di Gilbert Keith Chesterton
Vi è un senso decisivo in cui
gli irlandesi sono molto poetici: nel dare un riconoscimento speciale e sociale
alla poesia. A volte ho espresso la fantasia che gli uomini dell’Età dell’Oro
potessero spontaneamente parlare in versi; ed è proprio vero che la metà del
discorso irlandese è in versi. La citazione diventa recitazione. Ma è troppo
ritmico per assomigliare alle nostre recitazioni teatrali. Questo è uno dei
miei ricordi più forti e più simpatici, e uno dei motivi più definibili per
essermi sentito straordinariamente felice a Dublino. Era un paradiso di poeti,
in cui un uomo sentendosi incline a parlare di un libro o due di Paradise Lost, o illustrare il suo significato con la ballata completa
dell’Ancient Mariner, sente che sarà meglio compreso qui che altrove.
Ma più si nota questa qualità
nazionale, meno la si scambierà per qualcosa di semplicemente irresponsabile, o
anche di solamente emotivo. Il più breve modo di affermare la verità è dire che
la poesia interpreta la parte della musica. È una funzione sociale in ogni
senso dell’espressione. Una serata poetica è naturale come una serata musicale,
ed essendo così naturale diventa ciò che si dice artificiale. Come in alcuni
ambienti «Suoni?» è piuttosto «Non suoni?», questi circoli irlandesi sarebbero
sorpresi che un uomo non abbia recitato, piuttosto che l’abbia fatto. Un
critico ostile, specialmente un critico irlandese, potrebbe forse dire che gli
irlandesi sono poetici perché non sono sufficientemente musicali. Posso
immaginare Bernard Shaw dire qualcosa del genere. Ma si potrebbe anche
obiettare che non sono solo musicali, perché non ammetterebbero di essere solo
emotivi. È molto più vero dire che danno una posizione ragionevole sulla
poesia, piuttosto che dire che non consentono una qualche interferenza poetica
particolare con la ragione. «Ma io, le cui virtù sono le definizioni della
mente analitica», dice Mr Yeats, e uno che è stato in quell’atmosfera sa cosa
vuol dire.
Nella misura in cui queste
cose si allontanano dalla ragione, tendono piuttosto al rituale che alla
rivolta. La poesia è in Irlanda ciò che l’umorismo è in America: è una
istituzione. L’inglese, che è sempre, nel bene e nel male, un amatore, prende
entrambi in modo più occasionale e perfino accidentale. Si deve sempre ricordare
qui che l’antica civiltà irlandese aveva un alto grado di poesia, che non era
solo mistica, ma piuttosto matematica. Come ornamento celtico, il verso celtico
tendeva troppo a motivi geometrici. Se questo era irrazionale, non lo fu per
eccesso di emozione. Si potrebbe piuttosto descrivere come irrazionale per
eccesso di ragione. L’antica gerarchia di menestrelli, ciascun grado con il
proprio complicato metro, suggerisce che ci fosse qualcosa di cinese in una
cosa così inumanamente civile. Eppure tutta questa svanita etichetta è in
qualche modo nell’aria in Irlanda, e gli uomini e le donne si muovono con essa,
come sui passi di una danza perduta.
Così, se consideriamo il
senso in cui gli irlandesi sono molto litigiosi, o il senso in cui sono davvero
poetici, troviamo che entrambi ci riconducono a una condizione di chiarezza che
sembra l’opposto di un mero sogno. In entrambi i casi l’Irlanda è critica, e
perfino autocritica. L’acredine che mi sono permesso di lamentare non è
acredine irlandese contro gli inglesi, che dovrei presumere non solo come
inevitabile, ma come sostanzialmente giustificabile. È acredine irlandese
contro gli irlandesi, le affermazioni di un onesto nazionalista contro un altro
onesto nazionalista. Allo stesso modo, mentre sono cultori di poesia, non
sempre sono cultori di poeti, e vi è abbondanza di satira nella loro
conversazione sull’argomento. Ho detto che la metà del discorso può essere
costituito da poesia; potrei quasi dire che l’altra metà può consistere di
parodia. Tutte queste cose sono pari a un eccesso di vigilanza e realismo; la
massa del popolo veglia e prega, ma anche quelli che non pregano non smettono
mai di vegliare.
© Avvenire
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