L’ultimo libro dello
scrittore americano è talmente brutto da essere divertente. Luoghi comuni su
Firenze, complottismi di seconda mano e parecchio trash
di Edoardo Rialti
Molti critici sono ingiusti verso Dan Brown; lo sappiamo già
che le avventure del suo professor Langdon non piaceranno loro e, come notava
C. S. Lewis “è molto pericoloso scrivere riguardo a qualcosa che odi. L’odio
annulla tutte le distinzioni. Molte recensioni sono inutili perché, mentre si
propongono di condannare il libro, rivelano solo l’avversione del recensore per
il genere cui esso appartiene”. E coloro che già non potevano soffrire di
vedersi raccontare che Gesù se la intendeva sotto sotto con la Maddalena, e che
i conclavi papali sono degli show-down western per regolare vecchi conti e odi
sopiti, difficilmente apprezzeranno il nuovo thriller “Inferno” (presentato
ieri a Firenze, dove è ambientato, alla Repubblica delle idee con Vittorio
Zucconi), dove il professor Langdon deve decrittare una serie di indizi che
collegano la “Commedia” a un scienziato svizzero misteriosamente suicidatosi a
Firenze e dove tutti, presunti buoni e presunti cattivi, citano Malthus e
l’eccesso di popolazione mondiale ogni tre per due, con la differenza che i
cattivi strillano: “Siamo troppi!”, e i buoni: “Beh sì ma via, non ancora così
troppi”.
Anche i raffinati sappiamo già che storceranno il naso: “Uh,
che volgare e che banale finire con la parola stelle, proprio come Dante!”. Essere
in disaccordo non è garanzia di una critica vera del libro, perché i thriller
popolari che mescolano occulto, religione e azione, ci hanno dato, ieri come
oggi, cocktail davvero gustosi, a patto di premere l’acceleratore fino in
fondo. Questa è quindi la recensione di chi, all’idea di un giallo sull’Inferno
di Dante, si pregusta già quale torbido adattamento dei gironi. Cannibali?
Piogge di fuoco? Ghiotti politici affogati nella mota? Magari Dante era un
musulmano, o un cataro, o in contatto con gli alieni e Beatrice il nome in
codice di un pianeta lontano? E Virgilio il maestro di un ordine segreto che va
dai lama tibetani a Shakespeare? Magari Dante era stato assassinato da quel
bacchettone di Petrarca e Laura era la vera cattiva? Fantastico.
Ma se c’è qualcosa che manca all’Inferno di Brown sono
proprio le fiamme. Sesso e chiesa? I “Borgia” se la cavano meglio, facendoti
pure invidiare quegli splendidi, torbidi abiti damascati, scuri come il
peccato. I preti sessuofobi-repressi? Uno si strugge di nostalgia per la
grottesca sarabanda di “Notre-Dame” di Hugo e il suo arcidiacono Frollo, e
Philip Pullman nella sua trilogia atea “Queste oscure materie” aveva toccato il
sublime: un gruppo segreto di sacerdoti che fanno penitenza preventiva per
disporre di una “riserva di assoluzione” per compiere dei delitti su
commissione vescovile. L’idea di digiunare il giorno prima per poi dare dello
stronzo al capo ha del geniale.
Qui invece non occorre neppure più dimostrare che la chiesa
cattolica falsifichi la storia o tema la scienza; ci si limita alle battutine,
tanto siamo tutti adulti e vaccinati:“Chi meglio di un gruppetto di ottuagenari
celibi può spiegare al mondo come si fa sesso?”. Uno rimpiange di cuore la
micidiale commistione di tenerezza materna e ferocia inflessibile di fanatiche
come la madre di “Carrie” o quella signora Carmody che, sempre in un racconto
di Stephen King, propone a suon di citazioni bibliche a un gruppetto di persone
prigioniere in un supermarket, di sacrificare i bambini come Abramo. Lo stesso
Dan Brown ci aveva regalato il prete albino omicida del suo “Codice da Vinci”,
e come Virgilio a Dante uno vorrebbe gridargli “Ricorditi, ricorditi!”. Certo,
c’è ancora spazio per il sermone a favore dei cristiani moderni che lottano
contro “le imposizioni del Vaticano” che terrorizzano gli africani: “L’unica
istituzione in grado di conferire la santità non era riuscita a cogliere la
natura profondamente cristiana del loro impegno”. Ora, detto da un gaio pagano
come chi scrive, ma ci può essere un’immagine più triste di quella del “preservativo
santo”? Ma chi vorrebbe trovare dentro la confezione pure una bolla papale?
La battaglia in questo nuovo romanzo è tutta e solo tra
scienziati e avrà come fulcro un morbo che aumenterà la sterilità, una
Coca-Cola light a imitazione buonista di quella Peste Nera che, ci viene detto,
riducendo di un terzo la popolazione europea “permise” il Rinascimento. Come se
una manciata di intellettuali italiani dovesse attendere la morte di milioni di
contadini analfabeti per balzar su come tulipani al sole, e mettersi tutti a
ballare estatici gridando: Rinascimento! e anche lo scontro è per modo di dire,
visto che sono tutti d’accordo, buoni e cattivi, e che c’è solo una lieve
divergenza se imporre questo invisibile preservativo cosmico o no. Quando poi
il virus si diffonderà i buoni dell’Organizzazione mondiale della sanità
faranno spallucce, come a dire: “Vabbè, visto che ci siamo…”. Ed è ovvio che in
un romanzo così plumbeo sulla sessualità di scene erotiche – che richiedono
maestria come qualunque altra situazione umana, non ce ne siano praticamente
affatto.
L’ultima eco ecclesiastica aleggia sull’inspiegabile
latineggiare dell’associazione di servizi deviati “Consortium” – nome che
almeno in Italia terrorizza assai poco ed evoca più formaggi e salumi che altro
– col suo barcone supertecnologico chiamato sottilmente “Mendacium”.
Perfetto per attraccare con discrezione, no? Il pirata
Barbanera avrebbe scelto il nome del proprio galeone in maniera più sottile. Il
capo dell’organizzazione ha poi un nome che – sempre in Italia – non sempre
evoca una micidiale efficienza: il Rettore. Quando poi a pagina 22 compare una
donna in motocicletta e “tuta di pelle nera”, che avanza per le strade del
centro di Firenze “con l’intensità di una pantera che punta la preda”, uno può
solo dirsi: “Vero, Nolan aveva fatto finire Catwoman a Firenze, questa sì che è
una finezza cinefila”, oppure scoppiare a ridere, mentre la tizia “dai capelli
cortissimi” – è ovvio – avanza irradiando luci rosse e blu: “Sono una killer in
incognito”. Ma i livelli di citazione in questo personaggio forse sono pure più
complessi e stratificati: quando l’assassina parcheggia la moto vicino a
Palazzo Vecchio e si mette a osservare le statue della Loggia dei Lanzi senza
“fare a meno di notare che tutte sembravano manifestare variazioni di uno
stesso tema: l’esibizione violenta del dominio maschile sulle donne”, uno si
corregge: “Uomini che odiano le donne, ma certo!”.
E così veniamo allo stile, affatto secondario, perché niente
chiede più realismo dell’immaginario. Puoi esagerare quanto vuoi, ma la
finzione narrativa è una brutta bestia: o la tieni ben salda oppure il rischio
di strappare una risatina è facile; il comico deve essere voluto, per non
rischiare il ridicolo, e non c’è niente di più fastidioso che leggere un libro
che non ti faccia contento di stare al gioco. E per chi scrive la sospensione
dell’incredulità è crollata a pagina 13: scopro, da fiorentino, che a Firenze
al mattino ci svegliamo e facciamo colazione con “l’alito che sa di lampredotto
e olive al forno”. Per una decina di pagine il protagonista vaga per il centro
città in cerca di una copia della “Commedia”, permettendo all’autore di
trapelare fin troppo nella sua snobistica e pacchiana stilettata da turista
sugli orari dei commercianti: “Molti negozianti preferivano spostare il giorno
di riposo cristiano dalla domenica al lunedì, per evitare che incidesse troppo
negativamente sul bilancio della loro attività”. Per una copia del testo
dantesco dovranno chiedere il cellulare a una signora anziana, mentre il
lettore fiorentino sta urlando loro: “Le librerie! Ci sono venti librerie in
zona aperte il lunedì mattina!”. E a urlare in lui non sono solo Zola o
Flaubert, ma anche Grisham e Ken Follet. Ma eccoci finalmente scoprire una
terribile conseguenza del leggere Dante: “A seguito della diffusione del poema,
la chiesa cattolica aveva assistito a una gigantesca impennata del numero dei
fedeli grazie ai peccatori terrorizzati”. La domanda sorge spontanea: gli
ottuagenari celibi del medioevo, i cardinali, avevano dei grafici nel Medioevo
per registrare i trend di conversioni? E conversioni da cosa? Ma c’è anche una
dolce, sfumatura romantica, un segreto tormento, visto che Dante ha vissuto
sempre ed è pure morto con il viso arcigno delle statue, dei quadri e della
maschera funebri non per l’esilio, lo stato dell’Impero, o la semplice
compostezza degli ultimi istanti: “Penso che la sua espressione abbia più a che
fare con una donna”.
Il muro sprezzante dell’arcigno viso del poeta si scioglie
sotto un’indagine così fine,così penetrante, rivelando una tensione mascellare
che adombra una mancata elaborazione del lutto per Beatrice, cui aveva dedicato
dei “versi adulatori” – forse per ottenere una raccomandazione – ma che poi era
tristemente “andata in sposa a un altro”. Dopo scopriamo che, ah già, era pure
morta.
I richiami colti ai codici segreti e saperi iniziatici o li
snoccioli con la snobistica indifferenza di Eco e Battiato – chi legge o
ascolta può e deve borbottare “eh?” – oppure rischi di fare, male, quello che
il fumetto “Martin Mystere” fa gustosamente bene: un eroe-professore che mentre
schiva le pallottole fornisce spiegazioni da guida turistica munita di
ombrellino. Che il professor Langdon debba fornire una spiegazione per ogni
sasso della città toscana alla sua comprimaria, che a Firenze ci vive – “Stiamo
andando nella casa di Dante?” domanda lei – è un altro elemento che rende
davvero poco realistico il tutto. Al riguardo va detto che tuttavia anche il
Dan Brown di “Inferno” conosce qualche momento d’oro, come l’agente che
tranquillizza il protagonista sul colpo che gli ha inferto: “Ci siamo serviti
di una delle tecniche shime waza di judo”, e manca poco offra il bigliettino
della palestra. Anche gli stereotipi possono funzionare, e un altro grande
momento è quello in cui il protagonista si deve nascondere in Palazzo Vecchio e
l’amica lo rassicura: “Sono impiegati pubblici. Non gliene importa niente di
noi” (non ditelo a Matteo Renzi, cha in Palazzo Vecchio ci lavora e proprio due
giorni fa ha ringraziato Dan Brown su Twitter per il set fiorentino, nelle
stesse ore in cui lo scrittore diceva che il sindaco “potrebbe rappresentare il
futuro dell’Italia”).
Poi distrae un addetto “parlandogli freneticamente in
italiano, dicendo delle cose sulle sovvenzioni alle imprese agricole e
gesticolando animatamente”. La stessa finezza le aveva permesso di ricacciare
un intero squadrone d’assalto, drappeggiandosi “la giacca nera sul capo e sulle
spalle, come una vecchia con lo scialle”.
Mancano solo le coppole, i mandolini e i vecchi coi fiaschi
appoggiati per terra; la Julia Roberts di “Mangia, prega, ama” potrebbe fare
una comparsata sullo sfondo. Ma la triste sensazione è che si tratti di picchi
involontari. Che una guardia non abbia una gran voglia di tenere gli occhi
fuori del gabbiotto, e quindi tenga incollati gli occhi su una “replica di una
partita Fiorentina-Juventus” al lunedì mattina, fa quasi battere le mani per la
bilanciata compostezza dell’inciso. Già che c’era poteva ascoltare Bocelli, e
piangere: “Mamma, oh mamma mia”. Giunge tuttavia un momento nel quale tutte le
promesse narrative convergono, lasciando intravedere lo splendido,
l’irraggiungibile; tanto da chiedersi: possiamo azzardarci a sperare, davvero?
Per una manciata di pagine il lettore è portato a credere che il cattivo sia
ispirato da un… Beatricio, con tanto di accorata dedica in un video
terroristico. Sarebbe stato meraviglioso, ma il volo immaginativo, proprio come
Icaro, precipita nuovamente nella disillusione.
A un certo punto viene accennato che il protagonista, l’accademico
Langdon si era recato già da giovane nella chiesa dove è sepolta Beatrice “per
lasciare un bigliettino in cui implorava la Musa di Dante non di aiutarlo a
trovare il vero amore, bensì di concedergli la stessa ispirazione che aveva
permesso a Dante di scrivere il suo immenso poema”. Se anche Dan Brown l’ha
fatto, allora ha sbagliato richiesta in pieno: poteva limitarsi a chiedere di
scrivere un romanzo molto peggiore, ossia molto migliore. Se l’ispirazione è
stata concessa qui non si scende al di sotto degli ignavi involontari.
C’è una sola possibilità di riscatto. Che Ron Howard, già
regista del “Codice da Vinci” e “Angeli e Demoni”, dia la parte del cattivo che
sa “Dante a mente” a Benigni, che tuoni in toscano marcato “E lo diceva
i’Malthusse: e siam troppi, troppi!”. Non tutto è perduto.
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