di Silvio Brachetta
«Era un testardo. Ma, il
Signore ha voluto proprio un testardo per farci capire una cosa più grande».
Il testardo in questione, secondo Papa Francesco, è San Tommaso Apostolo, del
quale oggi (3 luglio) ricorre la festa liturgica. Il Santo Padre, presso la
cappella della Domus Santa Marta, ha commentato estesamente il brano evangelico
noto come l’«incredulità di San Tommaso» (Gv 20, 24-29): solo quando l’Apostolo
(conosciuto anche con il nome di Dìdimo) si ritrovò dinnanzi Gesù Cristo
risorto, lo riconobbe come Signore e come Dio.
Ma il San Tommaso, su cui riflette il Papa, è forse assai
meno incredulo di quanto possa sembrare o, comunque, superata l’incredulità, è
«il primo dei discepoli» che confessa la divinità di Cristo, dopo la
Risurrezione. Non si è limitato, cioè, come gli altri Apostoli, a constatare la
Risurrezione di Gesù, ma - dice il Pontefice - «è
andato più oltre. Ha detto: “Dio!”». A ciascuno il Signore, nella
propria sapiente Provvidenza, concede il tempo sufficiente alla conversione e,
nel caso di San Tommaso, «ha voluto che aspettasse una settimana».
Nessuno è in grado di valutare il criterio con cui Dio
sceglie i tempi e le persone, ma è anche erroneo credere che Egli voglia
lasciare l’uomo nelle tenebre dell’ignoranza: e, difatti, si comprende - dice
il Santo Padre - «qual era l’intenzione del
Signore nel farlo aspettare» e, cioè, evidenziarne
l’«incredulità per portarla» all’«affermazione
della sua divinità». In ogni caso, l’attenzione deve andare verso le
piaghe di Gesù. Anzi, il «cammino per l’incontro
con Gesù-Dio sono le sue piaghe. Non ce n’è un altro».
Eppure molti si sono incamminati su strade differenti e non
hanno considerato a fondo il valore salvifico, beatificante, delle piaghe di
nostro Signore. Papa Francesco ha elencato alcuni «sbagli» nei quali possono
incorrere coloro che cercano Dio con sincerità. C’è, ad esempio, il «cammino
della meditazione», perseguito dagli gnostici, ovvero da coloro che reputano
sufficiente la propria intelligenza per conoscere pienamente il vero Dio. O la
«strada della penitenza» - soltanto della penitenza - per cui molti digiunano e
compiono ogni sacrificio, credendo di poter incontrare Dio sostenuti dalle sole
proprie forze materiali o spirituali. Fu il caso dei Pelagiani, che proposero
un cammino di conversione fondato sulla volontà umana, convinti di poter fare a
meno della Grazia, dello Spirito Santo.
Non che meditazione e
penitenza siano d’ostacolo all’autentica conversione. Tutt’altro. Ma nulla è
sufficiente - afferma il Papa - senza le «opere di misericordia» a
favore «del tuo fratello», perché «piagato,
perché ha fame, perché ha sete, perché è nudo, perché è umiliato, perché è
schiavo, perché è in carcere, perché è in ospedale». Queste - dice - «sono
le piaghe di Gesù oggi». Per cui il Signore, tramite queste piaghe, «ci chiede
di fare un atto di fede» e di non rimanere, però, solo sul piano filantropico,
della buona azione per se stessa.
L’obiettivo è un altro: «toccare le piaghe di Gesù»,
carezzarle, curarle con tenerezza, baciarle - «letteralmente», soggiunge. Così
come accadde a San Francesco e, prima ancora, allo stesso Dìdimo. Entrambi
cambiarono vita solo dopo l’abbraccio con il lebbroso o con l’ammalato che, in
realtà, è lo stesso Gesù piagato e ferito.
Del tutto concorde su tali
questioni è l’insegnamento dei Dottori della Chiesa, tra i quali si potrebbe
citare San Gregorio Magno (Papa): alla fede devono seguire le opere, poiché «crede
infatti davvero colui che mette in pratica con la vita la verità in cui crede»
(dalle “Omelie sui Vangeli”, Om. 26,
7-9). Per provare tale affermazione San Gregorio cita San Paolo - «[gli
ipocriti] dichiarano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con i fatti» (Tt 1, 16)
- e San Giacomo - «la fede senza le opere è morta» (Gc 2, 26).
San Gregorio, inoltre, rileva
il ruolo della Provvidenza nella vicenda di San Tommaso: «No, questo non
avvenne a caso, ma per divina disposizione. La clemenza del Signore ha agito in
modo meraviglioso, poiché quel discepolo, con i suoi dubbi, mentre nel suo
maestro toccava le ferite del corpo, guariva in noi le ferite dell’incredulità.
L’incredulità di Tommaso ha giovato a noi molto più, riguardo alla fede, che
non la fede degli altri discepoli» (ibidem.).
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