platone afferma che i concetti sono in noi perché li abbiamo appresi nel loro vero mondo; la presenza nella nostra mente di concetti perfetti e universali è possibile solo come reminiscenza di un’originaria intuizione delle idee, che è l’anima pura, ha avuto anteriormente alla nascita terrena, al suo imprigionamento nel corpo. La vera conoscenza in noi è latente, ma comunque anteriormente ad ogni sensazione; il mondo delle idee viene concepito da Platone come un mondo gerarchico di esseri perfetti, immateriali e realissimi, al cui vertice sta l’idea della bellezza-bontà, perché “Mi pare che nell’ordine intelligibile, l’idea di bene sia vista ultima e con grande difficoltà: ma una volta veduta se ne deve concludere che è l’idea del bene per tutti, causa di quanto è bene, di quanto è bello” (Platone, Repubblica VII, 514).

Soltanto lo stato di grazia che è il sublime delirio amoroso può condurre però a tale grado supremo e alla suprema bellezza si ascende per gradi di un’iniziazione che continuamente eleva dalle cose che “partecipano” la bellezza e quel principio che ne è l’immutabile fondamento. La perfezione non tende a nulla perché non manca di nulla e perciò Platone considera le idee come supreme realtà che non esistono in quanto pensate,ma sono pensate in quanto esistono per sé, indipendentemente dalle anime conoscenti: l’Iperuranio è l’Assoluto e lo stesso Demiurgo, di cui egli parla nel “Timeo”, lo presuppone.
Il Demiurgo è mediatore tra il mondo delle idee e quello corporeo, vive nella beata contemplazione del mondo delle idee, cui si contrappone il caos materiale. E il Demiurgo,consustanziato della perfezione iperuranica, non può volere che il bene; perciò plasma il caos ad immagine del mondo delle idee e così è nato il nostro mondo, tendente perché imperfetto sempre al suo modello, che è l’Idea, senza mai poterne raggiungere la perfezione con inquieta instabilità e per questo, per quanto la sua natura imperfetta lo permetteva, il mondo-copia è stato plasmato ad imitazione dell’Idea e perciò c’è un solo mondo-copia.
Il Demiurgo vi immette l’anima e l’opera viene ancora più perfezionata con la creazione mondana dell’instabile immagine dell’eternità: il tempo. La vita dell’anima umana nel corpo è, però, nella filosofia platonica, un’incarcerazione, per cui la vita assume il significato religioso di preparazione alla morte,attesa di liberazione dal corpo per raggiungere la purezza della visione beata. E la metafisica di Platone è profondamente legata allo studio dell’anima e alla sua immortalità, perché è già implicito che la nascita dell’uomo sia per l’anima solo l’inizio di una provvisoria abitazione corporea, come si afferma nella dottrina della reminiscenza, ma l’anima può dirsi veramente immortale solo se destinata a sopravvivere al corpo per l’eternità.
Nel problema dell’azione si ritrova in Platone la pienezza dell’insegnamento socratico: lo spirito dell’etica di Socrate rivive infatti felicemente nei dialoghi platonici, che in sede teorica ribadiscono i fondamenti socratici della critica all’eraclitismo scettico dei sofisti, e in quella morale la polemica di Socrate contro la morale del più forte contro l’elogio dell’intemperante, tiranno o retore, contro la riduzione del bene a piacere e l’abilità retorica dei sofisti è convincimento da ignoranti perché le conseguenze corruttrici di un insegnamento che nulla insegna sono palesi, perché “avviene che un oratore politico non conosca affatto il bene o il male e tratta il popolo con la stessa ignoranza facendolo persuaso non su questioni da nulla, ma sul bene e il male e siccome egli ha studiato le opinioni del suo popolo,può indurlo facilmente a commettere il male anziché il bene”(Platone, Fed. 260 c).
Di conseguenza la retorica non è un’arte ma un trucco per procacciare l’apparenza del bene; si afferma così l’accettazione dell’elogio della forza e, quindi, dell’ingiustizia e chi commette ingiustizia è l’uomo più misero ed infelice. La morale platonica rifiuta ogni edonismo e condanni il mondo della corporeità; tre sono per Platone le parti dell’anima che egli, con scetticismo ingenuo, immagina in tre diverse parti del corpo e ciascuna esprime una particolare capacità: c’è una potenza con cui l’uomo apprende; un’altra che presiede all’impeto volitivo e irascibile e una terza che ha innumerevoli aspetti e perciò non si può chiamare con un nome particolare, che si desume dall’aspetto suo più caratteristico e deciso ed è la facoltà concupiscente per la violenza con cui l’uomo concupisce il cibo, il bere, l’amore e altri simili appetiti.

Le tre virtù della sapienza,della fortezza e della temperanza, si arricchiscono di una quarta, la giustizia, che pur non avendo una sede particolare, ha, tuttavia, una funzione regolatrice e mediatrice delle altre,provvedendo affinché ciascuna operi nei suoi giusti confini (Platone, Repubblica VII, 580 d).
La politica è per lo stato ciò che la morale è per l’individuo; la Repubblica di Platone è la grande e vasta delineazione dello stato-tipo, dello stato modello, dello stato-idea e ciò congiunge assai profondamente la filosofia teoretica alla filosofia della pratica platonica: l’essenza dell’idealismo iperuranico è, infatti, tutta presente nella politica platonica e ne illumina i caratteri. Lo stato è un grande individuo che deve avere, per parlare figurato, il suo capo, il suo petto e i suoi visceri e le corrispondenti virtù, tra le quali la giustizia armonizzatrice al punto che Platone dichiara “una città ci parve giusta quando di tre ordini che vi sono, ciascuno compie intero il suo ufficio” (Ibid. IV, 435, b).
Tuttavia lo stato in cui vive Platone è quello che condanna legalmente Socrate e ciò avviene perché Socrate è un filosofo e perché nelle città come esse sono, di fatto non vi è posto per gli uomini che conoscono e praticano la giustizia. Dunque è necessario riformare la città in direzione dell’uomo, perché l’uomo giusto, Socrate, non sia considerato un pericoloso rivoluzionario di cui la comunità debba sbarazzarsi al più presto. La politica è la filosofia stessa di Platone, la sua risposta alla condanna e alla morte di Socrate ed è a partire da questa ancor oggi scandalosa verità, che si può comprendere l’essenza tragica del suo pensiero.
Lo stato moderno è quanto di più lontano si possa immaginare dalla polis antica, dove tutti si conoscevano e dove in una giornata si poteva fare a piedi il giro della città. Tuttavia quando leggiamo le severe parole di Platone sulla decadenza della democrazia ateniese verso l’abisso della dittatura e del dispotismo, attraverso l’anarchia e la demagogia, anche noi moderni non possiamo che ripetere l’antico motto “de nobis fabula narratur”, perché la natura umana è ben poco cambiata nel corso dei secoli e il fascino delle cose buone è sempre dominato dagli stessi interessi, “honoris divitiae voluptates” e i motivi che guidano l’uomo probo sono sempre gli stessi: onore, fedeltà, amore del vero e devozione al bene.
A Platone sta a cuore la formazione della classe dirigente, cui deve essere affidato il compito supremo di stabilire l’unità interiore dello stato mediante il dominio assoluto e impersonale della ragione, che con la sua universalità può stabilire una perfetta armonia, subordinando gli interessi particolari a quelli generali della comunità,perché la ragione è conoscenza dell’eterno, del divino, è scienza di ciò che è bene in sé, di quell’esemplare perfetto di giustizia, di bellezza, di bontà, sul quale la vita umana, individuale e sociale deve essere modellata, per improntare del mondo eterno, l’ordinamento e le istituzioni della società, tenendo lo sguardo anche alla natura propria dell’uomo.

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