di Silvio Brachetta
Più di qualsiasi altro documento prodotto dalla Chiesa, c’è
il sospetto che la Lettera Enciclica “Lumen Fidei” sia posta dalla Provvidenza
per indicare cosa sia la continuità dottrinale del Magistero. Gli autori - due,
per esplicita ammissione di Papa Francesco - diversissimi nella personalità, nella
prassi pastorale e nella formazione culturale, si ritrovano infatti concordi su
tutti gli aspetti fondamentali della prima virtù teologale - la fede.
Joseph Ratzinger (Benedetto XVI), al netto delle contingenze
umane e storiche, sente così realizzato il desiderio di vedere pubblicata la
terza enciclica dedicata, assieme alle prime due (“Spe Salvi”, sulla speranza e
“Caritas in Veritate”, sulla carità e sulle sue implicazioni sociali),
all’insegnamento apostolico sulle tre virtù teologali. Eppure la firma in calce
è di Papa Francesco, non solo per il proprio contributo alla stesura
dell’opera, ma in quanto unico Pontefice regnante, il solo che possa oggi
«confermare nella fede» i suoi fratelli. È consuetudine storica e prudenziale
che le lettere encicliche siano opera di più redattori e però, allo stesso
tempo, che il Pontefice regnante sia l’unica persona in grado di apporre un
valido sigillo di autorità apostolica allo scritto, per evidenti motivi legati
al suo ministero petrino. La “Lumen Fidei” è intrisa di verità, nel senso che
la parola «verità» ricorre settantatre volte in meno di novanta pagine e nel
senso che la luce della fede è fortemente messa in relazione alla luce della
verità.
I Patriarchi
conobbero Dio dopo averlo ascoltato
Nel testo si preferisce il riferimento alla «luce della
fede» - da cui il titolo dell’Enciclica - piuttosto che alla «fede» in
generale, per rivedere e scavalcare l’equivoco della modernità, secondo cui la
fede sarebbe in opposizione alla ragione: mentre alla ragione la modernità
associava e associa la sola luce in grado di dissipare le tenebre dell’ignoto,
la fede veniva lentamente accomunata al buio, alle tenebre stesse dell’irrazionalità
(parte introduttiva, nn. 2, 3). Ci si accorse tuttavia e con sempre maggiore
evidenza che la «ragione autonoma», sganciata dalla fede, si limita ad
accendere «piccole luci», incapaci di «illuminare abbastanza il futuro». In tal
modo «l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità
grande», che è la dimensione della fede, il «dono soprannaturale» concesso da
Dio (n. 4).
Il documento dunque chiarisce che la luce vera giunge a noi
dal «vero sole», da Gesù Cristo, senza il quale anche la luce della ragione non
può sussistere, né servire ad alcunché. Una infatti è la sorgente - Gesù Cristo
- della «vera fede» (come insegnava Paolo VI) e uno il canale - il Magistero
della Chiesa - attraverso il quale la fede si mantiene integra (n. 1).
Sorgente, canale, acqua che scorre: la fede corre lungo il
letto dei secoli ed è sempre comunitaria; coinvolge le persone in modo
peculiare, per cui il lungo «racconto dei benefici di Dio», a favore del popolo
d’Israele, è trasmesso «di generazione in generazione», in sincronia col
«compiersi progressivo» delle promesse divine (capitolo primo, nn. 12, 13). La
fede nasce in modo simile all’esperienza di Abramo, come «ascolto» della Parola
di Dio. Poi si sviluppa, quando Dio si dimostra fedele; cioè Dio realizza
fedelmente le promesse e l’uomo, a seguito di questa fedeltà, crede nel Dio
della Promessa (cf. S. Agostino, n. 10).
La fede di Abramo, di Mosè e dei Patriarchi era misteriosamente orientata verso
il Cristo. Dice anzi S. Agostino, che «i Patriarchi si salvarono per la fede
[…] in Cristo che stava per venire» nel mondo. Questo perché la «fede cristiana
è centrata in Cristo», l’«Amen finale di Dio», ovvero la «roccia» (in ebraico ’emûnah) che sostiene Israele (nn. 10, 15).
La questione della
verità è al centro della fede
Così come la fede non è un «fatto privato», nemmeno è
un’«opinione soggettiva». Il capitolo secondo dell’Enciclica ritorna
estesamente sul malinteso moderno e contemporaneo, secondo cui la fede sarebbe
irragionevole. Questo dipende - osserva il Papa - dalla «crisi di verità in cui
viviamo». Per questo il Magistero si vede qui impegnato a comprovare che è del
tutto «ragionevole avere fede in Lui», in Gesù Cristo, nell’uomo-Dio incarnato,
crocifisso, morto e resuscitato, nel «Dio-Amen». Già il profeta Isaia - si
legge nell’Enciclica - metteva «la questione della conoscenza della verità al
centro della fede» (n. 23). Isaia, dinnanzi al re Acaz, specifica nel merito
che la saldezza del Regno d’Israele dipende dalla «comprensione dell’agire di
Dio». E la comprensione prevede la ragione. Tutto l’uomo è coinvolto nell’adesione
a Dio: sentimento, prudenza, intelligenza, speranza. In particolare, il
Pontefice insegna che «l’uomo ha bisogno di conoscenza» e «di verità», al punto
che «la fede, senza verità, non salva» (n. 24).
Sbagliava dunque il filosofo Ludwig Wittgenstein nel
ritenere che l’amore avesse a che fare con i sentimenti, ma non con la verità.
Tutt’altro: c’è un «tipo di conoscenza proprio della fede», per cui essa
«conosce in quanto è legata all’amore», poiché «l’amore stesso porta una luce»
(nn. 26, 27). Se infatti l’amore non avesse rapporti con la verità (e con la
ragione), allora esso sarebbe «soggetto al mutare dei sentimenti», non superando
«la prova del tempo». Certamente, quanto all’amore, si tratta di una logica
nuova, superiore al ragionare ordinario. Ma il Papa precisa, comunque, che
«amore e verità non si possono separare» (n. 27).
Trasmissione della
fede e necessità del Magistero
Proprio in virtù del profondo legame tra fede e ragione -
sul quale anche Giovanni Paolo II aveva dedicato un’Enciclica (“Fides et
Ratio”, 1998) - il cristianesimo primitivo, «nella sua fame di verità», ha
trovato «nel mondo greco un partner
idoneo per il dialogo» (n. 32). Oggi, più che nel passato, è necessario quindi
ricordare agli uomini quanto la fede abbia l’intrinseca capacità di allargare
gli orizzonti della ragione, poiché la fede trasporta in se la luce e soddisfa
il desiderio umano di «vedere» la realtà.
Dal legame tra fede e ragione è scaturita poi la teologia,
che è tale solo quando è condotta in umiltà e non abbandona la fede stessa che
l’ha generata. In questo senso, si parla di teologia come «scienza della fede»
e, giacché «vive della fede», non è opportuno - dichiara il Santo Padre - che
il teologo «consideri il Magistero del Papa e dei Vescovi in comunione con lui
come qualcosa di estrinseco» (n. 36).
Similmente alla fiamma, la fede si trasmette «da persona a
persona», come l’intera Sacra Scrittura dimostra (capitolo terzo, n. 37). È
un’illusione quella secondo la quale si giunge alla fede per via privata ed è
quindi «impossibile credere da soli» (n. 39). E su tali assunti l’Enciclica si
esprime su tre insegnamenti notevoli per importanza. Il primo ci ricorda la
necessità dei Sacramenti, il primo dei quali è il Battesimo, per mezzo del
quale ci viene trasmessa la fede. Con il Battesimo non solo rinasciamo a nuova
vita e diveniamo figli adottivi di Dio, ma riceviamo pure «una dottrina da
professare» (n. 41). In secondo luogo, è ribadita l’importanza di battezzare i
bambini (n. 43). Infine, è confermato che la Chiesa e la successione apostolica
sono a servizio della «trasmissione integra» della fede, per annunciare «tutta
la volontà di Dio»: questa volontà «ci può arrivare integra» per mezzo e «grazie
al Magistero della Chiesa» (n. 49).
Dottrina sociale
Alcuni temi dell’insegnamento sociale della Chiesa sono
contenuti nel quarto e ultimo capitolo della “Lumen Fidei”. In particolare, si
tratta del rapporto tra fede e «bene comune», al quale la fede offre il proprio
servizio (tema già introdotto al capitolo secondo). Il bene comune, però, è
tale solo quando esprime l’autentico progresso umano, ottenibile a condizione
di rispettare la verità sull’uomo. Ad esempio, la forma di un governo è
«giusta» nella misura in cui riconosce che l’«autorità viene da Dio», dall’alto
e non dal basso (n. 55). O quando si ammette che «solo da Dio […] può trovare
fondamenta solide e durature la nostra società» (n. 57). Se dunque non si
edifica la città terrena sul modello della città di Dio, i rapporti tra le
persone non sono illuminati (n. 57), la giustizia e la pace latitano (n. 51), la
famiglia è mortificata (n. 52), la fraternità e l’uguaglianza restano utopie
infantili (n. 54).
Se davvero, invece, desiderassimo affrancare lo sviluppo da
basse logiche di profitto, dovremmo riconsiderare che «la fede» stessa «è un
bene comune» (n. 51).
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