di Marcello Veneziani
Cinquecento anni fa nel cuore
dell'Europa nacquero due gemelli separati della nascita. Uno voleva conquistare
il potere, l'altro voleva conquistare l'anima del mondo. Era il 1513 quando
vennero al mondo il Principe di Niccolò Machiavelli e il Cavaliere di Albrecht
Dürer.
Il primo conquistò il mondo,
pur senza conquistare l'Italia che pur sognava di unire. Il secondo partì alla
conquista di se stesso, sfidando la Morte e il Diavolo. Ambedue attraversarono
l'inferno e aprirono il destino della modernità. Il Principe diventò il
paradigma del Potere e celebrò nell'opera di Machiavelli l'autonomia sovrana
della politica. Il Cavaliere diventò la sua ombra vagante e celebrò
nell'incisione di Dürer la solitudine eroica e disperata. Le due figure furono
il riassunto epico e tragico della condizione umana che ha perso il cielo.
Il primo insegnò l'arte di
vincere, il secondo insegnò l'arte di perdere. Del Principe si parla ormai da
cinque secoli; del suo gemello solitario, invece, si ammirò il ritratto, il suo
incedere ardito e il suo sorriso ironico ma senza spingersi oltre, a scrutare
nell'animo del Cavaliere. Chi lo fece, venne molto dopo. Fu uno scrittore
francese nato a Carcassonne nel sud della Francia, dove visse estati torride e
inverni di vento violento, poi partì per Parigi «con una valigetta in legno e
l'accento della mia terra», studiò filosofia «che spero di aver dimenticata» e
lavorò da giornalista e scrittore con registi, ballerini, coreografi, attori e
toreri. Morì il 18 giugno del 1993, giusto vent'anni fa. Si chiamava Jean Cau,
era stato segretario personale di Sartre per dieci anni, «facevo parte dei
reparti d'assalto dell'intelligenza di sinistra», insignito da giovane del
premio Goncourt per il suo libro La pietà di Dio (tradotto nel 1961 da Mondadori).
Ma un giorno, tornando dalla
guerra d'Algeria, si convertì all'onore e alla tradizione. Combatté contro la
decadenza della Francia e dell'Europa, schiacciata tra l'americanizzazione e il
comunismo sovietico, avversò il '68. Gli estremi del degrado erano per lui la
gioventù drogata e la tecnocrazia al potere. Da allora Jean Cau diventò quel
Cavaliere solitario e in disparte, dannato all'inferno e alla morte civile.
Scrisse opere taglienti, come
Il Papa è morto e Le Scuderie dell'Occidente, pubblicate in Italia da Volpe, e
celebrò la corrida in un celebre libro, Toro (edito in Italia da Longanesi)
dedicato ai suoi amici matadores, banderilleros e picadores. Non mancò di
scrivere un ardito elogio del Che (Passione per Che Guevara, Vallecchi, 2004),
che esaltò come un Comandante intrepido, un artista, insomma un Cavaliere che
sfida la morte e il diavolo. Per lui, il Che andò a cercar la bella morte: «Ci
sono mille modi di suicidarsi. Balzac scelse il caffè, Verlaine l'assenzio,
Rimbaud l'Etiopia, l'Occidente la democrazia, e Guevara la giungla». Cau lasciò
uno splendido testamento ideale con una prefazione di Alain de Benoist, che
uscì postumo in Italia col titolo I popoli, la decadenza, gli dei (ed.
Settecolori).
Ma l'opera che riassume la
sua visione del mondo fu proprio quella dedicata all'incisione di Durer, Il
Cavaliere la morte e il diavolo (1977), che dopo Volpe ripubblicai alla metà
degli anni ottanta con la prefazione di un grande artista e incisore affine a
lui, Sigfrido Bartolini. In questi giorni il sito Barbadillo si è ricordato di
Cau proponendo on line uno scritto sul Cavaliere di Dürer, a lui ispirato, di
Dominique Venner, lo scrittore suicida un mese fa in Notre-Dame. Il Cavalieredi
Dürer, riletto da Cau, costituì un breviario del pessimismo eroico che animò la
gioventù di destra degli anni settanta. Era la cultura aristocratica della
nobile sconfitta, eroica e disperata, che si nutriva dell'Autarca di Evola e
dell'Anarca di Jünger, il ribelle che passa al bosco. Oggi il suo destriero per
attraversare la foresta sarebbe il web.
Ma chi era il Cavaliere di
Dürer nella visione di Cau? Era «un mostro di ferro, di carne e di spirito»,
che avanza con la sua armatura e il suo destriero in un paesaggio di rovine,
spavaldo e incurante dei pericoli. «Stamattina, al nostro appuntamento
all'alba, il mio cavaliere mi ha detto che poco importa la meta e la ragione
del suo viaggio, purché una cupa ostinazione gli indurisca il cuore». Mai
fermarsi, chi si ferma nella foresta è perduto. L'arte per lui è il canto per
esorcizzare la morte. Egli sa che più si ama la vita più si sfida la morte.
Ogni grandezza, spiega Cau, è costretta ad avere la morte per compagna. Il suo
portamento naturale si chiama nobiltà. Nulla è più bello dell'uomo quando
avanza, osa, rischia; ma è un avanzare verso il Nulla, avverte Cau. Nichilismo
eroico e solitario. Anche se poi Cau dice che il Cavaliere ha appuntamento con
Dio, contro il Diavolo. Coltiva l'aspro gusto sulle labbra di morire per una
causa vinta. Il Cavaliere, per Cau, conosce la strana tristezza dei vittoriosi
e la melanconia che invade il soldato dopo la vittoria. La stessa tristezza che
segue l'amore post coitum. Ciò che vale nella vita non è la vita stessa,
sostiene Cau, ma ciò che se ne fa; l'Occidente sta perdendo la sua vita per
volerla salvare.
Fedele alla sua solitudine,
Cau come i sessantottini che detestava, rifiutò il matrimonio e i figli,
ritenendo se stesso ancora bambino, proprio come loro. Coltivò una destra come
stile, «strettamente personale... è la mia pelle, i miei gesti, il mio
respiro». Ammise che la sua morale assoluta, in purezza, finiva per esser vuota
perché sconnessa dal mondo. Non si è felici quando non si ama la propria epoca,
scrive Cau, e «io ascoltavo il vento dei passati perduti». Ma la sua solitudine
pur eroica era figlia di quell'individualismo che è l'essenza della modernità
occidentale. Il suo Cavaliere resta il volto tragico dell'umanità moderna che
ha perduto il cielo e la terra e si barrica nell'individualismo eroico.
A vent'anni me ne innamorai,
ma subito dopo me ne allontanai per tornare alla realtà e al mondo con le sue
imperfezioni e ritrovare la gioia di vivere senza dimenticare la nobiltà
estetica e spirituale del suo tragitto. L'individualismo eroico rischia di
mutare in astio e rancore, come accadde a tante destre «strettamente
personali». Scrissi allora, per esorcizzare il suo fascino, che «era tempo di
tornare nel frangente a rischiare la propria nobiltà nella polverosa miseria
dei giorni». Distinguevo l'arte, che è da solisti, dalla storia, che è corale.
Il Cavaliere di Dürer-Cau resta inciso nel cuore, ma non indica la via. Esalta
l'estetica, traccia uno stile ma non può ispirare la vita, la storia e il
pensiero. Così salvai i vent'anni dal suo forte richiamo, ma non misi a riparo
i cinquanta.
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