di Inos Biffi
Alla ragione è possibile
giungere all’affermazione dell’esistenza di Dio. «Tra gli uomini - afferma
Tommaso d’Aquino - niente è più certo di Dio (Super epistolam ad hebraeos lectura, 318), e, com’è noto, egli ha
tracciato cinque percorsi, o vie, filosoficamente rigorose, al termine delle
quali si conclude fondatamente che esiste una realtà che denominiamo Dio.
Esaminando gli esseri di cui
abbiamo esperienza, li constatiamo imperfetti, instabili e inquieti, caduchi,
frammentari, e quindi tali che non possono trovare in se stessi la
giustificazione del loro esserci. Per spiegare il loro atto d’essere occorre
procedere oltre, alla fonte radicale dell’Essere stesso, mancando la quale essi
non potrebbero esistere. Occorre, in altre parole, risalire all’Atto puro, a
Chi possiede l’essere per definizione o per essenza: «Io sono l’atto puro
d’esistere»: così l’Angelico comprende la «sublime verità» rivelata a Mosè
nell’Esodo.
Per spiegare l’esistenza
degli enti è necessario, di conseguenza, pervenire a Colui al quale solo
compete di «dare l’essere», ossia di creare, e quindi al Creatore. Ed è il caso
di osservare che la dottrina sul primato dell’Atto d’essere, su «Dio che è il
proprio essere», sulla creazione, come elargizione di essere rappresenta il
vertice dell’originalità filosofica, a cui, come osserva Étienne Gilson, né
Platone né Aristotele erano mai giunti e che rappresenta «una riforma dalla
portata immensa» (L’être et l’essence).
San Tommaso ripete però che
«anche riguardo a quello che intorno a Dio si può indagare con la ragione, fu
necessario che l’uomo fosse ammaestrato per divina rivelazione, perché una
conoscenza razionale di Dio non sarebbe stata alla portata se non di pochi,
dopo lungo tempo e con mescolanza di molti errori» (Summa theologiae, I, 1, 1, c). Da questo profilo appare felice la
condizione del credente, che, mentre da un lato grazie alla fede fruisce della
certezza sull’esistenza di Dio, dall’altro la può anche indagare, senza perplessità
e insicurezza, con la luce stessa della ragione, che la fede non altera e non
coarta.
Lo dovrebbero ricordare sia i
filosofi cristiani, spesso preoccupati di prendere le distanze dalla sacra
dottrina; sia i teologi diffidenti della riflessione razionale, quasi questa
non si trovasse inclusa nella rivelazione. In fondo, invece di godere della
verità, si è vittime di una forma di rispetto umano. Ma, affermata la capacità
della filosofia di riconoscere l’esistenza di Dio (del quale, come puntualmente
l’Angelico si premura di precisare, ci è noto più quello che egli «non è» che
non quello che è), ecco sorgere una serie di interrogativi.
Sono interrogativi gravi e
impellenti riguardanti i rapporti concreti dell’uomo col Dio della ragione,
quindi il destino e il fine ultimo della vita umana, il male, la sofferenza, e
le irrazionalità che abitualmente la attraversano e la sorprendono, e soprattutto
il senso della morte che la suggella irrevocabilmente e la ricopre di un velo
impenetrabile. E le stesse certezze razionali che Dio è per natura sommamente
buono e provvidente e che l’anima spirituale è immortale, non valgono a
tranquillizzare la mente. Al contrario, ne accendono l’inquietudine e il
turbamento, e le nostre irrinunciabili domande rimangono inevase e prive di
risposte appaganti.
È il dramma ricorrente
dell’umanità lasciata a se stessa, impotente e ferma sulla soglia di Dio, e di
cui sentiamo l’eco dolente, per esempio, nella tragedia greca e che
specialmente, di là dalle testimonianze letterarie, riscontriamo nell’esperienza
o nel vissuto umano di ogni tempo e spazio. Non per questo dobbiamo concludere
che l’impegno della ragione vòlto a ricercare Dio a partire dalle sequenze del
mondo visibile, o tramite lo spettro delle cose create, è uno sforzo e un
affanno sterile e vano. E tuttavia, se un tale impegno apre indubbiamente lo
spirito e la sensibilità alla ricerca di Dio e al suo desiderio, è però
inevitabile prendere atto che l’itinerario filosofico rimane come bloccato e inoltrepassabile.
Ma l’uomo fu voluto
dall’origine in questa condizione di ignoranza e di limite riguardo al
significato della propria esistenza e del proprio destino? O anche: era pensabile
che venisse lasciato in questa situazione? La filosofia, forse, neppure
riuscirebbe a formulare con precisione questi quesiti, ai quali risponde, in
ogni caso, la Parola di Dio. Questa anzitutto rivela che, secondo l’eterno e
misterioso progetto divino, l’uomo - cioè ogni uomo da sempre - è stato creato
nella grazia di Gesù Cristo (2 Timoteo, 1, 9), che è stato ideato a immagine
del Figlio di Dio crocifisso e glorioso e voluto per essere conforme a lui,
«Primogenito tra molti fratelli» (Romani, 8, 29) ed essere associato al suo
destino e alla sua condizione filiale (Efesini, 1, 5).
La stessa ragione, quindi, è
stata originariamente e nativamente disposta in uno stato soprannaturale. Essa,
per così dire, allo stato puro, concretamente non è mai esistita. Ne consegue
che, qualunque sia l’esito dell’indagine filosofica intrapresa per approdare a
Dio, esso rimane sospeso. Unicamente alla luce e nell’ascolto della rivelazione
apparsa in Cristo, l’uomo può conoscere il senso compiuto della propria
esistenza e il contenuto reale del proprio destino. Dalla soglia di Dio la fede
lo introduce nell’intimità divina e lo inizia ai misteri diversamente inaccessibili
della Trinità e dell’incarnazione del Figlio di Dio.
Fuori dall’orizzonte della
Parola di Dio e della fede che la accoglie, l’uomo non può che ritrovarsi
smarrito. Tanto più che la sua natura creata in Cristo, si trova di fatto
segnata e pregiudicata dalle conseguenze del peccato dei Progenitori, per cui
nasce privo di grazia. Ma anche questo è soltanto la Parola di Dio a rendercelo
noto, la stessa Parola che, insieme, ci annuncia il proposito del Padre di
salvare, mediante la Croce del Figlio, l’umanità compromessa dalla colpa originale
e quindi di non lasciarla irredenta.
A noi sfugge totalmente la
ragione per cui Dio ha voluto un mondo in cui, per l’insipiente decisione
dell’uomo, ci fosse il peccato con le tribolazioni che lo accompagnano. Solo
che il peccato non rappresenta il suggello del mondo e della sua storia: su di
esso eccede e sovrabbonda il perdono del Crocifisso che, proprio attraverso la
sua passione e la sua morte, diviene sorprendentemente il Signore glorioso,
assiso alla destra del Padre.
Sopra abbiamo accennato allo
sconcerto della ragione, che non riesce a comprendere le differenti e
devastanti forme di male e di sofferenze, che attraversano e affliggono
impietosamente la vita dell’uomo, e infine la morte, che parrebbe svuotare
tutto di senso e fissare il definitivo fallimento. E veramente alla ragione
sarebbe impossibile capire e giustificare. Ancora una volta a illuminare è -
come direbbe Trilussa - «Quella vecchietta cieca, che incontrai la notte che me
spersi in mezzo ar bosco». Ossia la fede, che, sempre affidandosi alla Parola
di Dio, intende le tribolazioni come comunione e prosieguo della passione di
Cristo, e la morte come un rinnovarsi del mistero della stessa morte del
Redentore, per diventare partecipi della sua risurrezione e consorti della sua
gloria.
Non stupisce che, dove il
Vangelo non sia annunziato o non venga accolto, la ragione, pur con tutte le
sue risorse, rimanga nell’oscurità, e nell’angustia, come direbbe Tommaso
d’Aquino (Summa contra gentiles, III,
148, 16). Da qui l’assoluta e sempre urgente necessità di annunciare Gesù
Cristo, nel quale ogni cosa è ricapitolata e spiegata, e che è l’epifania
imprescindibile di Dio e dell’uomo. E in ciò consiste la nuova evangelizzazione,
nuova perché intramontabile.
© L’Osservatore Romano
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