martedì 9 luglio 2013

La Fede ha l’intrinseca capacità di allargare gli orizzonti della Ragione

di Silvio Brachetta

Più di qualsiasi altro documento prodotto dalla Chiesa, c’è il sospetto che la Lettera Enciclica “Lumen Fidei” sia posta dalla Provvidenza per indicare cosa sia la continuità dottrinale del Magistero. Gli autori - due, per esplicita ammissione di Papa Francesco - diversissimi nella personalità, nella prassi pastorale e nella formazione culturale, si ritrovano infatti concordi su tutti gli aspetti fondamentali della prima virtù teologale - la fede.
Joseph Ratzinger (Benedetto XVI), al netto delle contingenze umane e storiche, sente così realizzato il desiderio di vedere pubblicata la terza enciclica dedicata, assieme alle prime due (“Spe Salvi”, sulla speranza e “Caritas in Veritate”, sulla carità e sulle sue implicazioni sociali), all’insegnamento apostolico sulle tre virtù teologali. Eppure la firma in calce è di Papa Francesco, non solo per il proprio contributo alla stesura dell’opera, ma in quanto unico Pontefice regnante, il solo che possa oggi «confermare nella fede» i suoi fratelli. È consuetudine storica e prudenziale che le lettere encicliche siano opera di più redattori e però, allo stesso tempo, che il Pontefice regnante sia l’unica persona in grado di apporre un valido sigillo di autorità apostolica allo scritto, per evidenti motivi legati al suo ministero petrino. La “Lumen Fidei” è intrisa di verità, nel senso che la parola «verità» ricorre settantatre volte in meno di novanta pagine e nel senso che la luce della fede è fortemente messa in relazione alla luce della verità.

I Patriarchi conobbero Dio dopo averlo ascoltato

Nel testo si preferisce il riferimento alla «luce della fede» - da cui il titolo dell’Enciclica - piuttosto che alla «fede» in generale, per rivedere e scavalcare l’equivoco della modernità, secondo cui la fede sarebbe in opposizione alla ragione: mentre alla ragione la modernità associava e associa la sola luce in grado di dissipare le tenebre dell’ignoto, la fede veniva lentamente accomunata al buio, alle tenebre stesse dell’irrazionalità (parte introduttiva, nn. 2, 3). Ci si accorse tuttavia e con sempre maggiore evidenza che la «ragione autonoma», sganciata dalla fede, si limita ad accendere «piccole luci», incapaci di «illuminare abbastanza il futuro». In tal modo «l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande», che è la dimensione della fede, il «dono soprannaturale» concesso da Dio (n. 4).
Il documento dunque chiarisce che la luce vera giunge a noi dal «vero sole», da Gesù Cristo, senza il quale anche la luce della ragione non può sussistere, né servire ad alcunché. Una infatti è la sorgente - Gesù Cristo - della «vera fede» (come insegnava Paolo VI) e uno il canale - il Magistero della Chiesa - attraverso il quale la fede si mantiene integra (n. 1).
Sorgente, canale, acqua che scorre: la fede corre lungo il letto dei secoli ed è sempre comunitaria; coinvolge le persone in modo peculiare, per cui il lungo «racconto dei benefici di Dio», a favore del popolo d’Israele, è trasmesso «di generazione in generazione», in sincronia col «compiersi progressivo» delle promesse divine (capitolo primo, nn. 12, 13). La fede nasce in modo simile all’esperienza di Abramo, come «ascolto» della Parola di Dio. Poi si sviluppa, quando Dio si dimostra fedele; cioè Dio realizza fedelmente le promesse e l’uomo, a seguito di questa fedeltà, crede nel Dio della Promessa (cf. S. Agostino, n. 10). La fede di Abramo, di Mosè e dei Patriarchi era misteriosamente orientata verso il Cristo. Dice anzi S. Agostino, che «i Patriarchi si salvarono per la fede […] in Cristo che stava per venire» nel mondo. Questo perché la «fede cristiana è centrata in Cristo», l’«Amen finale di Dio», ovvero la «roccia» (in ebraico ’emûnah) che sostiene Israele (nn. 10, 15).

La questione della verità è al centro della fede

Così come la fede non è un «fatto privato», nemmeno è un’«opinione soggettiva». Il capitolo secondo dell’Enciclica ritorna estesamente sul malinteso moderno e contemporaneo, secondo cui la fede sarebbe irragionevole. Questo dipende - osserva il Papa - dalla «crisi di verità in cui viviamo». Per questo il Magistero si vede qui impegnato a comprovare che è del tutto «ragionevole avere fede in Lui», in Gesù Cristo, nell’uomo-Dio incarnato, crocifisso, morto e resuscitato, nel «Dio-Amen». Già il profeta Isaia - si legge nell’Enciclica - metteva «la questione della conoscenza della verità al centro della fede» (n. 23). Isaia, dinnanzi al re Acaz, specifica nel merito che la saldezza del Regno d’Israele dipende dalla «comprensione dell’agire di Dio». E la comprensione prevede la ragione. Tutto l’uomo è coinvolto nell’adesione a Dio: sentimento, prudenza, intelligenza, speranza. In particolare, il Pontefice insegna che «l’uomo ha bisogno di conoscenza» e «di verità», al punto che «la fede, senza verità, non salva» (n. 24).
Sbagliava dunque il filosofo Ludwig Wittgenstein nel ritenere che l’amore avesse a che fare con i sentimenti, ma non con la verità. Tutt’altro: c’è un «tipo di conoscenza proprio della fede», per cui essa «conosce in quanto è legata all’amore», poiché «l’amore stesso porta una luce» (nn. 26, 27). Se infatti l’amore non avesse rapporti con la verità (e con la ragione), allora esso sarebbe «soggetto al mutare dei sentimenti», non superando «la prova del tempo». Certamente, quanto all’amore, si tratta di una logica nuova, superiore al ragionare ordinario. Ma il Papa precisa, comunque, che «amore e verità non si possono separare» (n. 27).

Trasmissione della fede e necessità del Magistero

Proprio in virtù del profondo legame tra fede e ragione - sul quale anche Giovanni Paolo II aveva dedicato un’Enciclica (“Fides et Ratio”, 1998) - il cristianesimo primitivo, «nella sua fame di verità», ha trovato «nel mondo greco un partner idoneo per il dialogo» (n. 32). Oggi, più che nel passato, è necessario quindi ricordare agli uomini quanto la fede abbia l’intrinseca capacità di allargare gli orizzonti della ragione, poiché la fede trasporta in se la luce e soddisfa il desiderio umano di «vedere» la realtà.
Dal legame tra fede e ragione è scaturita poi la teologia, che è tale solo quando è condotta in umiltà e non abbandona la fede stessa che l’ha generata. In questo senso, si parla di teologia come «scienza della fede» e, giacché «vive della fede», non è opportuno - dichiara il Santo Padre - che il teologo «consideri il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui come qualcosa di estrinseco» (n. 36).
Similmente alla fiamma, la fede si trasmette «da persona a persona», come l’intera Sacra Scrittura dimostra (capitolo terzo, n. 37). È un’illusione quella secondo la quale si giunge alla fede per via privata ed è quindi «impossibile credere da soli» (n. 39). E su tali assunti l’Enciclica si esprime su tre insegnamenti notevoli per importanza. Il primo ci ricorda la necessità dei Sacramenti, il primo dei quali è il Battesimo, per mezzo del quale ci viene trasmessa la fede. Con il Battesimo non solo rinasciamo a nuova vita e diveniamo figli adottivi di Dio, ma riceviamo pure «una dottrina da professare» (n. 41). In secondo luogo, è ribadita l’importanza di battezzare i bambini (n. 43). Infine, è confermato che la Chiesa e la successione apostolica sono a servizio della «trasmissione integra» della fede, per annunciare «tutta la volontà di Dio»: questa volontà «ci può arrivare integra» per mezzo e «grazie al Magistero della Chiesa» (n. 49).

Dottrina sociale

Alcuni temi dell’insegnamento sociale della Chiesa sono contenuti nel quarto e ultimo capitolo della “Lumen Fidei”. In particolare, si tratta del rapporto tra fede e «bene comune», al quale la fede offre il proprio servizio (tema già introdotto al capitolo secondo). Il bene comune, però, è tale solo quando esprime l’autentico progresso umano, ottenibile a condizione di rispettare la verità sull’uomo. Ad esempio, la forma di un governo è «giusta» nella misura in cui riconosce che l’«autorità viene da Dio», dall’alto e non dal basso (n. 55). O quando si ammette che «solo da Dio […] può trovare fondamenta solide e durature la nostra società» (n. 57). Se dunque non si edifica la città terrena sul modello della città di Dio, i rapporti tra le persone non sono illuminati (n. 57), la giustizia e la pace latitano (n. 51), la famiglia è mortificata (n. 52), la fraternità e l’uguaglianza restano utopie infantili (n. 54).
Se davvero, invece, desiderassimo affrancare lo sviluppo da basse logiche di profitto, dovremmo riconsiderare che «la fede» stessa «è un bene comune» (n. 51).


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