di Luigi Negri,
Arcivescovo di Ferrara e Comacchio
C’è una sensazione che avverto fortissima in questo periodo,
che peraltro coincide con i miei primi cento giorni nella diocesi di
Ferrara-Comacchio.
Da una parte c’è una incredibile attesa di una vera
autorevolezza cristiana; attesa anche dai laici, perché non sono pochi coloro
che, nello sconcerto attuale di una società evidentemente così empia, sentono
il bisogno di una prossimità, il bisogno di essere accolti nelle istanze
profonde della vita. E’ quella sensibilità che monsignor Giussani chiamava “il
cammino al vero”, “la ricerca del volto umano”.
L’esigenza di questo cammino al vero è fortissima. E il
rinnovarsi di una esigenza di verità e di bellezza, di bene e di giustizia
supera quotidianamente, anche se in modo molto debole, questo grigiore del
consumismo, del relativismo etico, dell’opinionalismo, di questo
massmediaticamente corretto che inquina la vita della nostra società, dalle
famiglie fino alle realtà sociali più impegnate o più impegnative.
C’è quindi una grande disponibilità del mondo, dell’uomo
verso Cristo, verso la Chiesa.
Dall’altra parte però quello che mi colpisce dolorosamente,
quasi fisicamente, è l’incapacità di essere all’altezza di questa domanda: non
della Chiesa come istituzione ma della cristianità intesa come esperienza viva
di Chiesa nel mondo.
Mi trovo spesso a pensare ai 37 anni contrassegnati dal
grande Magistero, della grande testimonianza di Giovanni Paolo II, da questo
straordinario riposizionamento della Chiesa di fronte al cuore dell’uomo, che
ha riaperto il dialogo tra Cristo e il cuore dell’uomo. A questi 37 anni di un
Magistero straordinario e di una capacità di dialogo con gli uomini ben prima e
ben oltre visioni ideologiche e religiose; e agli anni non meno intensi e
suggestivi, appassionati, di Benedetto XVI, nel suo infaticabile riproporre il
cristianesimo come evento di compimento della ragione, dell’umanità; con
quell’implacabile, dolcissimo insegnamento sul recupero della ragione, intesa
in senso largo, compiuto, come apertura al mistero e non come affermazione
delle propria capacità di organizzare scientificamente le conoscenze.
Ebbene, dopo tutto questo è come se la cristianità italiana
sia quasi inebetita. Inebetita.
Così ora si profilano due sconfitte lancinanti per questa
cristianità, a cui non avrei mai pensato di dover assistere, e che riempiono la
mia vita di vergogna, perché è per affermare la verità della Chiesa e della sua
missione contro queste tentazioni, che ho dedicato la mia vita di cristiano, di
prete, adesso di vescovo, di ricercatore.
La prima sconfitta è incredibile ma si è ormai compiuta. Dopo
che con Giovanni Paolo II, in perfetta linea con la tradizione magisteriale
della Chiesa, si era affermata la fede come condizione di una autentica
conoscenza della realtà, della storia e della società; dopo che si era compreso
che la fede diventa cultura, per cui - come ha detto tantissime volte – “se la
fede non diviene cultura non è stata realmente accolta, pienamente vissuta,
umanamente ripensata”; dopo tutto questo sta ridiventando maggioranza quel
dualismo fede e cultura per cui la cultura rappresenta una realtà autonoma
dalla fede. Così che con la cultura nella migliore delle ipotesi si può
accennare a qualche momento di “dialogo” o di “cortile”, espressioni che una
adeguata razionalità e una adeguata consapevolezza di fede fanno fatica a
definire nella loro obiettività.
Allora la fede si aggiunge alla cultura, ne rappresenta una
introduzione di carattere spirituale, ne corregge o ne correggerebbe le
conseguenze negative sul piano etico, aspetto questo assolutamente evidente
quando si parla del rapporto fede-economia o fede-politica.
Che fine ha fatto la grande e spettacolare enciclica Caritas in Veritate, che invece
affermava la pertinenza della fede nei confronti delle stesse strutture, delle
stesse dinamiche economiche? Ogni tanto la si vede citare, ma giusto il titolo.
Anche i cosiddetti economisti cristiani hanno ripiegato su questa posizione,
sono tornati velocemente a quella eticità dell’economia, che nell’apparente
semplicità dice tutto perché non dice niente. L’economista cristiano e poi il
politico cristiano in questa visione dovrebbero così temperare i rigori del
capitalismo selvaggio.
La fede invece forma la realtà; “la fede abilita noi
credenti a interpretare, meglio di qualsiasi altro, le istanze più profonde
dell’essere umano e ad indicarne con serena e tranquilla sicurezza le vie e i
mezzi di un pieno appagamento”, diceva Giovanni Paolo II l’8 dicembre 1978 a
docenti e studenti dell’Università Cattolica, tra cui c’ero anch’io, e lo posso
dire con un orgoglio che non si è mai andato stemperando. E ho percepito la
straordinaria novità di quell’incontro, troppo velocemente archiviato anche
nell’ambito dell’Università Cattolica cui pure era stato riferito in maniera
privilegiata e preferenziale.
Non meno penosa dell’insorgere del dualismo fede-cultura, è
l’altra grande sconfitta: l’insignificanza della presenza cattolica nell’agone
sociale e politico. Oggi il voto dei cattolici è assolutamente insignificante
nel panorama della vita italiana, come ebbe a dire giustamente il mio amico
Alfredo Mantovano in un suo lucido intervento qualche mese fa.
Chi sono i cattolici che militano nella varietà di
espressioni socio-politiche che esistono? Gente che personalmente la domenica
mattina andrà a messa, ci si augura; che è a posto dal punto di vista di una
certa devozione alla vita morale, a meno che non si tratti di vita matrimoniale
perché lì allora si aprono centinaia e centinaia di eccezioni, più o meno
clamorose o più o meno nascoste ma assolutamente maggioritarie anche tra i
cattolici in politica. Gente che personalmente e individualmente può avere anche
una certa pratica di pietà.
Ma ciò che caratterizza l’intervento di chi appartiene alla
fede, la forma dell’intervento è la Dottrina Sociale della Chiesa. E il cuore
della Dottrina Sociale della Chiesa sono i princìpi non negoziabili. Questi
dettano le analisi di carattere socio-politico, e questi indicano anche le
linee di un’azione che almeno dal punto di vista della cultura dovrebbero avere
una certa unità. Dovrebbe esserci una certa unità dei cattolici in politica che
poi può preludere a differenze dettate da valutazioni particolari e speriamo
non soltanto da interessi particolari.
Le ultime elezioni invece sono state la sagra
dell’individualismo e dell’opinionalismo. I cattolici hanno votato per tutti e
a vantaggio di tutti, senza chiedersi se questo loro voto avrebbe poi
significato eleggere delle presenze che avrebbero tutelato non gli interessi
della Chiesa, ma gli interessi della ragione e della fede, cioè dell’umanità.
Tutto era avviato, la Provvidenza aveva avviato tutto perché
ci fosse un risorgere della presenza cristiana, come presenza di popolo, come
presenza culturale, sociale, politica. Che ne è ora della grande sfida della
nuova evangelizzazione che abbiamo raccolto dal primo insegnamento di Giovanni
Paolo II?
Tornano i dualismi che si collegano ad alcuni nomi nefasti
per la cristianità italiana, passati o presenti, che il pudore e la carità di
patria mi impedisce di citare.
Forse i magisteri paralleli stanno compiendo l’ultima e non
meno grave delle loro vittorie. Ma la vittoria dell’individualismo culturale e
della frammentazione della presenza politica dei cattolici, senza la custodia e
la promozione dei princìpi non negoziabili, non è soltanto la sconfitta dei
cristiani, come diceva Marcello Pera nella prefazione al mio volumetto “Per un
umanesimo del Terzo Millennio”: “Qui se si perde, si perde tutti; se si vince
si vince tutti”.
Per adesso, salvo che la Provvidenza riscompigli le carte, possiamo
veramente dire che stiamo perdendo tutti.
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