Una raccolta di scritti di Enrico Berlinguer dimostra
il carattere illiberale della sinistra. Di ieri e di oggi
di Giampietro Berti
«Noi vogliamo arrivare a
realizzare qui, nell'Occidente europeo, un assetto economico, sociale, statale
non più capitalistico, ma che non ricalchi alcun modello e non ripeta alcuna
delle esperienze socialiste finora realizzate e che, allo stesso tempo, non si
riduca a consumare esperimenti di tipo socialdemocratico, i quali si sono
limitati alla gestione del capitalismo».
In questa frase - tratta dalla famosa intervista rilasciata
nell'agosto del 1978 da Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari sul leninismo -
sono riassunte tutte le premesse fallimentari della via italiana al socialismo
(intervista e altri articoli ora contenuti in Enrico Berlinguer, La passione non è finita, Einaudi, pagg. 174,
euro 12, a cura di Miguel Gotor). Si dirà: Non si può impiccare un uomo per una
frase. Sì, se fosse così; però
questa non è una semplice frase perché esprime il concetto-chiave della strategia
per la realizzazione del socialismo in Italia, via peraltro già tracciata da
Togliatti all'indomani della seconda guerra mondiale. Il rifiuto aprioristico
di una Bad Godesberg, vale a dire di una vera socialdemocratizzazione, porta la
«terza soluzione» al fallimento, dato che il capitalismo risulta inseparabile
dalla forma politica liberal-democratica che quasi sempre lo accompagna: negli
ultimi centocinquant'anni abbiamo conosciuto in tutto il mondo regimi politici
a struttura capitalistica senza liberal-democrazia, ma non abbiamo conosciuto
alcun regime liberal-democratico senza una base socio-economica capitalistica.
Si tratta, insomma, della quadratura del cerchio perché
mette in evidenza l'impossibilità per il comunismo italiano di fuoriuscire dal
capitalismo pretendo, al contempo, di mantenere la democrazia; e di potere
avviare, sempre al contempo, una politica anticapitalista all'interno di un
sistema capitalista. Nelle pagine di La passione non è finita si può toccare
con mano queste insuperabili contraddizioni. Berlinguer, e con lui tutti i
comunisti italiani, una volta preso atto che non si poteva giungere alla
«società senza classi», secondo le indicazioni marxiste dell'abbattimento
rivoluzionario della società capitalista, furono costretti a inventarsi, per
l'appunto, una via italiana al socialismo. Di qui la strategia gramsciana
diretta a controllare il più possibile una parte della società civile e
istituzionale - con una pressante egemonia culturale (Università, scuola,
editoria, giornali, magistratura, ecc.) e, per logica conseguenza,
l'attivazione etico-politico di tale impostazione, riassumibile nella condanna
morale della società borghese.
Ecco dunque le proposte di un «trattamento» interno del
capitalismo basate sulla critica del consumismo edonistico, che di fatto si
traduceva nel «mettere a dieta» tutto il sistema produttivo e distributivo con
la conseguente mortificazione di ogni logica di sviluppo economico e sociale.
L'austerità proposta da Berlinguer altro non era, infatti, se non la volontà di
attuare un sistematico salasso sulla libera impresa e sul libero mercato;
salasso che, se vincente, avrebbe snaturato completamente il sistema produttivo
e distributivo, tagliando le gambe a ogni propulsione, con il risultato
inevitabile di creare una povertà generalizzata.
Siamo qui, in altri termini, al mito nefasto secondo cui una riduzione
dello sviluppo economico porta a una maggiore umanizzazione della società (mito
oggi riproposto, ad esempio, sotto la forma del radicalismo ecologico da Serge
Latouche con l'idea della decrescita); mito, si badi bene, che implica sempre
una qualche forma di pianificazione economico-politica, che a sua volta conduce
al potenziamento dello Stato sulla società. Si tratta di un moralismo che
dimostra in modo inequivocabile la sostanziale incapacità dei comunisti di
fronteggiare e di gestire la modernità, dato che questa, ridotta all'osso, si
può sintetizzare in una sola parola: individualismo. Vale a dire una concezione
della vita che è stata espressa nel modo più compiuto proprio dalla società
borghese.
Ci si domanda qui: come è possibile pensare che tutto ciò -
allora come adesso - possa essere considerato ancora attuale e proponibile? In
realtà questa condanna morale - svolta in modo anche strumentale per mantenere
viva negli adepti la fede nel «totalmente altro» (il capitalismo, comunque, è
il male e va perciò condannato) rende evidente la mancanza di un reale,
credibile modello economico-sociale alternativo al sistema vigente. È
un'insufficienza che di fatto porta all'affossamento della «società aperta»,
tanto da sfociare, non a caso, nel compromesso storico, ovvero nella
convergenza «totalitaria» del cattocomunismo (l'organico incontro fra comunisti
e cattolici di sinistra), la cui natura era e resta irrimediabilmente avversa a
ogni ratio e a ogni ethos liberali, essendo nient'altro che l'abbraccio mortale
- per i cittadini italiani - fra due chiese.
L'austerità, il cosiddetto «sviluppo sostenibile», il compromesso storico,
la democrazia organica, la questione morale sono state e sono tutte versioni di
un unico registro profondamente anti-liberale: la volontà di mettere le mani
sulla libertà dell'individuo, un vizio micidiale di cui i comunisti allora, e i
post comunisti oggi, non sono riusciti e non riescono a liberarsene, essendo
parte integrante del loro Dna.
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