martedì 2 luglio 2013

Due articoli su Paolo Zellini

Nella dialettica tra finito e infinito si rispecchia l’atto di Dio che chiama all’immensità tutte le sue creature

di Silvio Brachetta

Le speculazioni attorno alla questione dell’infinito sono disseminate per tutta l’estensione storica del pensiero umano e coinvolgono le più disparate tradizioni filosofiche, teologiche e matematiche. Due linee concettuali sono, però, rintracciabili trasversalmente alle varie scuole teoretiche e fanno capo ai due sensi tradizionali d’intendere l’infinito. C’è, nella prima tesi, l’idea di un infinito «potenziale», incompleto, inquietante, retaggio forse del timore umano dinnanzi all’incommensurabile. E c’è, al contrario, un concepire l’infinito in senso «attuale», chiuso, quasi rassicurante, che richiama invece un ritorno al finito e all’ordine delle cose.
Così Paolo Zellini, matematico e scrittore triestino, torna a parlare dell’infinito (non è la prima volta), dopo averne scritto parecchio tempo fa e con discreto successo (sette edizioni e il Premio Viareggio), nella sua “Breve storia dell’infinito” (Adelphi, 1980). Zellini, su invito dell’Associazione culturale “Studium Fidei”, ha trattato il 16 maggio scorso di “Infinito e finito nella scienza e nella filosofia” presso il Centro pastorale Paolo VI a Trieste. Il contributo del professore alla cultura è peculiare: la sua opera tende a dimostrare che è del tutto sterile (e falso), ai fini della conoscenza, considerare la matematica come una disciplina fine a se stessa, esaurita nel suo ambito tecnico-computativo. Zellini rileva come la matematica fu determinante per lo sviluppo della filosofia greca - si pensi solo a Pitagora, più filosofo che matematico, o al concetto di logos che, in origine, era legato all’azione del contare.
L’infinito, spesso contrapposto dai filosofi al numero, compare nella scuola ionica con Anassimandro - spiega Zellini - che indica come «arché» (come principio sostanziale del cosmo) l’«apeiron», l’illimitato, l’indefinito. Anassimandro apre così ad un’«idea negativa e problematica dell’infinito», assunta poi da buona parte della filosofia. Aristotele, in modo speciale, diffida dell’infinito, in quanto «pura potenza» perennemente diveniente. L’«alpha privativo» di Anassimandro (l’«a» di «apeiron») coinvolgerà, in epoca cristiana, anche la teologia, che spesso preferirà parlare di Dio in termini negativi (apofatismo): Dio come non finito (infinito), non mortale (immortale), non mutabile (immutabile), eccetera. Indicativa, a questo proposito, è la «tenebra di Dio» dello Pseudo-Dionigi o la divina «notte oscura» di san Giovanni della Croce.
In ogni caso però - a parere del professore - la tradizione biblica presenta l’infinità di Dio come sussidio al limite creaturale. Si ha, cioè, la «sensazione che il potere di Dio si esplichi all’infinito, non per generare un infinito smisurato, ma per arrivare fin dove l’infinito arriva, arginandolo e riportandolo a se». Lo si comprende, ad esempio, dal Nuovo Testamento: «avrete forza dallo Spirito Santo […] e mi sarete testimoni […] fino agli estremi confini della terra» (At 1, 8). Dio non intende condurre gli uomini ai confini dell’infinito per oltrepassarlo, ma per riportarli indietro presso di Lui. Questa visione «attuale» dell’infinito, sebbene più attinente ai Testi sacri, non ha inciso molto nella storia del pensiero matematico, se non per l’arco temporale che va dal secolo XVII agli inizi del XX. Con Leibnitz (scienziato e filosofo) infatti - osserva Zellini - «fa l’ingresso nella matematica l’infinito attuale», in netto contrasto con la sensibilità aristotelica. E, alla fine del secolo XIX, Cantor introduce la teoria sugli insiemi infiniti, attingendo anche alla tradizione biblica.
Nel frattempo i filosofi continuano ad essere scettici: secondo Hegel l’infinità è comunque «cattiva» e per Croce «quando il matematico si mette a calcolare smette di pensare». Non solo, ma già con Platone l’infinito è in rapporto con l’«alterità», intesa come «cosa da nulla» e, dunque, relazionabile al nulla. Per questo sant’Agostino propone di ritornare in se stessi, poiché «in interiore homine habitat veritas» - «nel profondo dell’uomo abita la verità».

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Il numero va ben oltre la semplice logica e ci apre ad una sapienza che coinvolge anche la religione

di Silvio Brachetta

Sembra scontato che la matematica sia solo una questione di calcolo. O, almeno, così hanno insegnato alla maggior parte di noi. Pitagora? Quello del teorema: «In ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è sempre equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti». Logica indiscutibile e dimostrabile. Che altro c’è da dire?
In effetti, qualcosa ci sarebbe. Stavrogin, che nei “Demonî” di Fëdor Dostoevskij si rivolge a un certo Fed’ka, esclama: «Quello sì che è un demonio calcolatore! Un ragioniere»! C’è dunque qualcosa d’aggiungere sul calcolo, ma in ambito etico ad esempio, non matematico. Dostoevskij è qui citato da Paolo Zellini nel breve saggio “La matematica del Grande Inquisitore”, (in “Adelphiana”, 2002). Sembra quasi che vi sia un nesso tra il male e la logica aritmetica. E difatti il professor Zellini si riferisce al “Grande Inquisitore” (sempre ideato da Dostoevskij) che, «nella sua requisitoria contro Cristo», denuncia il «dono divino» della «libertà di coscienza». Per l’Inquisitore, Dio ha scelto tutto ciò che v’è di «più misterioso» e «indefinito» e, per questo, agisce come se non amasse affatto l’uomo. Sorvolando sull’amore di Dio, del quale l’Inquisitore comprende poco, è interessante notare come il bene (Dio) sia qui relazionato con l’indeterminatezza. La «determinatezza» invece - fa capire Dostoevskij - è sintomatica del «male e del demoniaco» che, in fondo, si presenta «ridotto in formule, geometrizzato», così come si pianificano le stragi e le torture sovietiche.
A prescindere se Dostoevskij abbia avuto ragione o meno, qua è importante rilevare la notevole intuizione del professore: sul numero e sulla matematica, oltre il calcolo, c’è ancora molto altro (e di profondo) da dire. Soprattutto nel campo della filosofia. E Zellini lo dimostra nelle sue opere maggiori, pubblicate da Adelphi. È del 1980 la “Breve storia dell’infinito”, dove il problema è posto nella sua originale sistemazione filosofica. Nel 1985 è dato alle stampe “La ribellione del numero”. Ma perché mai, a che cosa, il numero si sarebbe dovuto ribellare? Soprattutto al tentativo di essere ingabbiato dai matematici: in epoca moderna (da Leibnitz in poi) la speculazione matematica raggiunse successi tali - calcolo infinitesimale e geometrie non euclidee - da far pensare che il mondo dei numeri non avesse un’esistenza oggettiva. Si ritenne cioè, idealisticamente, che la scoperta di un qualche sistema matematico avesse a che fare con la libera creazione umana e che le nuove teorie fossero «entità mentali», prive di contraddizione reciproca. Nel XX secolo, però, il numero si «ribellò» e rivendicò autonomia propria: fu dimostrato che tra i vari sistemi teorici sorgevano alcuni «paradossi», finché Kurt Gödel (nel 1931) provò come tali contraddizioni logiche fossero insopprimibili. Più che di calcolo, dunque, il libro sembra trattare del contrasto tra idealismo e realismo filosofico.
In “Gnomon” (1999) Zellini tratta dell’essenza del numero e dell’invarianza del mutamento, proprio come quel particolare ente geometrico (lo gnomone) che, aggiunto a una qualche figura, ne genera una simile, immutata nella forma. Nel 2010 esce “Numero e logos” dove si ritrova l’evidenza di una grandissima affinità tra il contare, il pensare e persino il pregare. Dai miti delle antiche civiltà e dai testi sacri religiosi, fino alle moderne teorie matematiche di Cantor o Dedekind, l’Autore rintraccia nel numero qualcosa che va ben oltre la semplice logica, per approdare a una sapienza che coinvolge necessariamente anche la religione.
Paolo Zellini, triestino, classe 1946, è per tutte queste ragioni, assai critico nei confronti della «scienza moderna» che, rinunciataria del logos autentico, sapienziale e religioso, «non è la semplice prosecuzione della parola biblica o del credo pitagorico, bensì la sua caricatura, […] una immane quanto inavvertita superstizione» (in “La Repubblica”, 05/05/2011). Un’altra voce autorevole, insomma, a favore di una ragione fondata sul trascendente.


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