lunedì 8 febbraio 2010

“Fuori i matti, dentro Basaglia”

Questo si leggeva spesso inciso sui muri di Trieste durante gli anni ’70, in piena rivoluzione antipsichiatrica.

La rivoluzione ebbe un decorso fatale, come certe patologie: centinaia di suicidi, solo a Trieste e provincia. I rivoluzionari giustificarono gli eventi con l’adagio stucchevole «ogni rivoluzione ha i suoi morti».

Insomma da trent’anni Trieste è sotto la dittatura delle teorie di Psichiatria Democratica, il movimento rosso e basagliano, che cura lo psicotico dicendo che la psicosi non esiste. Dice Basaglia: «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla.» La follia, cioè, non va eliminata.

Basaglia non c’è più, ma i basagliani continuano a spadroneggiare indisturbati e a fare danni. Hanno congelato la psichiatria, chiuso i manicomi e rimpiazzato un bel nulla: il malato è abbandonato a sé stesso o a carico dei familiari, che si devono improvvisare psicoterapeuti.

Franco Basaglia è un intelligentone che comincia la propria rivolta ideologica contro la realtà, firmando il grottesco appello contro il commissario Calabresi. Giunto a Trieste fa man bassa del comprensorio manicomiale di San Giovanni. Lo chiude nel ’77. L’anno successivo diventa legge la sua proposta di riforma psichiatrica (legge 180).

Oggi i manicomi pubblici sono chiusi. Ci sono, invece, tanti piccoli manicomi casalinghi - manicomi fai da te - nei quali i parenti si dividono i ruoli dello psicologo, dello psichiatra, dello psicoterapeuta…

Segnalo un articolo, nel merito, di Marcello Veneziani.

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silvio

4 commenti:

Paolo ha detto...

Credo che la follia possa avere un senso solo all'interno di una visione di fede, in cui tutto ha una collocazione e un senso, seppur misterioso. Nella società post-illuminista, quella del culto della ragione, il folle non ha più una spiegazione, una sua ragione di essere. Diventa qualcosa di indicibile, di inspiegabile, e quindi può essere relegato lontano, nel manicomio, via dalla vista di tutti. E qui, almeno dal punto di vista sociale,la cosa appare ancora accettabile. I folli hanno almeno un luogo dove, pur con tutte le storture, ci si prendeva cura di loro (di solito, istituzioni religiose). Succede un po' come per la morte. Quando la visione luminosa della fede comincia a venire meno, verso la metà del Settecento, viene occultata e relegata lontano dalla vita, come nei tempi pagni, in cimiteri fuori dai centri urbani, perché inquieta. Nella società ormai ampiamente secolarizzata degli anni 70, quella in cui si muove Basaglia, la follia viene da questi cancellata per legge. Non esiste più, non avendo più un senso, e i matti vengono immessi nella società come esseri in fondo normali. L'utopia social comunista stabilisce per decreto che il male, il peccato, la colpa non esistono più, c'è solo il disagio.
Shakespeare, ancora in qualche modo cristiano, vedeva nella follia anche qualche traccia di Verità, se non di ispirazione divina. Tipica la figura shakespeariana del "fool", lo sciocco folle che tra tanti nonsense a volte è l'unico che dice la verità. E' un retaggio della tradizione cristiana medievale, che nei folli vedeva pur sempre un mistero legato al divino ( come il buffone del Re).

silvio ha detto...

Certo. Mi ricorda l’ammonimento di Pascal: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici».

Riccardo ha detto...

Ogni tanto si sente di uno che uccide qualche persona, in un "raptus di follia". Ma perché non esistono centri specializzati per questi tizi pericolosi?

silvio ha detto...

Il punto è infatti questo. I manicomi erano una risposta antiquata alla psicosi e nessuno dubita che fossero non idonei alla cura del malato.
Il problema è che i manicomi non sono stati rimpiazzati da strutture idonee.
Basaglia vedeva nello psicotico non un malato da curare, ma un prigioniero da liberare. Questo in un certo senso è vero, ma la schiavitù del malato è innanzitutto la malattia stessa e solo in secondo luogo la struttura manicomiale di detenzione.
Insomma, a mio parere, l’errore non fu tanto quello di liberare uno schiavo, ma di liberarlo parzialmente, lasciandolo schiavo della malattia (peraltro negata come tale).