venerdì 18 settembre 2009

La ferita del post concilio forse è in via di guarigione

Lentamente emerge la verità circa l’autentica dimensione storica, dottrinale e culturale del Concilio Vaticano II.

La verità, che si vuole opporre ad una falsata lettura progressista è, molto semplicemente, questa: il Vaticano II non è il Concilio, ma un Concilio. Un Concilio tra molti, come ricorda spesso anche padre Livio Fanzaga.

Interessante, nel merito, l’ultimo articolo di Roberto de Mattei, che ripropone la tesi di mons. Brunero Gherardini, autore del recente libro Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare (Casa Mariana Editrice di Frigento)

Le tesi di Gherardini è la seguente: non essendo il Vaticano II un Concilio dogmatico, ma dichiaratamente pastorale, «ne consegue che è lecito riconoscere al Vaticano II un’indole dogmatica solamente là dove esso ripropone come verità di fede dogmi definiti in precedenti concili».

Non mi hanno ancora spedito il libro del Gherardini e, pertanto, non l’ho letto. Per il momento posso dire che concordo abbastanza con questa interpretazione. Solo è da specificare ulteriormente la questione “concilio pastorale/dogmatico”: così com’è riportata dal De Mattei è però un po’ ambigua. Ne riparliamo.

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silvio

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Io ho letto il libro di Mons. Gherardini, e devo dire che l'ho trovato ben fatto. Lui stesso premette che questo suo lavoro è per lo più uno schema per un progetto di più largo respiro di revisione di tutti i documenti conciliari secondo un'ermeneutica adeguata.

L'Autore, in sostanza, vuole verificare la fondatezza dell'ermeneutica della continuità di venerabile memoria, la quale, ad oggi, è stata più affermata che dimostrata, e per far ciò il passo preliminare è quello di valutare la caratura del Concilio stesso.

Secondo il precetto dei filologi alessandrini, per i quali omeros ex omerou, il Gherardini considera cosa il Concilio in primis dica di sé, prima di considerare criteri ad esso esterni per la valutazione del valore dei propri documenti. Da quest'analisi si muovono i rilievi in ordine all'essenza "pastorale" dello stesso e cosa questa precisamente significhi.

Vale la pena rimarcare comunque la parzialità della lettura filologica, ancorché corretta, laddove si voglia valutare un'ermeneutica della continuità. Se, infatti, si dice che il CVII è in continuità con il Magistero previo, non si può valutarlo solo mediante se stesso, ma occorre porlo in relazione con il depositum fidei precedente, e l'Autore ha ben presente questa considerazione. Ciò detto, la delimitazione epistemologica derivante dall'essersi "sua sponte" definito pastorale risulta importante, perché disinnesca la possibilità che dal punto di vista strettamente dogmatico possano essere state introdotte novità. Con formula felice si dice che il concilio abbia solo detto nove, non nova.

Un libro da leggere, insomma ;-)

Giampaolo

Anonimo ha detto...

Io l'ho letto: da raccomandare. Dovrebbe essere il canovaccio dei colloqui di religione con i "lefebvriani", colloqui che dovrebbero durare 5 minuti e concludersi come tutti i credenti di buona volontà desiderano ...
Marco

Anonimo ha detto...

Mi riaffaccio ora, dopo la lettura dell'articolo di De Mattei, volendo sviluppare una considerazione, che è un po' un implicito del testo di Gherardini, ed è più esplicita nell'articolo citato.

Il rimarcare la pastoralità del Concilio è funzionale al suo "depotenziamento", a circoscriverne il perimetro d'azione, riconfigurandone, dunque, la portata.

Mi pare che in questo castello argomentativo, che condivido del resto, vi sia un convitato di pietra, però. Ciò che non si dice, ma vi si allude spesso, è che diversi documenti conciliari sono stati ambigui, decettivi, talora addirittura forvianti. Certo ora si ribadisce che non erano nè sono vincolanti, dunque, poco male... Resta però il fatto che per anni, decenni, quelli sono stati ritenuti, pur se impropriamente, alla stregua di Vangeli, con tutto ciò che vi è conseguito.

I fautori dell'ermeneutica della rottura, a mio avviso comunque tendenzialmente in malafede, hanno però potuto contare su testi oggettivamente ambigui e interpretabili secondo i loro desiderata. Un testo che si lasci interpretare, o meglio dire forse fraintendere, non è un buon testo, tanto più se si vuole che sia pastorale, ovvero inteso proprio a dare direttive di comportamento, che dovrebbero quindi essere il più chiare possibile.
Il fatto si sia verificato lo scempio interpretativo cui oggi si assiste non può essere messo solamente in quota ad interpreti tendenziosi, sarebbe ingenuo, occorre riconoscere anche la responsabilità di testi tutt'altro che chiari e univoci, anche se questa ammissione, e lo capisco bene, costa molto in termini di prestigio. Ciò nondimeno resta un dovere di verità.
L'aver abdicato al latino quale lingua d'origine, come scrive Amerio, credo sia una delle ragioni di tutto questo.

Giampaolo

silvio ha detto...

@ Giampaolo e Marco: al riguardo avevo avuto la sensazione, da quel che si dice del libro, che l’autore volesse appunto tratteggiare un discorso senza ancora addentrarsi in qualche opera ciclopica di confronto filologico. Ma è già abbastanza, comunque, avere un approccio originale. Una guida, insomma, per gli studi futuri. Sono proprio curioso: spero mi arrivi presto.

silvio ha detto...

@ Giampaolo: non avevo letto il tuo ultimo commento. Proprio su questa ambiguità, in particolare, mi trovi completamente d’accordo. In questa sede abbiamo battuto non poco su questo punto, cercando di escogitare sinonimi in quantità: malintesi, equivoci, nebulosità, fraintendimenti, ecc…
Non che svaluti il problema pastoralità/dogmaticità, ma dal mio modestissimo punto di vista la tematica dell’equivocità dei documenti scritti mi appare soverchiante.