lunedì 1 luglio 2013

Giovanni XXIII, visione ed eredità della “Pacem in terris” cinquant’anni dopo

di Giuseppe Brienza

Il 3 giugno di cinquant’anni fa moriva a San Pietro il Beato Giovanni XXIII. Di lui Papa Francesco, in occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo anniversario della sua scomparsa, ha detto: “custodite il suo spirito, imitate la sua santità, approfondite lo studio della sua vita” (Discorso ai pellegrini della Diocesi di Bergamo, Basilica di San Pietro, 3 giugno 2013).

Raccogliendo l’invito del regnante Pontefice ripercorriamo in questo articolo alcuni spunti di quel passaggio fondamentale del Magistero di Papa Roncalli che è l’enciclica “Pacem in terris”, della quale pure nelle scorse settimane è caduto il cinquantesimo anniversario dalla promulgazione, essendo stata pubblicata l'11 aprile 1963. Pensiamo infatti sia utile approfondire lo studio della vita di Giovanni XXIII focalizzandone soprattutto l’insegnamento dottrinale, cercando così di contribuire a superare in parte quell’etichetta riduttiva di “Papa buono”, capace tutt’al più di sorridere a tutti e mandare carezze ai bambini, che non coglie appieno la profondità del suo Magistero sul soglio di Pietro. Si ricordi, infatti, che nei quattro anni e mezzo del suo Pontificato Giovanni XXIII ha scritto ben otto encicliche, delle quali la “Pacem in terris” è l’ultima, pubblicata a meno di due mesi dalla morte.

“Senza altro mezzo per ricondurre la pace, chiamiamo giusta e santa la guerra”.

Il Pontefice come noto si rivolge all’inizio dell’enciclica a «tutti gli uomini di buona volontà», credenti e non credenti, perché la Chiesa deve guardare ad un mondo senza confini, non diviso da muri o cortine. «Cerchino, tutte le nazioni, tutte le comunità politiche, il dialogo, il negoziato», scrive il Papa, convinto che bisogna sempre cercare ciò che unisce, tralasciando ciò che divide. Quando parla della guerra, Giovanni XXIII non costruisce una casistica per determinare se la si può giustificare nel caso in cui le circostanze obbligassero a farla, discostandosi in ciò con la “casistica scolastica” del passato. L’enciclica cambia del tutto il punto di vista, in chiave eminentemente pastorale: parte e parla solo della pace, «anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi» (n. 1).

Qualcuno si è chiesto perché tanto ottimismo nel Papa se il mondo, nel 1963, è ancora ostilmente diviso in due blocchi, le due superpotenze, direttamente e “per interposta persona”, si combattono in Oriente, in Vietnam ed altrove e, solo due anni prima dell’enciclica, era stato eretto il muro di Berlino, che spaccava il mondo a metà tra i Paesi del Patto di Varsavia e quelli della Nato. Conflitti e tensioni sobillate dal marxismo internazionale si diffondevano in Africa e in America latina e, su tutta la popolazione mondiale incombeva il terribile incubo nucleare. Insomma, guardando alla serie numerosa e sanguinosa dei conflitti e di minacce che hanno lacerato il mondo nell’ultimo quarantennio del secolo scorso, l’ottimismo di Giovanni XXIII non appariva certo così “razionale” o politicamente sensato ma, si sa, l’infallibilità dei Papi riguarda solo le materie della Fede e della morale.

Detto questo, sarebbe comunque utile interrogarsi su quanto ci sia di vero nel pacifismo unilaterale attribuito a Giovanni XXIII che, nel suo temperamento e formazione sacerdotale, era invece pienamente convinto della dottrina tradizionale della Chiesa sulla “guerra giusta”, quando naturalmente finalizzata alla legittima difesa. Lo ha ricordato in una recente intervista anche il pronipote, Marco Roncalli che, rispondendo ad una domanda sulla sensibilità per la “questione sociale” di Giovanni XXII, ha dichiarato: «Credo che per rispondere a questa domanda sia sufficiente riportare brevemente quanto scrisse nel 1909 sostenendo lo sciopero di Ranica [piccolo comune della provincia di Bergamo] insieme al suo vescovo: “La pace è la missione del sacerdote. Ma la pace è la tranquillità dell’ordine e ordine vuol dire rispetto della giustizia e dei diritti di ciascuno.

Noi siamo tutt’altro che amici di qualunque sciopero, ci auguriamo che questo sia l’ultimo, perché lo sciopero è la guerra, e la guerra è sempre terribile e dannosa. Ma quando non ci fosse altro mezzo per ricondurre la pace e fosse apertamente violata la giustizia, rivendichiamo il nostro diritto di dire la verità a tutti, di chiamare giusta e santa la guerra, legittimo lo sciopero, e di aiutare chi combatte per ricomporre quell’ordine sociale di cui si avvantaggiano insieme il capitale ed il lavoro”» (cit. in Fabrizio Anselmo, Giovanni XXIII, idee ed eredità cinquant’anni dopo, in Formiche.net, 8-6-2013).

La “Pacem in terris” individua comunque quattro punti cardine per orientare l'umanità sul cammino della pace: la centralità della persona inviolabile nei suoi diritti, ma titolare anche di doveri; il bene comune da perseguire e realizzare ovunque, sulla terra; il fondamento morale della politica; la forza della ragione e il faro illuminante della fede.

L’enciclica che precorre l’irrompere della globalizzazione.

Un elemento storico-politico che Giovanni XXIII vede e presenta in maniera molto lungimirante nella “Pacem in terris”, è quello dell’interdipendenza fra i sistemi socio-produttivi delle nazioni che, per vari fattori, già inizia a presentarsi così da permettere agli Stati di esercitare pressioni su determinate aree utilizzando esclusivamente mezzi economici e finanziari. Ciò permette di innescare e gestire conflitti senza il ricorso sistematico alle armi. Emergono quindi altri tipi di guerra di cui parla il Papa, quella alimentare, quella monetaria, quella dei migranti, eccetera.
Anche in tali nuove dinamiche e contesti Giovanni XXIII richiama l’insegnamento della Chiesa in materia sociale, specialmente sui testi del suo predecessore Pio XII, ma anche su quelli di Leone XIII, insistendo sull’imperativo di rispettare sempre i diritti fondamentali dell’uomo, il bene comune internazionale, l’identità delle minoranze nazionali, il diritto alla salute dei migranti e dei rifugiati politici, etc.

“I cattolici devono impegnarsi nella vita politica”, parola di Giovanni XXIII

Come ultimo spunto, quasi mai richiamato nelle presentazioni ed interpretazioni della “Pacem in terris”, riprendiamo l’invito di Giovanni XXIII ai cattolici ad impegnarsi nella vita pubblica, partecipandovi con competenza e capacità e, soprattutto, componendo l’unità interiore fra fede e azione temporale (nn. 50-57). Per questo hanno bisogno di una solida formazione cristiana, che li orienti anche sulle possibilità e limiti della loro collaborazione con i non cattolici in campo economico e sociopolitico.

Puntualizziamo su questi punti dell’enciclica perché, anche negli approfondimenti apparsi in questi ultimi mesi sulla “Pacem in terris”, non paiono essere richiamati assieme a quelli successivi (nn. 82-85), contenuti nel molto più citato quinto e ultimo capitolo del documento dedicato ai “Richiami pastorali”, nel quale si affronta sotto tale prospettiva pastorale, appunto, l’ambito dei rapporti fra cattolici e non cattolici nell’azione sociale. Ebbene, se quello che viene solitamente considerato il punto culminante di tutta l’enciclica, cioè la distinzione tra le ideologie, «false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo», e i «movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche» (n. 84), andrebbe a mio avviso richiamato il maggiore valore, perché dottrinale, dell’insegnamento prima delineato da Giovanni XXIII sull’“unità di vita” nell’azione pubblica del cattolico.

Questo anche perché sarebbe ora di consegnare alla storia il giudizio “transeunte” attribuito al Papa sul movimento storico dei popoli nei Paesi socialisti o comunisti di allora, che avrebbe potuto distinguersi dall’ideologia marxista, condannabile nei suoi principi, al fine di poter perseguire realizzazioni pratiche comuni con possibili vantaggi reali per il bene comune. Il comunismo, anche nelle sue realizzazioni storiche, sociali ed economiche, come ebbe efficacemente ad affermare fin dal 1985 l’allora cardinal Ratzinger, è stato e rimane «la vergogna del nostro secolo».


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