Nella dialettica tra
finito e infinito si rispecchia l’atto di Dio che chiama all’immensità tutte le
sue creature
di Silvio Brachetta
Le speculazioni attorno alla questione dell’infinito sono disseminate
per tutta l’estensione storica del pensiero umano e coinvolgono le più
disparate tradizioni filosofiche, teologiche e matematiche. Due linee
concettuali sono, però, rintracciabili trasversalmente alle varie scuole
teoretiche e fanno capo ai due sensi tradizionali d’intendere l’infinito. C’è,
nella prima tesi, l’idea di un infinito «potenziale», incompleto, inquietante,
retaggio forse del timore umano dinnanzi all’incommensurabile. E c’è, al
contrario, un concepire l’infinito in senso «attuale», chiuso, quasi
rassicurante, che richiama invece un ritorno al finito e all’ordine delle cose.
Così Paolo Zellini,
matematico e scrittore triestino, torna a parlare dell’infinito (non è la prima
volta), dopo averne scritto parecchio tempo fa e con discreto successo (sette
edizioni e il Premio Viareggio), nella sua “Breve storia dell’infinito” (Adelphi, 1980). Zellini, su invito dell’Associazione
culturale “Studium Fidei”, ha trattato il 16 maggio scorso di “Infinito e finito nella scienza e nella filosofia” presso
il Centro pastorale Paolo VI a Trieste. Il contributo del professore alla
cultura è peculiare: la sua opera tende a dimostrare che è del tutto sterile (e
falso), ai fini della conoscenza, considerare la matematica come una disciplina
fine a se stessa, esaurita nel suo ambito tecnico-computativo. Zellini rileva
come la matematica fu determinante per lo sviluppo della filosofia greca - si
pensi solo a Pitagora, più filosofo che matematico, o al concetto di logos che, in origine, era legato
all’azione del contare.
L’infinito, spesso contrapposto dai filosofi al numero,
compare nella scuola ionica con Anassimandro - spiega Zellini - che indica come
«arché» (come principio sostanziale
del cosmo) l’«apeiron», l’illimitato,
l’indefinito. Anassimandro apre così ad un’«idea negativa e problematica
dell’infinito», assunta poi da buona parte della filosofia. Aristotele, in modo
speciale, diffida dell’infinito, in quanto «pura potenza» perennemente
diveniente. L’«alpha privativo» di
Anassimandro (l’«a» di «apeiron»)
coinvolgerà, in epoca cristiana, anche la teologia, che spesso preferirà
parlare di Dio in termini negativi (apofatismo): Dio come non finito
(infinito), non mortale (immortale), non mutabile (immutabile), eccetera.
Indicativa, a questo proposito, è la «tenebra di Dio» dello Pseudo-Dionigi o la
divina «notte oscura» di san Giovanni della Croce.
In ogni caso però - a parere del professore - la tradizione
biblica presenta l’infinità di Dio come sussidio al limite creaturale. Si ha,
cioè, la «sensazione che il potere di Dio si esplichi all’infinito, non per
generare un infinito smisurato, ma per arrivare fin dove l’infinito arriva,
arginandolo e riportandolo a se». Lo si comprende, ad esempio, dal Nuovo
Testamento: «avrete forza dallo Spirito Santo
[…] e mi sarete testimoni […] fino agli estremi confini della terra» (At
1, 8). Dio non intende condurre gli uomini ai confini dell’infinito per
oltrepassarlo, ma per riportarli indietro presso di Lui. Questa visione
«attuale» dell’infinito, sebbene più attinente ai Testi sacri, non ha inciso
molto nella storia del pensiero matematico, se non per l’arco temporale che va
dal secolo XVII agli inizi del XX. Con Leibnitz (scienziato e filosofo) infatti
- osserva Zellini - «fa l’ingresso nella matematica l’infinito attuale», in
netto contrasto con la sensibilità aristotelica. E, alla fine del secolo XIX,
Cantor introduce la teoria sugli insiemi infiniti, attingendo anche alla
tradizione biblica.
Nel frattempo i filosofi continuano ad essere scettici:
secondo Hegel l’infinità è comunque «cattiva» e per Croce «quando il matematico
si mette a calcolare smette di pensare». Non solo, ma già con Platone
l’infinito è in rapporto con l’«alterità», intesa come «cosa da nulla» e,
dunque, relazionabile al nulla. Per questo sant’Agostino propone di ritornare
in se stessi, poiché «in interiore homine
habitat veritas» - «nel profondo dell’uomo abita la verità».
***
Il numero va ben
oltre la semplice logica e ci apre ad una sapienza che coinvolge anche la
religione
di Silvio Brachetta
Sembra scontato che la matematica sia solo una questione di
calcolo. O, almeno, così hanno insegnato alla maggior parte di noi. Pitagora?
Quello del teorema: «In ogni triangolo
rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è sempre equivalente alla somma
dei quadrati costruiti sui cateti». Logica indiscutibile e dimostrabile.
Che altro c’è da dire?
In effetti, qualcosa ci sarebbe. Stavrogin, che nei “Demonî”
di Fëdor
Dostoevskij si rivolge a un certo Fed’ka, esclama: «Quello sì che è un
demonio calcolatore! Un ragioniere»! C’è dunque qualcosa d’aggiungere sul
calcolo, ma in ambito etico ad esempio, non matematico. Dostoevskij è qui citato da Paolo
Zellini nel breve saggio “La matematica del Grande Inquisitore”, (in “Adelphiana”, 2002). Sembra quasi che vi sia un
nesso tra il male e la logica aritmetica. E difatti il professor Zellini si
riferisce al “Grande Inquisitore” (sempre ideato da Dostoevskij) che, «nella sua requisitoria contro Cristo»,
denuncia il «dono divino» della «libertà di coscienza». Per l’Inquisitore, Dio
ha scelto tutto ciò che v’è di «più misterioso» e «indefinito» e, per questo,
agisce come se non amasse affatto l’uomo. Sorvolando sull’amore di Dio, del
quale l’Inquisitore comprende poco, è interessante notare come il bene (Dio)
sia qui relazionato con l’indeterminatezza. La «determinatezza» invece - fa
capire Dostoevskij
- è sintomatica del «male e del demoniaco» che, in fondo, si presenta
«ridotto in formule, geometrizzato», così come si pianificano le stragi e le
torture sovietiche.
A prescindere se Dostoevskij abbia avuto ragione o meno, qua è
importante rilevare la notevole intuizione del professore: sul numero e sulla
matematica, oltre il calcolo, c’è ancora molto altro (e di profondo) da dire.
Soprattutto nel campo della filosofia. E Zellini lo dimostra nelle sue opere
maggiori, pubblicate da Adelphi. È del 1980 la “Breve storia dell’infinito”,
dove il problema è posto nella sua originale sistemazione filosofica. Nel 1985
è dato alle stampe “La ribellione del numero”. Ma perché mai, a che cosa, il numero si
sarebbe dovuto ribellare? Soprattutto al tentativo di essere ingabbiato dai
matematici: in epoca moderna (da Leibnitz in poi) la speculazione matematica
raggiunse successi tali - calcolo infinitesimale e geometrie non euclidee - da far
pensare che il mondo dei numeri non avesse un’esistenza oggettiva. Si ritenne
cioè, idealisticamente, che la scoperta di un qualche sistema matematico avesse
a che fare con la libera creazione umana e che le nuove teorie fossero «entità mentali», prive di contraddizione reciproca.
Nel XX secolo, però, il numero si «ribellò» e rivendicò autonomia
propria: fu dimostrato che tra i vari sistemi teorici sorgevano alcuni «paradossi», finché Kurt Gödel (nel 1931) provò come
tali contraddizioni logiche fossero insopprimibili. Più che di calcolo, dunque,
il libro sembra trattare del contrasto tra idealismo e realismo filosofico.
In “Gnomon” (1999) Zellini tratta dell’essenza del numero e
dell’invarianza del mutamento, proprio come quel particolare ente geometrico
(lo gnomone) che, aggiunto a una qualche figura, ne genera una simile, immutata
nella forma. Nel 2010 esce “Numero e logos” dove si ritrova l’evidenza di una
grandissima affinità tra il contare, il pensare e persino il pregare. Dai miti
delle antiche civiltà e dai testi sacri religiosi, fino alle moderne teorie
matematiche di Cantor o Dedekind, l’Autore rintraccia nel numero qualcosa che
va ben oltre la semplice logica, per approdare a una sapienza che coinvolge
necessariamente anche la religione.
Paolo Zellini, triestino, classe 1946, è per tutte queste
ragioni, assai critico nei confronti della «scienza moderna» che, rinunciataria
del logos autentico, sapienziale e
religioso, «non è la semplice prosecuzione della parola biblica o del credo
pitagorico, bensì la sua caricatura, […] una immane quanto inavvertita
superstizione» (in “La Repubblica”, 05/05/2011). Un’altra voce autorevole,
insomma, a favore di una ragione fondata sul trascendente.
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