di Giuseppe Brienza
Il 3 giugno di cinquant’anni fa moriva a San Pietro il Beato
Giovanni XXIII. Di
lui Papa Francesco, in occasione delle celebrazioni per il cinquantesimo
anniversario della sua scomparsa, ha detto: “custodite il suo spirito, imitate
la sua santità, approfondite lo studio della sua vita” (Discorso ai
pellegrini della Diocesi di Bergamo, Basilica di San Pietro, 3 giugno
2013).
Raccogliendo l’invito del regnante Pontefice ripercorriamo
in questo articolo alcuni spunti di quel passaggio fondamentale del Magistero
di Papa Roncalli che è l’enciclica “Pacem in terris”, della quale pure nelle
scorse settimane è caduto il cinquantesimo anniversario dalla promulgazione,
essendo stata pubblicata l'11 aprile 1963. Pensiamo infatti sia utile
approfondire lo studio della vita di Giovanni XXIII focalizzandone soprattutto
l’insegnamento dottrinale, cercando così di contribuire a superare in parte
quell’etichetta riduttiva di “Papa buono”, capace tutt’al più di sorridere a
tutti e mandare carezze ai bambini, che non coglie appieno la profondità del
suo Magistero sul soglio di Pietro. Si ricordi, infatti, che nei quattro anni e
mezzo del suo Pontificato Giovanni XXIII ha scritto ben otto encicliche, delle
quali la “Pacem in terris” è l’ultima, pubblicata a meno di due mesi dalla
morte.
“Senza altro mezzo per ricondurre la pace, chiamiamo giusta e santa la
guerra”.
Il Pontefice come noto si rivolge all’inizio dell’enciclica
a «tutti gli uomini di buona volontà», credenti e non credenti, perché
la Chiesa deve guardare ad un mondo senza confini, non diviso da muri o
cortine. «Cerchino, tutte le nazioni, tutte le comunità politiche, il
dialogo, il negoziato», scrive il Papa, convinto che bisogna sempre cercare
ciò che unisce, tralasciando ciò che divide. Quando parla della guerra,
Giovanni XXIII non costruisce una casistica per determinare se la si può
giustificare nel caso in cui le circostanze obbligassero a farla, discostandosi
in ciò con la “casistica scolastica” del passato. L’enciclica cambia del tutto
il punto di vista, in chiave eminentemente pastorale: parte e parla solo della
pace, «anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi» (n. 1).
Qualcuno si è chiesto perché tanto ottimismo nel Papa se il
mondo, nel 1963, è ancora ostilmente diviso in due blocchi, le due
superpotenze, direttamente e “per interposta persona”, si combattono in
Oriente, in Vietnam ed altrove e, solo due anni prima dell’enciclica, era stato
eretto il muro di Berlino, che spaccava il mondo a metà tra i Paesi del Patto
di Varsavia e quelli della Nato. Conflitti e tensioni sobillate dal marxismo
internazionale si diffondevano in Africa e in America latina e, su tutta la
popolazione mondiale incombeva il terribile incubo nucleare. Insomma, guardando
alla serie numerosa e sanguinosa dei conflitti e di minacce che hanno lacerato
il mondo nell’ultimo quarantennio del secolo scorso, l’ottimismo di Giovanni
XXIII non appariva certo così “razionale” o politicamente sensato ma, si sa,
l’infallibilità dei Papi riguarda solo le materie della Fede e della morale.
Detto questo, sarebbe comunque utile interrogarsi su quanto
ci sia di vero nel pacifismo unilaterale attribuito a Giovanni XXIII
che, nel suo temperamento e formazione sacerdotale, era invece pienamente
convinto della dottrina tradizionale della Chiesa sulla “guerra giusta”, quando
naturalmente finalizzata alla legittima difesa. Lo ha ricordato in una recente
intervista anche il pronipote, Marco Roncalli che, rispondendo ad una domanda
sulla sensibilità per la “questione sociale” di Giovanni XXII, ha dichiarato: «Credo
che per rispondere a questa domanda sia sufficiente riportare brevemente quanto
scrisse nel 1909 sostenendo lo sciopero di Ranica [piccolo comune della
provincia di Bergamo] insieme al suo vescovo: “La pace è la missione del
sacerdote. Ma la pace è la tranquillità dell’ordine e ordine vuol dire rispetto
della giustizia e dei diritti di ciascuno.
Noi siamo tutt’altro che amici di qualunque sciopero, ci
auguriamo che questo sia l’ultimo, perché lo sciopero è la guerra, e la guerra
è sempre terribile e dannosa. Ma quando non ci fosse altro mezzo per ricondurre
la pace e fosse apertamente violata la giustizia, rivendichiamo il nostro
diritto di dire la verità a tutti, di chiamare giusta e santa la guerra,
legittimo lo sciopero, e di aiutare chi combatte per ricomporre quell’ordine
sociale di cui si avvantaggiano insieme il capitale ed il lavoro”» (cit. in
Fabrizio Anselmo, Giovanni XXIII, idee ed eredità cinquant’anni dopo, in
Formiche.net, 8-6-2013).
La “Pacem in terris” individua comunque quattro punti
cardine per orientare l'umanità sul cammino della pace: la centralità della persona
inviolabile nei suoi diritti, ma titolare anche di doveri; il bene comune da
perseguire e realizzare ovunque, sulla terra; il fondamento morale della
politica; la forza della ragione e il faro illuminante della fede.
L’enciclica che precorre l’irrompere della globalizzazione.
Un elemento storico-politico che Giovanni XXIII vede e
presenta in maniera molto lungimirante nella “Pacem in terris”, è quello
dell’interdipendenza fra i sistemi socio-produttivi delle nazioni che, per vari
fattori, già inizia a presentarsi così da permettere agli Stati di esercitare
pressioni su determinate aree utilizzando esclusivamente mezzi economici e
finanziari. Ciò permette di innescare e gestire conflitti senza il ricorso
sistematico alle armi. Emergono quindi altri tipi di guerra di cui parla il
Papa, quella alimentare, quella monetaria, quella dei migranti, eccetera.
Anche in tali nuove dinamiche e contesti Giovanni XXIII
richiama l’insegnamento della Chiesa in materia sociale, specialmente sui testi
del suo predecessore Pio XII, ma anche su quelli di Leone XIII, insistendo
sull’imperativo di rispettare sempre i diritti fondamentali dell’uomo, il bene
comune internazionale, l’identità delle minoranze nazionali, il diritto alla
salute dei migranti e dei rifugiati politici, etc.
“I cattolici devono impegnarsi nella vita politica”, parola di Giovanni XXIII
Come ultimo spunto, quasi mai richiamato nelle presentazioni
ed interpretazioni della “Pacem in terris”, riprendiamo l’invito di Giovanni
XXIII ai cattolici ad impegnarsi nella vita pubblica, partecipandovi con
competenza e capacità e, soprattutto, componendo l’unità interiore fra fede e
azione temporale (nn. 50-57). Per questo hanno bisogno di una solida formazione
cristiana, che li orienti anche sulle possibilità e limiti della loro
collaborazione con i non cattolici in campo economico e sociopolitico.
Puntualizziamo su questi punti dell’enciclica perché, anche
negli approfondimenti apparsi in questi ultimi mesi sulla “Pacem in terris”,
non paiono essere richiamati assieme a quelli successivi (nn. 82-85), contenuti
nel molto più citato quinto e ultimo capitolo del documento dedicato ai
“Richiami pastorali”, nel quale si affronta sotto tale prospettiva pastorale,
appunto, l’ambito dei rapporti fra cattolici e non cattolici nell’azione
sociale. Ebbene, se quello che viene solitamente considerato il punto culminante
di tutta l’enciclica, cioè la distinzione tra le ideologie, «false dottrine
filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo»,
e i «movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche»
(n. 84), andrebbe a mio avviso richiamato il maggiore valore, perché
dottrinale, dell’insegnamento prima delineato da Giovanni XXIII sull’“unità di
vita” nell’azione pubblica del cattolico.
Questo anche perché sarebbe ora di consegnare alla storia il
giudizio “transeunte” attribuito al Papa sul movimento storico dei popoli nei
Paesi socialisti o comunisti di allora, che avrebbe potuto distinguersi
dall’ideologia marxista, condannabile nei suoi principi, al fine di poter
perseguire realizzazioni pratiche comuni con possibili vantaggi reali per il
bene comune. Il comunismo, anche nelle sue realizzazioni storiche, sociali ed
economiche, come ebbe efficacemente ad affermare fin dal 1985 l’allora cardinal
Ratzinger, è stato e rimane «la vergogna del nostro secolo».
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