Bernard-Henri Lévy,
ovvero l’indignato al potere. Un furbo sempre dalla parte giusta (un po’ come
il suo maestro Sartre)
di Giulio Meotti
Chissà cosa ne penserebbe Raymond Aron, che definì
Bernard-Henri Lévy “un uomo perduto per la verità”. Non poteva scegliere tema
più impalpabile e glamour Lévy per la grande esposizione “Les Aventures de la
Vérité” della Fondation Maeght di Saint-Paul de Vence. Il New York Times lo
definisce “uno degli eventi culturali del 2013”. Il direttore della Fondation
Maeght, Olivier Kaeppelin, ha contattato Lévy quando l’intellettuale era appena
tornato da una delle sue numerose missioni in Libia, dove ha costruito la
guerra contro il colonnello Gheddafi. La mostra intende essere il coronamento
del “philosophe” più “philosophe” di tutti, per tutti “BHL”, la cui carriera
nella politica francese è stata un crescendo da quando entrò a far parte dei
saggi di François Mitterrand, al fianco di Jacques Delors, Michel Rocard e
Jacques Attali. “Bernard-Henri Lévy, le Magnifique!”, titola il Point sulla
mostra di BHL.
Bernard-Henri Lévy è ovunque. Come ti giri, c’è lui. Dalle
pagine culturali di Le Point ai rotocalchi di gossip, sempre affamati dei suoi
numerosi matrimoni falliti (l’ultimo con l’attrice Arielle Dombasle, che BHL ha
lasciato per Daphne Guinness, ereditiera dell’omonima birra). La celebrità di
BHL è pari solo all’odio che genera. Se il Nouvel Observateur lo ha definito
“un disc jockey delle idee”, per il grande storico Pierre Vidal-Naquet ebbe a
definirlo “un mediocre candidato al baccalaureato”. Bernard-Henri Lévy è un
trittico vivente: logo, BHL; immagine, la camicia aperta; e messaggio, libertà,
scritto a caratteri cubitali.
Sono uscite talmente tante stroncature del filosofo da aver
inaugurato un autentico genere letterario: i “béachellien”. Eppure nessuno dei
libri della campagna anti BHL che negli ultimi anni si sono riversati nelle
librerie francesi ha colpito davvero nel segno. Non “L’abbiccì di BHL” di Jade
Lindgaard e Xavier de La Porte, éditions de la Découverte, sottotitolo ironico:
“Inchiesta sul più grande intellettuale francese”, né la voluminosa biografia
di Philippe Cohen “BHL”, uscito per Fayard. Va bene smascherare l’egocentrismo
di Lévy oppure dimostrare che la sua tanto famosa amicizia col comandante
afghano Massoud era un bluff, o svelare quanto questo agitatore di idee conceda
al narcisismo e alla mondanità, o denunciare il suo fascino per i potenti. Ma
pretendere di riuscire a dimostrare che quel che scrive Lévy è tutta aria
fritta è un esercizio ad alto rischio velleitario.
BHL è invidiato per il successo, i soldi, l’influenza,
l’onnipresenza nel circo giornalistico, la sua insindacabilità qualsiasi cosa
dica, faccia, scriva. E’ fisicamente odioso a molti, per via di quella camicia
bianca perfettamente inamidata e sempre aperta sul petto. E’ criticato per gli
aerei privati, la villa Getty a Marrakech, la casa a Tangeri e la lussuosa
proprietà alle Seychelles. O per il volo che il presidente Mitterrand mise a
disposizione per prelevarlo a Sarajevo e depositarlo a Colombe d’or, dove la
brava società parigina era invitata al suo matrimonio, uno dei tanti. BHL,
infine, è inviso per il suo iperattivismo: saggi, romanzi, libri fotografici,
pièces, articoli, reportage, documentari, appelli, conferenze, tutto un
profluvio di lavori siglati “BHL”.
L’intellettuale francese, che in un paese corporativo come
la Francia sfugge colpevolmente alle classificazioni, ha molti meriti,
dall’aver difeso Israele di fronte a una opinione pubblica come quella francese
con forti tendenze antisemite, all’aver contribuito alla scarcerazione del più
noto dissidente anticastrista, quell’Armando Valladares il cui libro sul gulag
dei Caraibi BHL fece uscire per Grasset.
Ma Bernard-Henri Lévy, che fu maoista e poi trotzkista, resta
nel profondo un opportunista, il conformista simbolo dei benpensanti di
Francia. E’ uno che ci sta, un po’ l’emblema dei mandarinismi europei. In “Une
vie”, l’opera di quel Philippe Boggio giornalista storico del Monde che avrebbe
dovuto fare le pulci ad “amore, denaro, progetti e legami su cui BHL mantiene
da trent’anni il totale segreto”, è definito “l’ultimo esemplare
d’intellettuale impegnato”, ovvero “ciò che di meglio la Francia ha prodotto
nel Ventesimo secolo”. O di peggio.
Quel BHL che oggi campeggia fra i simboli del capitalismo
francese ed è riconosciuto da tutti come “il filosofo più ricco d’Europa”,
ancora non molto tempo fa definiva il capitalismo come “la più formidabile
macchina di morte che la storia abbia mai prodotto”. Il problema di BHL è che
sceglie sempre il coro giusto di indignati. Quando uscì l’edizione francese del
libro di Oriana Fallaci “La rabbia e l’orgoglio”, BHL si accodò ai progressisti
dicendo che lui era “nauseato”. E che Oriana Fallaci era un’ignorante,
un’irresponsabile, una revisionista, una fascista. E paragonò – scusandosene
con lo scrittore francese – “La rabbia e l’orgoglio” a “Bagatelles pour un
massacre” di Louis Ferdinand Céline. “E’ un libro razzista”, disse BHL del
volume della scrittrice italiana. “Con meno talento, è un ‘Bagatelle per un
massacro’ antiarabo”.
Ancora più imbarazzante è stata la sua mobilitazione per il
terrorista italiano Cesare Battisti, che ha paragonato al capitano Dreyfus, neanche
fosse Sacco o Vanzetti, per i quali all’epoca anche Parigi si mobilitò per
salvarli dalla sedia elettrica. Pur di non mancare alla serata organizzata al
Théâtre de l’Oeuvre in solidarietà con il “perseguitato politico” Battisti, ci
ha tenuto a far sapere di aver rinunciato a un impegno importante. Di fronte alla
prospettiva che il perseguitato politico fosse estradato “in un paese in cui il
presidente del Consiglio si sottrae ai giudici con ben altri mezzi di quelli di
cui dispone Battisti”, che sia innocente o colpevole, il condannato-ricercato è
innanzitutto vittima, altro che carnefice. Questa la posizione del prode BHL.
Nella primavera 2001, all’indomani del plebiscito pro Chirac
e del linciaggio del candidato di estrema destra Jean-Marie Le Pen, Lévy si fa
pago e orgoglioso della gioventù antifascista che un giorno sì e l’altro pure
per due settimane di seguito riempie i boulevard di Parigi sotto lo striscione
“no pasarán”. Ma si tende a dimenticare che il salvataggio dell’azienda paterna
di BHL, la Becob, società d’importazione di legni africani – che secondo il
noto intellettuale avvenne grazie alla stima da sempre dimostrata
dall’industriale François Pinault per uno dei suoi più importanti concorrenti,
André Lévy – è stato in realtà il frutto di un equo scambio: BHL garantisce
infatti a Pinault, i cui legami con l’estrema destra di Le Pen sono noti, buone
entrature a sinistra e nel mondo dell’editoria (manca ancora qualche anno
perché Pinault arrivi alla proprietà di Fnac e Le Point).
E che dire degli amici? Quando uscì il pamphlet
neoprogressista di Daniel Lindenberg contro i “nuovi reazionari”, Lévy – che
all’epoca si trovava a Karachi, almeno così lui dice, per il romanzo-inchiesta
sulla barbara esecuzione del giornalista ebreo-americano Daniel Pearl – pur non
essendo finito nella lista dei cattivi di Lindenberg volle dire la sua. Non per
difendere Alain Finkielkraut o Pierre-André Taguieff o Alexander Adler, tutti
suoi amici, che di quella lista facevano parte. Al contrario, BHL decise di
essere benevolo con Lindenberg e di andar giù pesante con gli amici di un
tempo, possibilmente ridicolizzandoli. Sempre da bravo opportunista.
O cosa dire del Lévy ammiratore di Dominique de Villepin,
all’epoca in cui da ministro degli Esteri s’affannava a difendere lo status quo
nell’Iraq di Saddam Hussein?All’inizio BHL si era sforzato di farsi piacere la
campagna d’Iraq, ma non c’era riuscito.
Allora Lévy attaccò “questa guerra imbecille e improvvisata
dovesse finire domani, il bel lavoro di questi Stranamore disinvolti e
incompetenti, ebbri di tecnologia e di morale, e della loro idea messianica di
una democrazia paracadutata con i chewing-gum, hanno scelto di rimanere sordi
agli avvertimenti dei loro alleati”. E se per i boulevard di Parigi sfilavano
quei cortei di sinistra vergognosi e inneggianti al terrorismo qaidista in
Iraq, per BHL bisogna ringraziare quella “banda di ignoranti e ottusi che regna
nei pensatoi della Casa Bianca, ignoranti della storia, della realtà delle
guerre e di quella delle religioni”.
BHL ha una qualità unica, essenziale per emergere nel mondo
del giornalismo: si identifica con una causa, la fa sua, la mette al servizio
del proprio successo, salvo contraddirsi per sposarne un’altra. Una volta è la
redenzione dei poveri del pianeta con l’Action internationale contre la faim.
Un’altra volta è la guerra al razzismo con Sos Racisme. Un’altra volta ancora è
la militanza per i bosniaci assediati dai serbi (ne nacque un bel film,
“Bosna!”, in cui rende omaggio agli abitanti di Sarajevo).
Una vita dunque sempre dalla parte degli oppressi, ma con
qualche sbandata reazionaria che BHL ora tende a cancellare dalla propria
biografia. Come quando prese posizione in favore dei contras, che in Nicaragua
combattevano i comunisti sandinisti.
Mito, logo, icona, BHL è diventato persino parte di un
arredamento d’interni, come quando ha preso parte a un servizio fotografico nei
suoi quattrocento metri quadrati a Saint-Germain-des-Prés (quartiere storico
della crème della “pensée philosophique” parigina), o all’“hotel particulier”
di seicento metri quadri con vista sull’Arc de Triomphe.
Ad essersi sottratto al coro a favore di BHL è stato il solo
Philippe Cohen, che ha accusato il filosofo-celebrità di aver “seminato per
trent’anni, per dimostrazione o per omissione, decine e decine di semiverità o
di controverità, come altrettanti sassolini sul cammino della felicità
mediatica”. Si sa, per diventare una star ci vuole tanta flessibilità. Così,
quando Aleksandr Solgenitsin è in disgrazia, BHL dichiara dalle pagine del
Quotidien de Paris che il grande scrittore sovietico non è poi questo grande
autore, ma un mediocre. Poi però, quando Solgenitsin diventa il darling
dell’anticomunismo, BHL lo definisce “lo Shakespeare dei nostri tempi, il
nostro Dante”.
BHL incarna anche i peggiori luoghi comuni francesi. In
“American Vertigo”, resoconto di un viaggio in automobile – con autista – che
ha intrapreso negli Stati Uniti sulle orme di quello compiuto da Tocqueville
(niente meno), emerge tutto il paradosso del filosofo. C’è un passo emblematico
della sua profondità: “Un altro incidente, nel pomeriggio, un altro avvenimento
che richiama Tocqueville: prostrato da un forte bisogno di fare pipì e stufo di
dovermi fermare da Starbucks, McDonald’s e Pizza Hut, (…) ho chiesto a Tim
(l’autista, ndr) di lasciarmi vicino a un campo d’erba bagnato dal sole. Avevo
appena iniziato, quando dietro di me sento un’automobile che si ferma. Mi
volto. E’ un’auto della polizia. ‘Che cosa sta facendo?’. ‘Sto prendendo una
boccata d’aria’. ‘Prendere una boccata d’aria è proibito’. ‘Ok, sto facendo pipì’.
‘Far pipì è proibito’. ‘Allora mi dica cosa è permesso?’. ‘Niente, è vietato
fermarsi sulle autostrade’. ‘Non lo sapevo’. ‘Ora se ne vada’. ‘Sono francese’.
‘Non me ne importa niente che lei sia francese. La legge è uguale per tutti’”.
E pensare che si era richiamato a Tocqueville.
Ma forse per capire BHL basta leggere la sua epopea per
quella che è. Quella dell’erede prediletto di Jean-Paul Sartre, a cui BHL ha
dedicato un celebre libro-peana, “Il secolo di Sartre”. Altro che l’apologia
dell’engagement. Altro che mito delle caves, del Café Flore o del Deux Magots.
Durante l’occupazione nazista di Parigi, Sartre fu il più mansueto funzionario
della cultura. “Sartre si preoccupava esclusivamente della propria carriera
letteraria ed era pronto a scendere a compromessi con le autorità per questo
scopo”, ha scritto anche l’americano Michael Curtis in un libro sulla Francia
collaborazionista. Sartre scrisse per Comoedia, il settimanale finanziato dai
tedeschi, le sue “Mosche” ebbero il beneplacito della censura nazista, occupò
la cattedra di Filosofia di un amico ebreo deportato e a una prima brindò con
le SS. Anche la sua compagna, Simone de Beauvoir, lavorò alla Radio nazionale
nella Parigi occupata, così come Cocteau, Miró, Matisse, Braque e Kandinsky esposero
quadri durante il periodo di Vichy.
Il “petit camarade” Sartre, che si recò in Germania nella
più totale indifferenza per ciò che gli stava accadendo intorno, dopo la guerra
riscrisse la propria immagine di grand résistant. In verità fu un attendista e
un approfittatore. Altro che coraggio sartriano per cui di fronte al male si
può soltanto collaborare o resistere (BHL ci ha costruito una carriera sopra).
Molto meno eroico fu l’atteggiamento dell’intellettuale francese nella Città
delle Luci sotto i nazisti. Come quando ha taciuto gli orrori del gulag per non
avvilire il morale degli “operai di Billancourt”.
Due opportunisti innamorati di se stessi, Sartre e BHL. Il
brutto “anatroccolo” pensante e il “il gran commentatore di tutto”, come Serge
Halimi ha definito BHL. Il mentore con la pipa e l’epigono col ciuffo
raffaellesco. Entrambi circondati da una adulazione quasi sovietica.
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