martedì 30 aprile 2013

Quanto ci costerà la Bonino


di Danilo Quinto

Accantoniamo per un momento come Emma Bonino, neo-ministro degli Esteri, ha costruito la sua carriera politica. Chi la promuove a icona della modernità, può documentarsi, sempre che desideri farlo. Accantoniamo anche l’enfasi con la quale Marco Pannella ha accolto la nomina della sua leader, con tanto di ringraziamenti a questo e a quello e giurando che sarà “l’ultimo giapponese” di un Governo che ha tutti i connotati per compiacere le lobby internazionali e le stanze segrete del potere, massoniche e mondialiste. Non la smetterà di certo, il guru radicale – nonostante la nomina – ad agitare lo spettro dei suoi digiuni “gandhiani” contro la partitocrazia che ora osanna. Ça va sans dire.

Occupiamoci, invece, di altri aspetti. Il primo riguarda quale sarà la posizione dell’Italia in campo europeo e internazionale su quei temi definiti “sensibili” o “principi non negoziabili”, che ci stanno a cuore ma che - come dice Benedetto XVI - “sono scritti nell’anima di ogni essere umano”, precedono qualsiasi legge statuale e valgono per tutti, credenti e non credenti.

L’angolo di visuale del nuovo ministro degli Esteri è quello di voler affermare un diritto solo perché avverti un desiderio individualistico, al fine di vestire la libertà dell’autorevolezza del dovere, della responsabilità, di una sua necessità antropologica, che dovrebbe riguardare perfino l’evoluzione dell’essere umano e quindi il corso della storia. Così, il diritto umano alla vita, si trasforma nel “diritto civile” di garantire alla donna di essere proprietaria del proprio corpo, di disporne quando e come vuole. Il diritto umano a considerare la vita un dono, degno di essere vissuto con dignità fino all’ultimo respiro, si tramuta nel “diritto civile” che riguarderebbe ogni essere umano di decidere se e come por fine alla propria esistenza, con l’eutanasia o con il suicidio assistito.

Il diritto umano alla degna sepoltura dei bambini non nati a causa dell’aborto, viene negato, cosi come viene definito “eccessivo” il numero dei medici obiettori, che impedirebbero il diritto all’aborto. Il diritto umano al matrimonio tra un maschio e una femmina, si riduce al “diritto civile” di riconoscere la possibilità, attraverso l’ideologia omosessualista, che due uomini o due donne si possano sposare ed anche adottare bambini. Il diritto umano di preservare la vita dal flagello della droga, lascia il campo al “diritto civile” di distribuirla libera nei supermercati e nelle farmacie. Il diritto umano di considerare l’embrione una persona, lascia lo spazio ad un lessico che lo definisce “grumo di cellule” o “escrescenza della carne”, che serve per contrapporre la propria visione “libertaria” all’antropologia, così come la conosciamo da millenni a questa parte.

E’ questa l’ideologia anti-umana del nuovo ministro degli Esteri e queste saranno le posizioni che esprimerà l’Italia in sede europea e internazionale. E’ questa la sua “religione laica”, che connota il suo progetto egemonico su una società secolarizzata. “Io posso essere un’ammiratrice di quel cristianesimo delle origini, il cristianesimo costantiniano – scrive Emma Bonino ne ‘I doveri della libertà’, Laterza Editore, 2012 - perché esso ha costruito, piaccia o no, l’edificio dell’Europa; non è l’unico linguaggio, ma certamente è uno dei linguaggi fondanti della nostra eredità.
Credo però che oggi questo cristianesimo abbia esaurito la sua carica vitale, storica”. Da queste convinzioni deriva anche la forsennata battaglia della Bonino e dei radicali sui beni di proprietà della Chiesa, svolta a livello europeo, in perfetta sintonia di tempi e d’intenti con le dichiarazioni espresse dal Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, attraverso il suo Gran Maestro, Gustavo Raffi.

Nel 2007, quando “Il Sole 24 Ore” dà notizia dell’apertura di un dossier della Commissione europea su «certi vantaggi fiscali delle Chiese italiane», la Bonino è ministro del Governo Prodi per le Politiche Comunitarie e si limita a dichiarare candidamente che «il Governo esaminerà le ulteriori richieste quando arriveranno». In realtà, sono proprio i radicali, e lei in particolare, ad aver agito nei confronti della Commissione europea e ad avviare un’iniziativa demagogica, capziosa e strumentale.
Analoga a quella che i radicali stanno conducendo con il quesito referendario sull’abrogazione di una parte della legge sull’8 per mille, depositato in Cassazione nelle stesse ore in cui padre Federico Lombardi ha accolto nella sede di Radio Vaticana Marco Pannella, in un colloquio definito “storico” dal leader radicale.

Emma Bonino - ed è questa la seconda considerazione da fare - riceverà il sostegno concreto di tutto l’apparato burocratico della Farnesina e delle immense risorse economiche a disposizione. Nel mondo, non solo in Italia. I radicali sono dei maestri in questo. Con le loro associazioni, già perseguono progetti finanziati dall’Unione europea e dal Ministero degli Esteri. Basta scorrere i siti radicali, che documentano le alleanze, i sostegni e i finanziamenti. Figuriamoci ora cosa accadrà. Si è concessa la possibilità che la “roba” sia tanta e al servizio delle loro idee, dei loro progetti e del potere, così come si concede da decenni - anche attraverso la complicità di decine e decine di parlamentari cosiddetti cattolici - che la loro radio riceva dieci milioni di euro dallo Stato per un servizio che potrebbe svolgere gratis la Rai-Tv.

Un’ultima considerazione riguarda i legami che Emma Bonino ha da più di vent’anni con il “filantropo” George Soros, l’uomo che fece saltare nel 1992 la Banca d’Inghilterra e che concorse alla svalutazione della lira. Soros, che è iscritto al Partito Radicale e che ha dato sostegno finanziario in vari modi alle attività dei radicali, è uno tra i maggiori ideologi di quel Nuovo Ordine Mondiale che vuole dominare il mondo. Oltre a finanziare progetti che hanno riguardato la democrazia dell’est europeo e ad intervenire allo stesso modo nei confronti delle “primavere arabe”, Soros è impegnato da decenni nel “Program of Reproductive Health and Rights”, che dedica i suoi sforzi alla causa del “diritto all’aborto”.

In linea con questa prospettiva, Emma Bonino, che “copre” la sua forsennata ideologia abortiva con il lancio di campagne che hanno l’obiettivo di dipingerla come eroina dei diritti umani nel mondo, come quella sulle mutilazioni genitali femminili o quella per l’abolizione della pena di morte o quella per la creazione del Tribunale Penale Internazionale per i crimini contro l’umanità, afferma: “Il nocciolo è la bomba demografica. Ogni giorno ci sono 80mila nuovi nati.
Nel contempo la vita media si allunga. Aggiungiamoci il miglioramento della qualità della vita in vaste aree, tipo Cina e India, e diventa chiaro che siamo di fronte a una crescita demografica destinata a destabilizzare sempre più la situazione. Noi proponiamo un rientro dolce della bomba demografica" (“Quotidiano Nazionale”, 27 aprile 2008).

Questa balla della bomba demografica - propugnata sin dagli anni ’70 dal Club di Roma di Aurelio Peccei e dai programmi abortivi promossi dal sistema delle Nazioni Unite da decenni - un’idea eugenetica e malthusiana, si inquadra proprio nel contesto di un nuovo ordine mondiale. Quello perseguito, ad esempio, dalla “Comunità delle Democrazie” (UNDC). Questa nasce come emanazione della “Democracy Coalition Project”, nata su iniziativa dell’”Open Society Institute” di George Soros.
È un’organizzazione non governativa che svolge attività di ricerca e di promozione della democrazia e dei diritti umani a livello internazionale, in particolare attraverso le Nazioni Unite, il Consiglio dei diritti dell’uomo e altri organi multilaterali. Monitora la politica estera dei governi sui diritti umani e sulla promozione della democrazia.
Dell’Advisory Board dell’organizzazione fa parte Emma Bonino.

Sta di fatto che Gruppo Bildeberg, Trilaterale e tutte le organizzazioni operanti nel mondo che hanno come obiettivo quello di determinare politiche economiche e sociali per la realizzazione di disegni di pochi – e senza il beneplacito delle quali, da qualche tempo in Italia sembra non si possano costituire governi - vanno considerate in base a quanto affermava Papa Leone XIII nell’Enciclica Humanum Genus, dedicata in particolare all’azione della Massoneria nella società del tempo: «L’ultimo e il principale dei suoi intenti è quello di distruggere dalle fondamenta tutto l’ordine religioso e sociale nato dalle istituzioni cristiane e creare un nuovo ordine».

lunedì 29 aprile 2013

“Trovare Gesù fuori dalla Chiesa non è possibile”


di Silvio Brachetta

Nell’omelia tenuta nel giorno del proprio onomastico - 23 aprile, san Giorgio - Papa Francesco (Jorge Mario Bergoglio) riafferma la verità secondo cui è una «dicotomia assurda» dividere Gesù Cristo dalla sua Chiesa, come già ricordava Paolo VI nel 1975: «C’è dunque un legame profondo tra il Cristo, la Chiesa e l’evangelizzazione. […] È bene accennare a un momento come questo, quando avviene di sentire, non senza dolore, persone, che vogliamo credere ben intenzionate, ma certamente disorientate nel loro spirito, ripetere che esse desiderano amare il Cristo, ma non la Chiesa, ascoltare il Cristo, ma non la Chiesa, appartenere al Cristo, ma al di fuori della Chiesa. L’assurdo di questa dicotomia appare nettamente in queste parole del Vangelo: “Chi respinge voi, respinge me”» (Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, n.16).
In particolare il Papa osserva come l’opera di evangelizzazione dei primi cristiani non rafforzasse soltanto, nei convertiti, il legame con Dio ma, allo stesso tempo, si cementava il senso di appartenenza ad un’unica Chiesa Madre, fuori dalla quale ci si sarebbe smarriti. La Chiesa - dice il Pontefice - «diventa Madre, sempre di più, Madre che ci dà la fede, Madre che ci dà l’identità. Ma l’identità cristiana non è una carta d’identità. L’identità cristiana è un’appartenenza alla Chiesa». E infatti - precisa - «trovare Gesù fuori dalla Chiesa non è possibile».
Sono riflessioni, queste, d’immensa portata ecclesiologica, poiché attraverso di esse si chiarifica maggiormente il mistero della Chiesa e del suo legame insopprimibile con Gesù Cristo. E ancora il Papa si sofferma su un altro tema, spesso dimenticato o rimosso dall’omiletica contemporanea: l’incompatibilità sostanziale tra la mentalità di Dio e la mentalità del mondo. Nella Chiesa c’è infatti la persecuzione. O, per meglio dire, Papa Francesco cita direttamente l’insegnamento di sant’Agostino: la «Chiesa va avanti fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni del Signore» (cfr S. Agostino, De Civitate Dei, 18,51,2: PL 41, 614). Come Gesù, i cristiani sono invitati a seguirLo sulla Via della Croce che, solo in un primo momento, dà una «tristezza grande», perché questa Via inevitabilmente «finisce con la gioia» (come sempre attestano i santi).
Quindi, alla fine, nella Chiesa c’è una sicura e intramontabile «consolazione». Non però come la dà il mondo: «se noi cerchiamo soltanto la consolazione - afferma il Santo Padre -, sarà una consolazione superficiale, non quella del Signore, sarà una consolazione umana». Con il mondo, insomma, non bisogna «negoziare», ma è preferibile affidarsi alla santa Chiesa. Se appunto - continua il Papa - «noi vogliamo andare sulla strada della mondanità, negoziando con il mondo - come volevano fare i Maccabei, che erano tentati in quel tempo - mai avremo la consolazione del Signore».
Qua dunque Papa Francesco dà l’autentico significato al dialogo con il mondo, che non deve mai essere il pretesto per negoziare con esso né, tantomeno, per perdere la propria identità.

Se il panico attacca e divora la vita


Frascella racconta con garbo l'alienazione e la solitudine del disagio psichico. Spesso incompreso

di Massimiliano Parente

Quando qualcuno dichiara di essere depresso l'interlocutore di norma gli domanda «perché?», mentre nessuno lo chiede se ti senti felice, anche perché hai paura di sentirti dire cose che ti deprimono.
È anche per questo che l'infelicità genera romanzi interessanti, la felicità solo stronzate: è facile immaginare un genio depresso, difficile immaginarne uno felice. Nella depressione oltretutto spesso il mondo appare senza veli, lo spiegava bene già Leopardi: la lucidità è impossibile da sostenere, abbiamo un costante bisogno di illusioni. Condizione confermata dalle odierne neuroscienze e dalla biologia evolutiva: il nostro cervello produce continuamente finzioni, per proteggerci da una visione troppo oggettiva delle cose.

Confesso che ero molto sospettoso del nuovo romanzo di Christian Frascella, dedicato agli attacchi di panico dell'omonimo protagonista, che lavora in fabbrica, a Torino, alla catena di montaggio della Fiat. Poiché ci sono due tipi di luoghi comuni sulle patologie mentali: sono la malattia dei ricchi, oppure sono la malattia dei poveri, nei Paesi ricchi. Tra l'altro è un libro targato Einaudi, bellissima e storica casa editrice ma con inguaribili tendenze sociologiche per quanto riguarda la narrativa italiana, e temevo che Frascella la buttasse sul panico da crisi economica.
E invece un cavolo: Frascella è il nuovo Giuseppe Berto, e Il panico quotidiano è il degno upgrading de Il male oscuro. Tra l'altro, probabilmente per coincidenza, come nel romanzo di Berto anche nel romanzo di Frascella il padre del narratore è malato di cancro all'intestino. Ma il parallelismo a Berto è solo un richiamo obbligato: piuttosto c'è un senso esistenzialmente kafkiano nell'insorgere improvviso della malattia.

Come Gregor Samsa si risveglia scarafaggio, Frascella si ritrova da un momento all'altro nell'essere in preda a una paura senza nome, incomprensibile, un mostro che lo divora dall'interno e che raccoglie scarsa solidarietà: nessuno ti capisce. È sentirsi la morte addosso, dentro, ovunque, un buio che ti inghiotte, ti toglie il respiro. Inoltre il panico genera panico: «La parte peggiore non erano tanto le crisi di panico, quanto l'attesa dell'eventualità che si verificassero. Il che generava una continua confusione, perché l'attesa del panico era già una forma di panico. Come il cane che si morde la coda, se non ti curavi continuavi a girare su te stesso: paura, paura della paura, paura della paura della paura». Così Christian in breve tempo si trasforma in un'altra persona. Isolato sul posto di lavoro, dipendente da psicotici e benzodiazepine, rinchiuso in casa, sarà lasciato solo anche dalla fidanzata: chi soffre di attacchi di panico fa un po' rabbia, quasi fosse colpa sua. È come con la depressione: perché sei depresso? Idem per l'attacco di panico: di cosa hai paura?

È in fondo un'altra delle grandi illusioni della nostra coscienza: avere il pieno controllo delle proprio stato mentale, rifiutare la realtà organica, materiale, meccanica, del nostro cervello. Che per la maggior parte lavora a nostra insaputa, sotto i pochi millimetri della neocorteccia prefrontale. Talvolta, come racconta Frascella, scatta addirittura la paura del contagio, e il malato viene trattato da appestato: «Appena accennavo al mio problema, ecco che l'atteggiamento nei miei confronti cambiava radicalmente. Subentrava la diffidenza, avevano paura che il mio problema li intaccasse, sporcasse, rovinasse - che, frequentandomi, si esponessero al rischio. Loro e chi gli stava vicino». Un terrore della contaminazione sintomatico proprio di una mancanza di consapevolezza popolare sugli equilibri chimico-fisici alla base dei nostri stati d'animo, quasi che la malattia mentale potesse insorgere per suggestione.

Invece basterebbe pensare a cosa sarebbero perfino l'amore e il sesso senza l'attivazione dei neurotrasmettitori giusti; la depressione e gli attacchi di panico sono l'altra faccia di una medaglia neurologica molto complicata. Io non soffro di attacchi di panico ma, dopo aver letto questo bel romanzo di Frascella così magistralmente in bilico tra la commedia e la tragedia, sono corso ai ripari e ho detto al mio medico: se non puoi darmi Selvaggia Lucarelli, dammi almeno un po' di dopamina.

venerdì 26 aprile 2013

Bravo Basaglia, hai fatto proprio bene a chiudere i manicomi.

No comment

Il Concilio, vittima di opposte fazioni


Riscoprire il Concilio vedendolo dentro la tradizione della Chiesa. Questa l'intenzione di Stefano Fontana, autore di un'indagine sul Vaticano II dal titolo “Il Concilio restituito alla Chiesa” (La Fontana di Siloe, Torino 2013). La Nuova Bussola Quotidiana lo ha intervistato.

di Benedetta Cortese

Dottor Fontana, siamo nel pieno dell’Anno del Concilio Vaticano II, voluto da Benedetto XVI come complemento dell’Anno della Fede. Come stanno andando le cose secondo lei?

Non mi sembra che questo Anno del Concilio stia aiutando molto a capire il Concilio. Molte pubblicazioni hanno spesso riproposto le note posizioni, senza nessun passo in avanti.
Le varie realtà, a seconda del loro orientamento sul Vaticano II, chiamano questo o quel relatore a conferma di una tesi piuttosto di un’altra. È lo stesso schema rigido che si ripropone. Mi aspettavo di meglio e di più.

Benedetto XVI, nel famoso discorso del 22 dicembre 2005, aveva tracciato le linee per la giusta ermeneutica del Concilio. Non ne è rimasto niente?

Già allora le due tendenze principali avevano interpretato il discorso del Papa come una conferma delle proprie posizioni. In seguito hanno continuato così, come se il Papa non avesse parlato.
La commemorazione del Vaticano II è avvenuta spesso a suon di slogan e di frasi fatte. Continua a fare presa un Concilio inesistente e irreale, ma che ormai si è imposto come a-priori collettivo. Una vulgata del Concilio che non percepisce nemmeno lontanamente i problemi che stanno dietro il Concilio.
Non si onora il Concilio facendone un'enfatica apoteosi, ma comprendendolo nella linea indicata da Benedetto XVI e dagli altri Pontefici prima di lui.

Lei ha pubblicato un libro sul Concilio. Con che intenzione?

Con l’intenzione di capire il Concilio, ossia di collocarlo al suo posto. Senza questo chiarimento la Chiesa non può stare. Fingere che il problema non ci sia significa di fatto accettare due chiese. Il Concilio è un problema che non si può eludere.

Un problema il Concilio o un problema il post Concilio?

È stato un problema l’applicazione del Concilio, ma lo è stato anche il Concilio. Ciò non significa né che il Concilio non sia autorevole e non meriti obbedienza, meno che meno che esso contenga degli errori, né che esso sia un Concilio “minore”.

Allora in cosa consiste il problema Concilio?

Consiste nella sua indole pastorale. Sembra un paradosso, ma è così. L’indole pastorale del Concilio doveva essere la soluzione dei problemi ed invece è diventata il problema.

In che senso?

Elenco brevemente alcuni nodi problematici connessi con l’indole pastorale del Vaticano II. I precedenti Concili non erano anche pastorali? Erano Concili dogmatici, ma il dogma non c’entra nulla con la pastorale? È possibile un Concilio solo pastorale che non ripensi anche la dottrina? Paolo VI aveva chiaramente in testa che no. Quindi il Vaticano II ripensò anche la dottrina.
Allora fu anche dottrinale, pur se non dogmatico. La dottrina fissata dal Vaticano II che valore ha, dato che il Concilio pretese per sé la qualifica di pastorale? Il Vaticano II non voleva primariamente ripensare la dottrina, ma interrogarsi sulla pastorale, però le esigenze pastorali richiedevano di ripensare tutta la dottrina e in questo modo si ebbe un Concilio pastorale che ripensò tutta la dottrina, forse più dei precedenti Concili che si pronunciarono solo su singoli argomenti dottrinali. Questi sono solo alcuni esempi.

Benedetto XVI disse che il Concilio non è un superdogma, ma quando fu eletto Papa disse subito di voler realizzare il Concilio. Nel suo libro come viene affrontata questa questione?

Il Concilio è spesso diventato un superdogma. Altro paradosso: un Concilio pastorale che diviene superdogmatico. Sembra che quanto la Chiesa aveva fatto prima fosse tutto sbagliato. La celebrazione della messa con rito antico fu considerata la principale eresia, ed era quanto la Chiesa aveva sempre celebrato.
Il catechismo di Pio X fu di fatto considerato eretico. Qualsiasi contestatore del magistero fu canonizzato come “anticipatore” del Concilio. Come si fa ad evitare queste interpretazioni fazione e forzose? Realizzando il Concilio, come disse Benedetto XVI. Ma per realizzarlo bisogna comprenderlo nella sua vera realtà. Non vedo quindi nessuna contraddizione tra le due frasi di Benedetto XVI.

Lei dice “comprenderlo nella sua vera realtà”. Il suo libro si intitola “Il Concilio restituito alla Chiesa”: è questo il significato?

Sì, è questo. Del Concilio si è spesso impadronito il mondo. La Chiesa lo deve recuperare a se stessa, ricollocarlo nella propria tradizione. Superando però i nominalismi. Tutti si dicono d’accordo con questa affermazione, ma poi hanno della tradizione concezioni diverse e allora l’equivoco torna da capo.

Quali sono le principali concezioni della tradizione in campo?

Direi quella di Ratzinger e quella di Rahner. Secondo la prima c’è un nucleo di verità immutabili che vengono trasmesse pur nella storicità della tradizione. Nel secondo caso l’interpretazione e la ricezione della tradizione fanno parte integrante del messaggio stesso. Nel primo caso assume il primato la dottrina, nel secondo la pastorale.

Questo significa che il Vaticano II ha proclamato il primato della pastorale sulla dottrina?

Di fatto oggi la pastorale ha preso il sopravvento sulla dottrina fino a farla sparire in molti casi. In alcuni capitoli del mio libro descrivo molti comportamenti ecclesiali che lo testimoniano ampiamente. Il problema è stabilire se questo primato della pastorale fosse presente nel Vaticano II stesso o se sia dovuto a difetti di applicazione.
La tesi che espongo nel libro è che nel Vaticano II ci furono delle “fessure” attraverso le quali la tesi del primato della pastorale in seguito penetrò nella Chiesa. Fessure non volute, ma fessure. Non era intenzione dei Papi né dei Padri conciliari anche se, storicamente, si può provare che alcuni Padri conciliari avrebbero voluto introdurre forme di modernismo nella dottrina della Chiesa cattolica. Ma ciò non avvenne, per la sorveglianza dottrinale e pastorale dei Pontefici e l’assistenza dello Spirito Santo.

Negli anni Sessanta tutte le teologie di moda proclamavano il primato della prassi sulla teoria…

In effetti è così. Né Giovanni XXIII né Paolo VI volevano questo. Però l’insistenza sull’indole pastorale poteva prestarsi anche a queste interpretazioni.
Faccio un esempio. Nei confronti del mondo, il Concilio espresse più apprezzamento che condanna, per esplicita indicazione di Giovanni XXIII. Le teologie del tempo dicevano che Cristo ama il mondo e non la Chiesa, annullando con ciò la missione salvifica della Chiesa rispetto al mondo. Le due cose sono incompatibili, ma nel clima degli anni Sessanta la cosiddetta “apertura al mondo” fornì delle fessure anche a queste interpretazioni distorte, che hanno dato frutti amari fino ai nostri giorni.

Secondo lei, il Concilio volle esprimere una completa dottrina sul rapporto con il mondo?

Ecco un altro problema che va messo al suo posto e restituito alla Chiesa. Il Concilio non volle esporre tutta la dottrina cattolica. Per questo bisogna ricorre al Catechismo. Ciò significa che, per esempio, la Gaudium et spes non pretese di esporre tutta la dottrina circa il rapporto Chiesa-mondo.
Nella Costituzione pastorale non si parla del comunismo. È possibile impostare dottrinalmente in modo completo il rapporto con il mondo moderno senza parlare del comunismo? La scelta aveva scopi pastorali. Però comportò anche conseguenze dottrinali. Ma chi concludesse, su queste basi, che il comunismo non era più un problema della Chiesa solo perché la Chiesa non ne parlava, fraintenderebbe le cose. Sarebbe come dire che il diavolo non è un problema della Chiesa perché nel Vaticano II non se ne parla. Ma se ne parla nel Catechismo.
È molto dannoso attribuire al Vaticano II la volontà di esprimere in toto la fede della Chiesa, ciò lo costituirebbe come superdogma superiore anche al catechismo e alla tradizione apostolica. Inutile negare, però, che questo è stato fatto e si continua a fare.

Nel suo libro, lei tratta a fondo il problema del linguaggio dei documenti del Vaticano II. Può dirci qualcosa?

Il Vaticano II non fu un Concilio dogmatico, quindi non adoperò il linguaggio definitorio, ma un linguaggio che qualcuno definisce narrativo. È quindi spesso difficile capire con precisione i suoi insegnamenti. Una frase di un documento bisogna per forza collegarla con altre frasi dello stesso e spesso bisogna completare il quadro con riferimento ad altri documenti del Concilio.
Spesso nemmeno in questo caso si ha una completa panoramica dell’argomento. Tanto è vero che il magistero ha in seguito precisato mote cose. Se tutto fosse stato chiaro non ce ne sarebbe stato bisogno.
La famosa prima frase della Gaudium et spes, sempre citata da tutti, anche da coloro che del Concilio non hanno letto altro, non trasmette nessun preciso significato teologico, ha bisogno di essere completata da altre frasi del documento e di altri documenti. Spesso, invece, il Concilio si cita per frasi ad effetto, fermandosi ad esse e facendone una definizione di fede.

Benedetto XVI è stato definito anticonciliarista. Cosa ne pensa?

I Papi non sono né conciliaristi né anticonciliaristi, ossia né dogmatizzano il Vaticano II ponendolo al di sopra della fede insegnata dagli Apostoli, né lo liquidano come un incidente di percorso. Il Concilio si inserisce nella tradizione della Chiesa da cui trae luce.

Cosa fare, allora?

Il lavoro da fare è lungo. Passerà molto tempo. Benedetto XVI ha tracciato la linea. Del Concilio bisogna parlare, ma non a partire dalle proprie posizioni ideologiche incancrenite o dalle frasi fatte di cui ci si riempie la bocca.
Benedetto XVI ha indicato una strada: un movimento che dal basso, e con la guida del Papa, riscopra il Concilio vedendolo dentro la tradizione della Chiesa e non in contrasto con essa. Una riscoperta non nel segno della rottura, ma della riforma nella continuità, lenta e progressiva, sempre più consapevole e diffusa. A questo mi auguro possa servire anche il mio libro.

giovedì 25 aprile 2013

La disputa su monsignor Tonino Bello


di Giuseppe Brienza

Venerdì prossimo, 26 aprile, Congresso nazionale di “Pax Christi” sul controverso vescovo

Il 20 aprile 1993 si spegneva a Molfetta monsignor Antonio Bello, conosciuto come “don Tonino”, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, presidente di Pax Christi Italia dal 1985 al 1993.
Mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea conosciuto per le sue posizioni progressiste e amate dalle sinistre, ne rievocherà la figura venerdì prossimo, 26 aprile, presso l’Istituto Seraphicum di Roma, in occasione del prossimo Congresso nazionale di “Pax Christi”- Italia.

La figura del vescovo pugliese sarà al centro di una tavola rotonda enfaticamente intitolata: “E’ l’ora della nonviolenza. Per una chiesa del grembiule in un Paese casa di tutti”. Mons. Bettazzi ha dedicato a mons. Bello anche una biografia, intitolata semplicemente Don Tonino Bello [San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2001], e avrà la pars maior nel prossimo congresso nazionale di “Pax Christi”, almeno per le iniziative pensate per commemorarlo nel ventesimo anniversario della sua scomparsa, che comprenderanno anche la proiezione, nella giornata di sabato 27 (a partire dalle 19) del film biografico “Don Tonino Bello. L’anima attesa” (cfr. “E’ l’ora della nonviolenza”. Congresso nazionale di Pax Christi Italia, in “Zenit”, 16 Aprile 2013).

Per riprendere provocatoriamente il titolo della tavola rotonda di “Pax Christi”, ci si può chiedere: ma di quale “grembiule” stiamo parlando trattando di mons. Bello? Del grembiule del “servizio”, che Gesù indossò al momento della lavanda dei piedi di cui parla a suo riguardo Bettazzi, o di quello massonico che, ad avviso di alcuni osservatori, pare abbia caratterizzato la mentalità e gli scritti del vescovo pugliese?

Un acuto studioso ed esperto di pensiero e di storia massonica come padre Paolo M. Siano FI, ha infatti recentemente espresso in un corposo e documentato saggio pubblicato sulla rivista della congregazione religiosa alla quale appartiene, i Francescani dell’Immacolata, una profonda perplessità per la causa di beatificazione avviata alcuni anni orsono in favore di mons. Bello, intrapresa a suo avviso con imprudenza e superficialità. Dopo aver letto il suo studio intitolato Alcune note sul “magistero” episcopale del Servo di Dio Mons. Antonio (“Don Tonino”) Bello (1935-1993). Un contributo critico [cfr. Fides Catholica. Rivista di apologetica teologica, anno VII, n. 2, Frigento (AV) luglio-dicembre 2012, pp. 27-94], devo dire di poter condividere sostanzialmente il suo giudizio.

Fino all’ultima conferenza tenuta ad Assisi nell’agosto 1992, infatti, mons. Bello ha manifestato idee e pensieri che mi paiono davvero poco in linea con il Magistero perenne della Chiesa. Posso citare l’iper-conciliarismo conseguente ad una sua visione distorta del Concilio Vaticano II, l’antropologismo teologico di tipo esistenzialistico, il linguaggio omiletico di tipo “secolarista”, per non parlare del “filo-socialismo” che emerge da alcuni dei suoi proclami sociali. Inoltre, c’è anche quel “pacifismo assoluto” che sembra connotare un “magistero” episcopale “dontoninobellista”, come lo chiama p. Siano, eccentrico e caratterizzato da una mal dissimulata disistima verso il Sacro e verso i Dogmi, per non parlare della sensualità e del femminismo del suo “discorso sulla donna”.

A conclusione del suo studio il padre Francescano dell’Immacolata auspica quindi che un Pastore di tal fatta non sia presentato come modello per coloro che devono essere maestri e custodi della Fede Cattolica di sempre. Mentre mons. Bettazzi vede il “magistero per i poveri” del vescovo pugliese in parallelo con quello di Papa Bergoglio, con dichiarazioni tipo: «Sento vicini don Tonino Bello, che fu criticato per questi atteggiamenti, e Francesco. Il Papa sta rivalutando questo atteggiamento di servizio e solidarietà» (cit. in Don Tonino Bello nel ricordo di monsignor Luigi Bettazzi, in “Zenit”, 18 Aprile 2013). E la Caritas Italiana gli viene dietro considerando “Don Tonino” uno dei maggiori Personaggi del XX secolo, perché una sua biografia è stata inserita nella collana omonima realizzata dalla stessa Caritas per la San Paolo (il profilo è uscito per i tipi dell’editrice dei paolini giusto l’anno scorso).

© Formiche

mercoledì 24 aprile 2013

Hadjadj: Non chiamateci fascisti, integralisti, omofobi. Noi siamo, semplicemente, dei “meravigliati”


di Fabrice Hadjadj

Per gentile concessione dell’autore traduciamo un inedito del filosofo Fabrice Hadjadj, apparso sul sito printempsfrancais.fr e intitolato ”Meravigliatevi! Per un manifesto dei meravigliati”.

Non siamo degli indignati. Ciò che ci anima è un sentimento più primitivo, più positivo, più accogliente: si tratta di quella passione che Cartesio considera la prima e la più fondamentale di tutte: l’ammirazione. Essa è prima perché la si sperimenta di fronte alle cose che ci precedono, che ci sorprendono, che non abbiamo pianificato noi: i gigli dei campi, gli uccelli del cielo, i volti, tutte le primavere… Prima di soddisfarci dell’opera delle nostre mani e della vittoria dei nostri princìpi, ammiriamo questo dato naturale.
Questa è la colorazione affettiva che tentiamo di fare entrare nelle nostre azioni. Esse non sono motivate da uno stato d’animo triste o di rivendicazione. Non sono imbevute di amarezza. Non vorrebbero essere altro che rendimenti di grazie. Perché, a partire da questa ammirazione primigenia, esse devono fiorire in gratitudine verso la vita ricevuta, verso la nostra origine terrestre e carnale: il fatto che non ci siamo fatti da soli, ma che siamo nati, da un uomo e da una donna, secondo un ordine che sfuggiva a essi stessi.

Lungi dall’essere degli spiritualisti o dei moralizzatori, riconosciamo quella che Nietzsche chiamava «la grande ragione del corpo» e anche «lo spirito che opera dalla vita in giù». Sì, noi siamo meravigliati dall’ordinazione reciproca dei sessi, dal genio della genitalità. Certo, questa organizzazione stupefacente è come il naso in mezzo al nostro volto: tendiamo a non vederlo. Ci inorgogliamo di avere costruito una torcia, e dimentichiamo lo splendore del sole; idolatriamo la magia delle nostre macchine, e disprezziamo la meraviglia della nostra carne. Questa meraviglia la nascondiamo sotto le parole «biologico», «determinismo», «animalità», e assumiamo un’aria di superiorità, vantando le libere prodezze della nostra fabbrica. E tuttavia, che cosa c’è di più stupefacente di questa unione degli esseri più differenti, l’uomo e la donna? E cosa c’è di più sorprendente del loro abbraccio, chiuso sul suo proprio godimento, e che tuttavia si strappa, secondo natura, per permettere l’avvento di un altro, di un’altra differenza ancora: la futura piccola peste, il già disturbante, colui che chiamiamo «il bambino»? Jules Supervielle esprime con una precisione più che scientifica che la riduzione biologistica ci nasconde: «Ed era necessario che un lusso d’innocenza/ concludesse il furore dei nostri sensi?».

Perciò le nostre manifestazioni non sono quelle di una corporazione, ma quelle dei nostri corpi. Non partono da uno scopo politico o partitico, ma da un riconoscimento antropologico. Non cercano di prendere il potere, ma di rendere una testimonianza culturale a un dato di natura, in uno slancio di gratitudine. In greco «natura» si dice «fisis», parola che viene dal verbo «fuein», che significa «apparire» o. più precisamente, «manifestarsi». La natura non è anzitutto una riserva di energie, né una miniera di materiali manipolabili secondo la nostra volontà, ma una manifestazione di forme organizzate, spesso splendide al nostro sguardo.
Certo, la natura è anche ferita, disordinata: c’è la sofferenza, c’è la morte, c’è l’ingiustizia. Ma queste rovine ci fanno orrore proprio perché abbiamo anzitutto intravisto la sua generosità zampillante: se non avessimo percepito la bontà delle sue forme, non saremmo scandalizzati da ciò che la sfigura… Le nostre manifestazioni non hanno dunque altro motivo che di attestare lo splendore di questa manifestazione primigenia. Non riguardano il rapporto di forze. Si fondano su un’esigenza di ospitalità verso questa presenza reale, fisica, iniziale (non segare il ramo su cui siamo seduti, non pretendere di far sbocciare il fiore forzando il bocciolo). Ed è a causa di questo che le nostre manifestazioni dureranno fintanto che ci saranno peni e vulve, e la loro ordinazione reciproca anzitutto involontaria, e la loro fecondità che mette in discussione la nostra avarizia.

Ma è esattamente questa esigenza di ospitalità, questa relazione di meraviglia e di gratitudine verso la nostra origine, diciamo pure questo rapporto di debolezza, che risultano insopportabili a coloro che concepiscono tutto in termini di rapporti di forza. Vorrebbero che noi non fossimo altro che una fazione. Preferirebbero che mettessimo le bombe. Questa violenza gli risulterebbe meno violenta della nostra manifestazione elementare, quella della semplice presenza fisica di un uomo e di una donna, e di un bambino di cui essi sono anche il padre e la madre… Se non si trattasse che della nostra opinione, se non fosse altro che la nostra arroganza, potrebbero farci tacere. Ma come far tacere la presenza silenziosa del corpo sessuato?

Che ci sia permesso – dopo il richiamo di ciò che siamo per essenza: dei meravigliati – di insistere su cinque conseguenze importanti per noi come per gli altri. Perché non siamo al riparo dall’ingratitudine, e a forza di non essere riconosciuti nel nostro meravigliarci, l’indignazione può finire per offuscare questo fondamentale meravigliarsi, e rischiamo di cadere sia nello scoraggiamento, sia in una violenza illegittima.

1. Alcuni ci accusano di essere dei «fascisti», procedimento linguistico molto riduttivo, che permette di designare un nemico senza ascoltarlo, e che si richiama precisamente ai procedimenti del fascismo storico. Altri ci tacciano semplicemente di essere dei «reazionari», come se il fatto di reagire fosse in sé un male, e non un segno di vitalità, e come se la retorica del «progresso», che è stata tanto utile al Terrore e al totalitarismo, non fosse ormai esaurita. Altri diranno che facciamo quello che facciamo perché siamo dei «cattolici», o degli «ebrei integralisti», o dei «fondamentalisti musulmani»…

Ma no, siamo soltanto dei francesi, e più semplicemente ncora sia degli uomini e delle donne, molto lontani da qualsiasi puritanesimo e da qualsiasi fondamentalismo, ci incantano le natiche e non ci repelle l’ammirazione della congiunzione improbabile del «pisello» e della «passerina» e del pancione che ne deriva. Con maggiore precisione ci si potrebbe collocare fra i fautori di un’ecologia integrale. Ma questo genere di classificazione viene rifuggita per timore di dover riconoscere le contraddizioni dei numerosi movimenti ecologisti odierni, ma anche perché non c’è niente, in fondo, che ci si può rimproverare, ovvero il rimprovero può colpirci soltanto colpendo anche il dato rappresentato dalla carne. Se siamo fascisti, bisognerebbe concludere che la natura stessa è fascista, e che è necessario eliminarla, cosa che presenta un certo numero di inconvenienti.

2. Molti non comprendono perché manifestiamo contro una riforma del codice civile che soddisfa gli interessi di qualcuno mentre non lede i nostri (non si parla, comunque, degli interessi del bambino). Effettivamente, ecco qualcosa che lascia senza parola gli utilitaristi di ogni sponda: non manifestiamo per il trionfo dei nostri interessi particolari. Cerchiamo soltanto di testimoniare ciò che è anteriore a ogni interesse, cioè il dono della nascita.

3. È esattamente ciò che arriva a nascondere lo slogan dell’«uguaglianza» che ci viene servito in tutte le salse, senza riflettere su ciò che questo termine significa, sulle minacce di livellamento che comporta, ovvero su quelle di «riduzione» che ha sempre contenuto. C’è un’evidente e naturale diseguaglianza fra la coppia formata da un uomo e una donna e quella di due uomini o di due donne.

Per rendere uguali le condizioni, è necessario ricorrere all’artificio, e passare dalla nascita alla fabbricazione, dal “born” al “made”… Dietro la pretesa legalizzazione giuridica, c’è dunque un assoggettamento tecnocratico, e il progetto di produrre persone non come persone, dunque, ma come prodotti, in base ai nostri capricci, secondo la legge della domanda e dell’offerta, in conformità ai desideri fomentati dalla pubblicità: «Un bambino à la carte, la vostra piccola cosa, l’accessorio della vostra autorealizzazione, il terzo compensatorio delle vostre frustrazioni; infine, per una modica somma, il barboncino umano!».

4. Ecco perché non siamo «omofobi». Siamo meravigliati dai gays veramente gai, dai «folli» senza gabbia, dai saggi dell’inversione. L’amore della differenza sessuale, così fondamentale, con quello della differenza generazionale (genitori/figli), ci insegna ad accogliere tutte le differenze secondarie. Se io, uomo, amo le donne, così estranee al mio sesso, come potrei non avere simpatia, se non amicizia, per gli omosessuali, che mi sono, in definitiva, molto meno estranei?

D’altra parte ce ne sono sempre stati, che non avevano paura di affermare la loro differenza, di assumere una certa eccentricità, un lavoro ai margini. Allo stesso modo, noi crediamo che ciò che è veramente «omofobo» è lo pseudo-«matrimonio gay». Siamo di fronte a un tentativo di imborghesimento, di normalizzazione dell’omofilia, di annientamento della sua scortesia sotto il codice civile. Che bel dono questo «matrimonio» che non è altro che un arrangiamento patrimoniale o un divorzio rinviato! Purché gli omosessuali rientrino nei ranghi, e che siano sterilizzati soprattutto nella fecondità che è loro propria.

Perché, chi ignora la loro fecondità artistica, politica e, letteraria, nella compassione? Gli antichi Greci la intendevano così: liberi dai doveri familiari, potevano consacrarsi maggiormente al servizio della Polis. Sapevano che i loro amori avevano qualcosa di contro-natura, ma non per questo disprezzavano la natura (di là, molto spesso, l’amore per la loro madre – vedi Proust o Barthes), e vi trovavano risorse per l’arte.

5. Come potremmo, meravigliati come siamo, lanciarci in azioni violente, denigratorie, esclusive? Una volta di più: non cerchiamo una vittoria politica. Non siamo nemmeno sicuri che ci sia veramente qualcosa da salvare in questo matrimonio privatizzato, che non ha più nulla di repubblicano da parecchio tempo. Ed è per questo che, malgrado la sconfitta legislativa (ma quando vediamo la trappola mediatica e partitica nella quale si trovano i nostri legislatori, ci domandiamo se davvero dobbiamo occuparci di questo), noi continueremo a manifestare: senza armi, senza odio, persino senza slogan, ma con la nostra piccola epifania di creature di carne, ossa e spirito.

(traduzione di Rodolfo Casadei)

© Tempi

martedì 23 aprile 2013

Partito Omosessualista Clericale


di Riccardo Cascioli

Riconosciamo le unioni delle persone dello stesso sesso, ma non chiamiamole matrimonio. L’ultimo a sostenere questa bizzarra posizione è stato l’arcivescovo Piero Marini, delegato pontificio per i Congressi Eucaristici, in una intervista rilasciata al quotidiano La Naciòn il 20 aprile a margine del Congresso Eucaristico in Costa Rica.
Rispondendo a una domanda sulla laicità dello Stato, monsignor Marini - che è stato per molti anni cerimoniere di papa Giovanni Paolo II - ha detto testualmente: «E’ necessario riconoscere le unioni delle persone dello stesso sesso, perché ci sono molte coppie che soffrono perché non vedono riconosciuti i loro diritti civili; quello che non si può riconoscere è che questa coppia sia un matrimonio».

L’uscita di monsignor Marini è sconcertante, ma non è affatto sorprendente. Perché prima di Marini altri eminenti ecclesiastici si sono fatti portavoce di questa posizione, a dimostrazione che nella Chiesa sta prendendo piede una preoccupante cultura omosessualista. Il che non significa che chi sposa queste posizioni abbia necessariamente tendenze omosessuali, semplicemente manifesta una sudditanza al pensiero oggi dominante e cerca di trovare un compromesso tra questo e la dottrina della Chiesa.

Del resto si ricorderà che all’inizio di febbraio era stato monsignor Vincenzo Paglia a esporre la stessa teoria nella sua prima, infelice, uscita da presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia. E’ davvero curioso - per non dire altro - che di fronte all’attacco globale contro la famiglia cui stiamo assistendo, che arriva da potentissime lobby internazionali, il presidente del Pontificio Consiglio si senta in dovere di esordire spezzando una lancia per il riconoscimento delle unioni gay. Unioni che notoriamente sono il cavallo di Troia per distruggere la famiglia fondata sul matrimonio.
Pensare che quel Pontificio Consiglio per la Famiglia era stato voluto da Giovanni Paolo II proprio per fare fronte in quella che lui stesso aveva definito la battaglia decisiva del Terzo millennio; e aveva messo a dirigerlo il cardinale colombiano Alfonso Lopez Trujillo, sulla cui dedizione alla causa non ci potevano essere dubbi.

Ma né l’uscita di monsignor Marini né tantomeno quella di monsignor Paglia sono casuali o estemporanee. Questa infatti è ormai diventata la posizione ufficiale della Chiesa italiana, e lo dimostra l’editoriale pubblicato da Avvenire lo scorso 13 aprile a commento delle inaudite parole del presidente della Corte Costituzionale Franco Gallo, che invitava il Parlamento al riconoscimento delle unioni gay.
Nell’occasione il professor Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani ed editorialista di punta del quotidiano della Conferenza Episcopale, cercava di minimizzare le parole di Gallo affermando che in effetti non aveva richiesto la parificazione delle unioni gay al matrimonio, ma semplicemente di garantire i diritti civili delle stesse.

E D’Agostino aggiungeva che la cosa andava sicuramente bene a patto di riconoscere tutte le convivenze: «Esistono infatti molteplici forme di convivenza espressive di bisogni umani autentici, - affermava D’Agostino - a volte accompagnate anche da rilevanti interessi economici: in questo novero possono farsi rientrare le convivenze tra fratelli, tra genitori e figli, quelle comunitarie (ad esempio a ispirazione religiosa), quelle attivate da e tra studenti universitari negli anni (non brevi) necessari a conseguire una laurea, quelle tra lavoratori immigrati, eventualmente in attesa di un ricongiungimento familiare... tutte queste forme di convivenza hanno una loro legittimità proprio perché si basano su istanze sociali e non sulla pretesa di possedere una valenza para-coniugale».
E poi concludeva: «Se il legislatore ritiene che alcune convivenze siano socialmente meritevoli di tutela patrimoniale (in specie per la possibilità che un convivente possa trovarsi senza sua colpa in una situazione di difficoltà economica) intervenga pure, anche con urgenza, ma lo faccia per tutti i conviventi e non solo per quei conviventi che danno rilievo sessuale alla loro unione».

E’ lo stesso concetto che sta dietro al disegno di legge sui “contratti di solidarietà” proposto da alcuni parlamentari cattolici, evidentemente fuorviati da qualche monsignore. Questo approccio, in realtà, fa acqua da tutte le parti.

Anzitutto, hanno mai visto D’Agostino e Paglia manifestazioni o petizioni di studenti, fratelli, lavoratori immigrati per vedersi riconosciuto il diritto non si sa bene a quale scambio patrimoniale? No, semplicemente perché per situazioni di questo genere ci sono già abbondanti strumenti di diritto privato, come del resto La Nuova BQ aveva già dettagliato a suo tempo. Casomai sono le famiglie, soprattutto quelle con figli, ad avere bisogno dell’intervento del legislatore.
Curiosamente anche il professor D’Agostino ne era consapevole almeno fino al 13 marzo scorso. In quella data, infatti, intervistato dal sito Aleteia, a una domanda sulle tutele patrimoniali per le coppie gay rispondeva: «I membri di una coppia gay hanno già a disposizione diversi strumenti di tutela: possono nominarsi reciprocamente eredi testamentari, istituire polizze sulla vita a favore del partner, intestare contratti di affitto ad entrambi. Molte situazioni della vita quotidiana sono risolte dal diritto comune». Chissà perché nel giro di qualche settimana dice qualcosa di diverso. Comunque quello che vale per i gay vale per chiunque altro.

Però ve li vedete due o tre studenti universitari intestarsi reciprocamente le polizze sulla vita o due immigrati in attesa di ricongiungimento familiare nominarsi eredi testamentari, cosa che peraltro potrebbero già fare adesso senza bisogno di una legge ad hoc?
Allora a cosa dovrebbero servire i “contratti di solidarietà” o come altro li vogliamo chiamare? Cerchiamo di non essere ipocriti, i “contratti di solidarietà” servono semplicemente a mascherare il primo passo verso il pieno riconoscimento delle unioni gay.

C’è poi un secondo punto su cui D’Agostino equivoca. Commentando le parole del presidente della Corte Costituzionale, egli infatti si appoggia all’articolo 2 della Costituzione che «parla genericamente di tutela di formazioni sociali nelle quali si svolga la personalità dell’uomo» per affermare che «tra queste è ben possibile far rientrare le convivenze».
Spiacente, ma non era questa l’intenzione di chi ha scritto e discusso quell’articolo, e non soltanto perché allora le convivenze non andassero di moda. Il professor D’Agostino, ma anche monsignor Paglia e monsignor Marini farebbero bene ad andarsi a rileggere la relazione di Giorgio La Pira della I Sottocommissione della Costituente in cui spiega i “principii relativi ai rapporti civili”, tenendo presente che la formulazione dell’articolo 2 si deve proprio a La Pira.

Ebbene, per chi ha scritto la Costituzione le “formazioni sociali” hanno anzitutto il loro fondamento nei diritti naturali della persona e sono tutti quei corpi intermedi che tutelano la persona dall’invadenza dello Stato: comunità familiare, di lavoro, religiosa, e così via.
La preoccupazione evidente era allora quella di evitare un nuovo totalitarismo, per questo si blindavano le formazioni sociali a tutela della persona. Tutto il contrario di quello che si vuole fare oggi riconoscendo le unioni gay: distruggere la famiglia per costruire un rapporto individuo-Stato. Ed avviarsi così a una nuova forma di totalitarismo.

E’ la famiglia la prima formazione sociale che intende l’articolo 2 della Costituzione, e non si può riconoscere giuridicamente una qualsiasi convivenza senza elevarla - esplicitamente o implicitamente - al rango di comunità familiare. Smentendo così clamorosamente il punto di partenza da cui partono D’Agostino e co., ovvero che sia possibile riconoscere le convivenze senza intaccare il valore della famiglia fondata sul matrimonio.
Vale a dire: chi sta portando i cattolici su questa strada si sta assumendo una responsabilità gravissima.

lunedì 22 aprile 2013

Vuoi leggere un solo autore? Che sia l'universale Plotino


Il filosofo ha conciliato la fine del pensiero antico e l'inizio di quello cristiano. Ecco perché nel gioco di chi salvare dall'oblio potrebbe vincere proprio lui...

di Marcello Veneziani

Questo articolo non commenta alcuna novità editoriale, anniversario o tema e autore di cui si discute, ma risponde alla secca domanda di una ragazza che mi chiede in una mail: se dovesse indicare un solo autore, quale filosofo consiglierebbe di leggere? Le rispondo da queste colonne, prima irritato dall'insopportabile domanda troppo semplificatrice, poi disorientato fra troppi nomi che si affollano, infine deciso come se dovessi eleggere un Presidente della repubblica platonica: Plotino.

E dico perché. La civiltà egizia, la civiltà greca, la civiltà romana. La fine del pensiero antico e l'inizio del pensiero cristiano. Quel crocevia si concentra in un punto, in un pensiero, in una biografia. Plotino, appunto.
Nato in Egitto, a Lycopolis Magna, sulle sponde del Nilo, vissuto ad Alessandria dove vide gli ultimi bagliori della civiltà egizia e della cultura alessandrina, cercatore di tracce della sapienza d'Oriente, formatosi idealmente alla Scuola d'Atene di Platone e di Aristotele, venuto a Roma a mille anni dalla sua fondazione, nei giorni in cui i Goti distruggevano la scuola platonica ateniese e in cui l'impero cominciava la parabola del suo tramonto, Plotino è l'erede di quei tre mondi e il crocevia del pensiero mediterraneo. Dopo di lui verrà Sant'Agostino, e la Patristica.

Nel suo tempo cresce la Gnosi e si diffonde il Manicheismo. A lui si deve il platonismo a Roma, con una scuola aperta anche ai politici e alle donne. A lui si deve il grande sogno della città governata dai filosofi, Platonopoli, che sarebbe sorta a due passi da Napoli. A lui si deve il primo, grande pensiero che supera il dualismo con la teoria dell'emanazione e la nostalgia del Ritorno: l'Uno emana il mondo, come i raggi del sole, e le anime avvertono il conato di tornare alle origini. Emanazione e Ritorno sono il respiro del mondo, l'Uno espira e dà fiato al mondo, il mondo inspira e torna all'Uno. A lui si deve la prima grande filosofia della bellezza che dal corpo scorre verso l'anima e dall'anima risale a Dio. La bellezza come gloria del mondo cantata dalla Luce, prefigurazione del Bello in sé.

Il pensiero di Plotino è un viaggio dalle bellezze al Bello, dagli amori all'Amore, dall'uno all'Uno. La vicenda del singolo si compie e si risolve nell'Uno. In Plotino si riconcilia il conflitto doloroso tra Omero e Platone, ossia tra Poesia e Filosofia. Sorge il Pensiero poetante, dove il rigore della teoria si sposa alla bellezza delle immagini. Logos e Mistica. Il Sole è nel suo pensiero la metafora della Luce, rivelazione dell'Essere. Il sole degli Egizi, Ra; il sole dei Greci, Apollo; il sole di Roma, Sol invictus. Come il sole, la vita di Plotino sorse a Oriente e tramontò a Occidente. Il pensiero mediterraneo si riconosce in colui che ricucì le sue sponde. Ma si avverte nel suo pensiero mistico anche traccia dei sacri testi d'Oriente, Upanishad e Vedanta.

Eppure Plotino è considerato un epigono, un tramite, un minore. Anche se il suo pensiero fecondò la dottrina cristiana e il pensiero arabo, soffiò nel platonismo medioevale e nell'alchimia, poi nell'Umanesimo e nel Rinascimento, l'idealismo e il romanticismo, da Marsilio Ficino a Schelling, fino a raggiungere nel '900 personalità differenti di ambiti differenti come Jung e Florenskij, Hillmann e Hadot, Eliade. Pure Leopardi s'innamorò di lui e a lui dedicò un dialogo, uno dei suoi pochi scritti in difesa della vita, quando Plotino riesce a dissuadere il suo allievo Porfirio, che sarà poi il suo biografo, dal desiderio di suicidarsi.

Per tutte queste ragioni, nel duemila, che consideravo anno decisivo, escatologico, dedicai un libro a Plotino. M'innamorai del suo pensiero già al liceo, lo coltivai poi dagli anni dell'università, studiando filosofia e infine pensai di salutare il passaggio di millennio con lui, il pensatore del Passaggio d'Epoca, testimone della fine del mondo antico e dei primi bagliori del cristianesimo. Ricordo quel libro come un rapimento, un'ebbrezza lucida, forse un'insolazione. Fu scritto nel mese che Plotino dedicava a Platone, in occasione del suo Natalizio, tra maggio e giugno. Benché pensato per anni e maturato attraverso vari appunti e letture, fu scritto di getto, in ventotto giorni, da una luna piena a una luna piena, con una gioia di scrivere e una facilità di scrittura, quasi che fosse già tutto dentro di me, solo da trascrivere, o se preferite un'accezione meno oracolare, da sbobinare.

Nella follia di quei giorni di beata solitudine, mi attenni a un ritmo, a un numero di pagine e a un ordito di parole che evocavano le Enneadi, i suoi 54 trattati divisi in nove opere. Quando lo terminai ero solo in casa al mare e la porta si aprì, da sola. E lo aggiunsi in appendice al libro: «Mentre scrivo queste terminali parole la porta di casa si spalanca da sola. Sarà il vento». Sarà stato il frutto di una distrazione e di un maestrale, o di un solipsista invasato. Ma in quel momento non lo pensavo, e sarei bugiardo se dicessi che ora invece lo penso (lasciateci le piccole follie).

Lo scrissi in forma di autobiografia, in prima persona, riferendomi agli ultimi anni vissuti da Plotino nella campagna di Minturno, dove morì. Era un bilancio della sua vita e del suo pensiero, attraverso i luoghi e i temi che li avevano scanditi. Gli impliciti modelli di scrittura erano Zarathustra di Nietzsche e Adriano della Yourcenar. Ma uno Zarathustra che non scende nel mondo ma risale alla sua solitudine e un Adriano che non si cura della grandezza storica ma della luce del pensiero. Dietro l'apparenza di una fictio, tutti i dettagli storici e teorici combaciavano con la realtà e così i nomi e i luoghi citati. Alcuni episodi, come l'amore per Gemina, erano invece amorose illazioni. Plotino aveva ritrosia a parlare e a scrivere di sé. Plotino si vergognava di avere un corpo, fermò il suo allievo Amerio che voleva farlo ritrarre dal pittore Carterio, aveva perfino pudore di mangiare in presenza d'altri.

Perciò immaginai di aver scritto un'autobiografia, Vita natural durante, che Plotino aveva poi annegato nel fiume del tempo, inabissandolo nelle acque del fiume Lyris. Quel fiume Liri, oggi noto come Garigliano, si ricongiungeva in una geografia poetica al fiume Nilo delle sue origini, ai fiumi Illisso e Celari di Socrate e dei suoi allievi e dei suoi dialoghi platonici, ai fiumi della sua maturità, il Tigri e l'Eufrate, crinali d'Oriente e Occidente, e infine al Tevere alle cui sponde rimase per oltre un ventennio. Il libro finisce nei fondali del fiume e si perde ogni sua traccia; e dunque quel che i lettori avevano letto in realtà non esisteva.

E così accadde davvero, perché quel libro uscì nelle librerie in un giorno assai speciale, l'11 settembre del 2001, e scomparve schiacciato da un Evento senza precedenti. I libri passano, naturalmente, ma Plotino resta. Il suo pensiero al tramonto delle civiltà è il Canto del Cigno del pensiero antico ed esprime la Nostalgia dell'Essere. Perciò se mi si chiede di indicare con uno sforzo estremo un solo Autore che racconti l'avventura del pensiero e l'eredità dei classici, benché di ardua lettura, io indico ancora oggi, come facevo da ragazzo, quel Plotino d'Egitto che seppe raccogliere l'anima del platonismo, ripensarla, rianimarla e trasmetterla viva a noi posteri. Plotino o la bellezza divina del Ritorno.

Il programma sublime


di Giorgio Masiero

Nella “Critica del giudizio” (1790), Immanuel Kant esamina i problemi dell’ordine e del fine in Natura, distinguendo nel giudizio estetico il bello dal sublime. Noi percepiamo il bello quando uno spettacolo della Natura ci si presenta in armonia con la nostra sete di libertà: allora ci compiacciamo in un sentimento che esprime l’incontro felice del sensibile col razionale. Esistono però alcuni fenomeni (la violenza d’un uragano, l’immensità del deserto o dell’oceano o del cielo, la profondità d’un abisso, l’energia d’una grande cascata, ecc.) davanti ai quali sentiamo l’impossibilità dell’intelletto ad adeguarsi alle cose. Siamo allora in presenza del sublime, dal latino sub limine, oltre la soglia (del portabile umano). Mentre nella contemplazione serena del bello il piacere è connesso alla qualità dell’oggetto ammirato, nella vertigine estatica del sublime il sentimento ci proviene dalla sua quantità illimitata.

Davanti al sublime, la nostra ragione si sente impotente a cogliere il significato profondo della Natura e si apre all’infinito e all’assoluto. Questa apertura è un’emozione estetica, non un predicato razionale, ma ci dà l’intuizione di trovarci possibilmente di fronte all’indecidibile. Nel sublime anche, dopo la percezione della nostra piccolezza con sensi di smarrimento e frustrazione, in un sussulto di razionalità ci riconosciamo comunque superiori al resto della Natura, stante il nostro essere umani, cioè le uniche creature dotate di autocoscienza e capaci così di trascendere la Natura ed ogni sua potenza.

Da giorni medito sul genoma con “giudizi riflettenti” (direbbe ancora Kant), ovvero non puramente razionali, ma tendenti a stabilire un accordo tra il razionale ed il sensibile. Ti confesso, lettore, che più mi addentro in questo fenomeno della Natura vivente, che interseca la biologia con la chimica e la cibernetica, più provo nelle viscere la consapevolezza di stare in presenza del sublime, per la complessità terrificante dell’oggetto che sembra annullarmi come essere razionale.

La necessità razionale dell’esistenza del programma genetico

Cominciamo con chiederci: esiste davvero un programma informatico contenuto da qualche parte negli organismi (vegetali, animali e umani), simile ad un programma lineare digitale della cibernetica, dove esso controlla l’azione di macchine? Pongo la domanda perché da qualche tempo, forse per lo sforzo persistentemente vano a trovare un modello dell’abiogenesi, si alzano voci dubitative o almeno riduttive nel composito campo darwinista. Ebbene, se non si crede che il pero nasce dal seme della pera per caso, e così il gattino dall’ovulo fecondato della gatta e il bambino dalla donna, essendo solo una fortunata serie di eventi ciechi a selezionare di seguito per settimane i 10 ^24÷10^25 atomi che compongono la struttura ordinata dell’individuo biologico; se non si può razionalmente credere ciò, si deve ritenere necessario razionalmente, prima ancora che da ricercare scientificamente, che nel seme o nell’ovulo fecondato d’una specie esistono già le istruzioni e il macchinario iniziale per il montaggio d’un individuo della stessa specie, a partire da un’estrazione selettiva programmata dall’ambiente della materia e dell’energia necessarie.

Questa intuizione appartiene alla filosofia classica. Tommaso d’Aquino usa il termine “seminalis ratio”, che è l’antica idea stoica del “logos spermatikos”, e ricorda che fu Agostino ad introdurre per primo il concetto nel pensiero cristiano: “È evidente che i principi attivi e passivi della generazione delle cose viventi sono i semi da cui si generano le cose viventi. Perciò Agostino opportunamente ha dato il nome di ‘cause seminali’ (seminales rationes) a tutti i principi attivi e passivi che presiedono alla generazione naturale e allo sviluppo [degli organismi viventi]” (Summa Theologiae, I, q. 115).

Non che il dottore angelico conoscesse il DNA, ovviamente: non c’erano allora gli strumenti tecnici d’indagine. Ma egli sapeva dell’esistenza d’una successione prestabilita e ordinata di forze che partendo da Dio, creatore degli enti e permanente garante della loro non ricaduta nel nulla, si esprime nella generazione di ogni vivente. Alla catena causale partecipa la Natura, tramite forze successive di cui Dio Si serve per lo sviluppo progredente nel tempo del Suo progetto mondano. Tommaso non dice quali siano le cause naturali, ma dice che ci sono e le ordina: “Le cause possono essere considerate a diversi livelli. Al primo livello […] sono principalmente e originariamente nella parola di Dio, come ‘idee prototipali’. Al secondo, esse sono in Natura, dove sono state tutte insieme create all’inizio, come ‘cause universali’. Al terzo, esse agiscono come ‘cause particolari’ in quelle cose che nel tempo sono prodotte dalle cause universali, per esempio in questa pianta e in quell’animale. Al quarto livello, sono nei semi prodotti da animali e piante. E come le cause primordiali universali produssero i primi effetti, così i semi producono gli effetti particolari attuali” (ibid.). Se il primo livello appartiene alla teologia, alla scienza naturale appartengono i livelli successivi di causazione.

Per la fisica, le “cause universali” sono il campo elettromagnetico, la gravità, le forze nucleari debole e forte: dal Big Bang, sono a monte dell’embriogenesi chimica delle diverse specie di ogni tempo. Ai livelli “terzo” e “quarto”, dove regolano lo sviluppo e prima ancora generano le unità viventi, Tommaso intendeva letteralmente 8 secoli fa quello che noi oggi chiamiamo “programma genetico”.
L’esistenza d’un programma genetico è dunque una necessità di ragione compresa fin dagli albori del pensiero occidentale.

Che cosa significa programma genetico

Stava alla scienza sperimentale individuare la base fisico-chimica del programma, e ciò è avvenuto 60 anni fa per merito di Francis Crick e James Watson con la scoperta della funzione del DNA, come ho ricordato in un altro articolo. In fondo, l’esistenza d’un programma genetico è un segno distintivo della vita rispetto alla materia inanimata. Ad una conferenza internazionale svoltasi a Modena nel 2000 sui fondamentali della vita, per prima cosa fu richiesto ai partecipanti (tutti docenti universitari) di proporre la loro personale definizione di “vita”. Anche se nessuna definizione risultò uguale ad un’altra, si poterono suddividere le risposte in due classi. Una classe risultò composta delle definizioni più disparate, come: il possesso di una certa stabilità genetica, ma allo stesso tempo di una sufficiente mutabilità, così da permettere evoluzione e adattabilità; oppure una reattività efficace agli stimoli ambientali, così da supportare la sopravvivenza e la riproduzione; ancora, la capacità di catturare, trasformare ed immagazzinare l’energia per il proprio utilizzo; ecc., ecc.

L’altra classe comprendeva invece definizioni aventi un elemento comune: la presenza d’un programma informativo. L’evidenza che nel mondo inanimato non sia mai stata osservata una sequenza di reazioni chimiche e trasformazioni fisiche, guidata da un programma d’istruzioni crittate in un codice, era già stata fatta da Ernst Mayr (uno dei padri della Sintesi Moderna) nel 1988, portandolo a definire come criterio di separazione tra organismi viventi e materia inanimata l’esistenza o l’assenza d’un codice genetico. La proposta di Mayr sanciva il riconoscimento in tutta la biologia del cosiddetto Dogma della biologia molecolare, “DNA → RNA → proteine”, che non era stato un’invenzione di creazionisti, ma l’assioma fondante della genetica moderna, così come concepita da Crick, Monod, Dobzhansky, ecc.

Trovare un modello di come un tale programma possa essersi generato per cause naturali (ovvero, risolvere l’abiogenesi) è un compito immane, forse gödelianamente indecidibile dalla ragione umana: c’è infatti una discontinuità tra la chimica di un pianeta privo di vita qual era la Terra 4 miliardi di anni fa, dopo l’LHB (l’intenso bombardamento tardivo, meteoritico), e la biochimica di appena 200 milioni di anni dopo, con la comparsa combinata
1) di un metabolismo cellulare fondato sulla chimica del carbonio;
2) d’un programma per realizzarlo istanziato in un polimero, l’enzima RNA polimerasi per la produzione di mRNA, destinato ad esser traslato in proteine;
3) di un sotto-linguaggio algoritmico, istanziato in un altro polimero, il DNA, contenente le sequenze di basi chimiche che forniscono le istruzioni iniziali all’RNA;
4) di un sistema cibernetico (le reti degli organelli della struttura cellulare), capace di eseguire le traslazioni di programma e la proteinogenesi finale.

Anche se la nostra comprensione del genoma è lungi dall’essere completa, a cominciare dall’individuazione di tutte le sub-routine (con i geni e le loro reti), lo stato dell’arte ci permette di sapere che il programma genetico è costituito di algoritmi digitali lineari, uguali a quelli che si studiano in scienza dell’informazione.

L’informazione del DNA

Il DNA umano (tutto, compreso ciò che la nostra ignoranza attuale chiama “spazzatura”) è un polimero costituito di k = 4 nucleotidi, ripetuti N = 3,2 miliardi di volte. Il numero di disposizioni con ripetizioni di N elementi su k dati è k^N, che in questo caso diviene k^N = 4^3.200.000.000 = 2^6.400.000.000. Dunque l’informazione sintattica d’un intero genoma è pari a 6,4 miliardi di bit, equivalenti a 800 MB. Davanti ai calcoli, ho cominciato a sentire un formicolio nello stomaco: era il giudizio riflettente estetico che mi stava penetrando ed avrebbe finito per soverchiarmi…

Certo, il primo moto è stato di stupore che tanta informazione risultasse concentrata in una molecola. I dispositivi convenzionali di memoria di massa hanno oggi capacità di qualche TB (1 TB ~ 10^6 MB) distribuita in ~100 cmc. Gli 800 MB del DNA sono concentrati in ~10^(-11) cmc. Il rapporto delle densità d’informazione è quindi 10^10 a favore dell’hardware al carbonio del DNA, rispetto a quello al vetro o alla ceramica dei nostri gingilli high-tech, con un gap strutturalmente incolmabile. Nessuna meraviglia che, all’insaputa degli ideologi della biologia che non hanno mai messo piede in un laboratorio e la cui fantasia narra i miti del cattivo lavoro e degli scherzi del caso, il DNA (batterico) sia studiato per essere impiegato come una scheda di memoria riscrivibile; e sia copiato nelle nanotecnologie per le sue proprietà di riconoscimento molecolare che lo rendono capace di auto-assemblarsi in strutture bidimensionali o poliedriche di complessità inarrivabile. Tali assemblati sono utilizzati con funzioni essenzialmente strutturali, per l’informazione organizzata in modo ottimale che contengono, e non come vettori d’informazione biologica. Per la sua compattezza, il DNA serve da modello anche in crittografia, nella costituzione e nell’utilizzo efficiente di cifrari sicuri.

Certo, è stato stupefacente per me scoprire la rarefazione della semantica salvata in sporadiche,preziose configurazioni del polimero. Infatti, delle k^N stringhe diverse, solo un’estrema minoranza è DNA d’un uomo, d’un animale o d’una pianta: ognuna di queste poche, sparse “frasi utili” rispecchia una differente disposizione con ripetizioni dei nucleotidi e questa sequenza detta quali proteine comporranno l’essere vivente, se l’organismo nel suo sviluppo metabolico produrrà squame o foglie, quattro gambe o due gambe, o un gambo… La stragrande maggioranza delle disposizioni sono frasi senza senso, programmi “hackerati” che non funzionano: pure chimere! Al livello primario delle relazioni atomiche, la scelta “utile” tra una specie e l’altra e tra un individuo e l’altro nella stessa specie (cioè la selezione del genotipo) avviene nella formazione dei (forti) legami 3’5’ fosfodiesterici lungo la sequenza degli acidi nucleici. Qui, chimicamente, i monomeri polimerizzano in ordine; e qui, ciberneticamente, sta la selezione del programma in quanto determinazione di una sequenza ordinata di istruzioni tra tutte le sequenze possibili. A priori solo improbabilissimamente un legame fosfodiesterico collaborerà alla semantica funzionale dell’intera sequenza integrandosi prima con le altre istruzioni agli altri nodi della sua sub-routine genica per la produzione d’una proteina e poi con le altre sub-routine del polimero per la sintesi successiva di biofunzioni concorrenti allo sviluppo d’un organismo vivente. Piuttosto, quasi sempre, una sequenza casuale darà luogo ad un crash del programma, ad un “aborto” biologico.

Nell’universo delle k^N sequenze sintattiche, le rarissime sequenze semantiche sono anche topologicamente isolate tra loro. Qualcuno potrebbe pensare di cambiare un aminoacido alla volta sperando in questo modo di passare da una sequenza utile ad un’altra. Ma accadrebbe invece, quasi inevitabilmente, che l’enzima smetterebbe di svolgere le sue precedenti funzioni, prima d’imparare ad adempiere ai suoi nuovi “doveri”, e cesserebbe di esistere…, insieme a tutto l’organismo! Il principio selettore delle poche sequenze vitali dalla turba infinita di quelle senza senso è l’enigma nel mistero dell’abiogenesi. Qui selezione naturale e caso sono impotenti. Sul legame fosfodiesterico infatti, un effetto della selezione naturale è impossibile, perché la selezione agisce solo dopo l’esecuzione del programma, sui fenotipi già sintetizzati, privilegiando tautologicamente quelli che meglio si adattano all’habitat. Anche l’effetto del caso è nullo sul legame fosfodiesterico, se consideriamo che i 200 milioni di anni in cui è precipitata l’abiogenesi equivalgono a 10^59 tempi di Planck, un periodo nel quale non possono essere avvenute in un pianeta di 10^50 atomi più di 10^109 reazioni chimiche: che sono zero rispetto alle 4^580.000 ~ 10^349.000 sequenze diverse da esplorare del batterio più semplice (come il Mycoplasma genitalium, che ha appena 580.000 coppie di basi e mezzo migliaio di geni). Nell’ipotesi panspermica, di vita proveniente da un meteorite LHB, il massimante delle reazioni chimiche sale a 10^143, ancora infinitesimo rispetto a 10^349.000.

En passant, l’isolamento delle stringhe vitali è anche una confutazione chimica della Sintesi Moderna: la fiducia neodarwiniana che, una volta calato dal cielo un progenitore ancestrale, le mutazioni casuali e la selezione naturale possano spiegare la speciazione asincrona coincide infatti con la congettura – recentemente smentita anche da un’analisi matematica del genoma di due specie diverse del genere Mus – dell’esistenza di un cammino “continuo” che, per cambi di singoli bit, trasformi il DNA di una specie in quello di ogni altra, passando sempre per applicazioni funzionanti, ovvero per specie viventi e fertili.

Ancora, ho ammirato l’estrema efficienza del sistema operativo dell’RNA, capace d’interpretare l’informazione utile alla costruzione d’un uomo da soli 800 MB di sintassi. Che cosa sono oggi 800 MB in un pc basato su Mac OS, o MS Windows, o Unix, o qualsiasi altro sistema operativo? L’album d’un centinaio di foto o la raccolta d’una decina di canzoni. 800 MB sono una stringa già corta per l’informatica da casa, sono il peso dell’applicativo Office (interpretato da Windows) che utilizzo come word processor per scrivere questo articolo. Nell’industria, 800 MB non controllerebbero un tornio a fabbricare un chiodo! Invece, la cibernetica nucleica che, dal momento del concepimento, guida i ribosomi nel citoplasma a fare un uomo si accontenta della quantità di sintassi d’un album di canzonette.

E ancora, ho preso atto con stupore che sintassi, linguaggi, sistema operativo e cibernetica sono uguali per tutte le specie viventi dei regni vegetale ed animale. Le major dell’I&CT, il cui campo è dominato per logiche di mercato dall’anarchia di decine di linguaggi e sistemi operativi non comunicanti, tutti allegramente in lotta contro l’interoperabilità reciproca, sono servite…
Sarebbero felici di apprendere tali meraviglie gli antichi filosofi, che alla seminalis ratio erano arrivati con la ragion pura molti secoli fa. Anche agli scienziati contemporanei il genoma appare meraviglioso:
“Se una particolare sequenza di aminoacidi fu selezionata a caso, quanto raro potrebbe essere un tale evento? […] La gran parte delle sequenze non potrà mai essere sintetizzata del tutto, in nessun tempo” (F. Crick, “Life Itself: Its Origin and Nature”, 1981).
Quando però mi volgo a contemplare altre due caratteristiche del genoma, la meraviglia non nomina più adeguatamente ciò ch’io provo, perché esso mi diventa inafferrabile, sublime. Queste caratteristiche sono la sua ridondanza ottimale e la sua circolarità simbolica.

La ridondanza ottimale del programma genetico

Tutti conosciamo un dizionario bilingue. Metà del libro ha una prima colonna occupata dalle parole d’una lingua ordinate alfabeticamente, e una seconda colonna occupata dalle loro corrispondenti nell’altra lingua; l’altra metà del libro inverte i posti delle due lingue. Traduzione diretta e inversa. La corrispondenza tra le due colonne non è biunivoca, perché tutte le lingue parlate sono ridondanti di sinonimi e omonimi.
In informatica una tabella di crittazione/decrittazione è un dizionario tra due programmi concatenati e consiste in una corrispondenza tra i loro simboli alfanumerici. Nel codice genetico la corrispondenza tra i 4^3 = 64 codoni dell’RNA ed i 20 aminoacidi (che concorrono alla sintesi proteica) non è biunivoca: codoni diversi codificano lo stesso aminoacido. Per es., 6 triplette diverse codificano la leucina. Questa ridondanza si chiama tecnicamente una “degenerazione” del codice.

Nei programmi artificiali ogni ridondanza origina code che occupano memoria crescente con l’uso, rallentando l’esecuzione degli algoritmi, fino a rendere inutilizzabile il programma e richiedere formattazioni e reinstallazioni. Perciò ogni programmatore cerca di ridurre al minimo le ridondanze. Quando la loro riduzione diventa un aspetto critico, per es. nelle telecomunicazioni dove la larghezza di banda non è mai abbastanza, si utilizzano tecniche approssimative di compressione dei dati, che quasi sempre comportano parziali perdite d’informazione.
A prescindere dalle ridondanze, tutti i sistemi cibernetici avanzano inesorabilmente verso il nonsenso, la disfunzione e il fallimento. La fatale causa del deterioramento graduale del loro funzionamento sta nel secondo Principio della termodinamica, che dà la freccia del tempo a tutti i moti di Natura: in complesso, dall’ordine al disordine. Così, ogni forma di energia degrada in calore inutilizzabile.

Nei sistemi industriali a controllo numerico, il tempo e l’uso logorano, oltre ai robot, i supporti fisici dove sono salvate le informazioni. Quando i simboli istanziati, i commutatori ai nodi di controllo e i circuiti elettronici si deteriorano, le istruzioni formali istanziate perdono affidabilità semantica. In una striscia di trilioni di 0 e 1, basta lo scambio d’un simbolo ad arrestare la robotica. La termodinamica evidentemente non ha effetto sui formalismi astratti progettuali, ma soltanto sui materiali della loro istanziazione; tuttavia è proprio questa entropia a causare il declino delle funzioni cibernetiche degli impianti reali, che solo dall’intervento intenzionale di un agente formale (cioè: un operatore umano) possono essere ripristinate.

A differenza dell’industria però, il codice genetico degli organismi viventi istanziato nei due polimeri non ha agenti intenzionali costantemente all’opera per riparare ogni mutazione casuale,di per sé negativamente efficace solo a deteriorare i metabolismi. Ecco allora, inaspettata, la ridondanza nella corrispondenza non biunivoca tra triplette e aminoacidi a sopperire, rafforzando il codice con un’ottimizzazione algoritmica! All’analisi informatica, la tabella delle corrispondenze è risultata un sistema di codificazione a ridondanza apparentemente pianificata a rallentare l’inquinamento genetico che l’ambiente altrimenti produrrebbe, minimizzando gli errori di traslazione nell’mRNA tra i codoni e l’inserimento degli aminoacidi durante la sintesi proteica. (Si noti: l’inquinamento è rallentato dalla ridondanza, non è azzerato: l’entropia condanna comunque la vita individuale alla morte, con buona pace delle utopie transumanistiche, nonché le specie ad una lenta involuzione; così come, comunque, consente nelle ere l’insorgenza saltuaria di quelle modifiche elementari, adattative all’ambiente ex post per selezione naturale, che sono le evoluzioni intraspecifiche).

Sorge allora la domanda: se l’alleanza del caso e del tempo può solo congiurare negativamente al livello (primo) del genotipo; se la selezione naturale può solo agire sul fenotipo, che però in quanto prodotto finito (ultimo) della programmazione risulta inefficace a migliorare gli algoritmi degli acidi nucleici; quale necessità ha pianificato e ottimizzato la ridondanza, rendendola una garante basica dell’omeostasi ed una barriera logica contro due agenti (il caso ed il tempo) incessantemente al lavoro nel genoma per l’involuzione delle specie e la loro scomparsa?

La scalata alla vetta della (relativa) stabilità non esibisce l’evidenza di uno zig zag di sentieri evolutivi usciti da una procedura per tentativi ed errori sviluppatasi casualmente in un tempo lungo generoso, ma piuttosto quella di una corsa intelligente contro un tempo ostile resa possibile da una mappa matematica iscritta in una necessità (ancora) celata. Se la biologia non è una scienza naturale “autonoma”; se, dopo Galileo, la necessità nelle scienze naturali è data dalle leggi della fisica, la tabella ridondante di traslazione RNA → aminoacidi suscita in me la vertigine di un abisso infinito. Non vedo tra i 4 campi della fisica nessun meccanismo candidabile a far da sorgente.

Gli ideologi della biologia, che non hanno mai visto un business plan e la cui immaginazione narra di geni egoisti ed autoreferenziali, saranno forse sorpresi di apprendere che la ridondanza ottimizzata del codice genetico è utilizzata in industria e in finanza per risolvere problemi non computabili, che nulla hanno a che fare con la biologia. Abbiamo visto prima che la compressione è normalmente riduttiva d’informazione. Esiste però una compressione datalossless, che non riduce l’informazione veicolata. Anche questo tipo di zippaggio purtroppo, è ottenuto in industria con tecniche approssimative, solo parzialmente soddisfacenti, perché la scelta di un codice che azzeri le ridondanze è forse un problema di complessità non computabile. Ebbene, oggi la compressione datalossless che troviamo realizzata a livello ottimale nel DNA viene utilizzata per simulare la soluzione di problemi che ci risulterebbero altrimenti insolvibili. Così, si è scoperto che l’organizzazione assemblativa delle componenti del DNA è matematicamente ottimizzata non solo in termini di spazio, ma anche di compressione logica! L’osservazione del DNA è risultata più vantaggiosa del calcolo tradizionale approssimativo via computer, sia dal punto di vista dell’energia consumata che dello spazio utilizzato.

La circolarità simbolica del programma genetico

In informatica, la progettazione dell’algoritmo (che consiste nella successione dei passi logici elementari, risolutivi di una classe di problemi) è distinta dalla stesura delle istruzioni in un qualche linguaggio, la programmazione; e questa è distinta dalla scelta del metalinguaggio che interpreta quelle istruzioni, e dal meta-metalinguaggio eventuale che interpreta le istruzioni traslate…; infine, queste operazioni sono distinte dalle tabelle di crittazione e decrittazione associate a coppie di linguaggi concatenati e dal sistema operativo usato, fino alla cibernetica finale che nel nostro caso è la sintesi proteica. Nella divulgazione si confonde ingenuamente il genoma con il sistema dei geni, ma le cose sono più complesse.
Come sa bene chi fa programmazione anche solo a livello di scuola media, la progettazione astratta (rappresentata nel diagramma di flusso) non sceglie i linguaggi informatici, per es. Pascal o Perl, dove formalizzarsi; e questi non scelgono i linguaggi interpreti, intermedi e di controllo dell’hardware, via via fino al linguaggio-macchina che compila finalmente la catena in istruzioni eseguibili fisicamente. Dato un diagramma di flusso, non c’è nulla di più gratuito, nel senso di appartenente al mondo umano della libertà e della volontà, d’ideare una catena di linguaggi informativi e di sistemi operativi (con le loro regole di traslazione reciproca) che esegua il diagramma. Questa gratuità si tocca con mano nella pletora anarchica di programmi e sistemi che competono nel mercato di applicazioni e device.

Prima ancora dell’ottimizzazione della ridondanza, le traslazioni DNA → RNA → aminoacidi pongono il problema della loro stessa esistenza simbolica. Alcuni milioni di robot per cellula (i ribosomi) leggono le molecole di mRNA (che sono la traduzione nel linguaggio dell’RNA delle sub-routine geniche del DNA) e le trascrivono in aminoacidi secondo le regole d’una (seconda) traduzione, quelle della tabella ridondante; gli aminoacidi, al ritmo di due al secondo, vengono agganciati nella costituenda proteina. Tutto perfetto, ma… i ribosomi necessari alla proteinogenesi sono macchine controllate, già bell’e pronte e ordinatamente disposte ad una catena di montaggio, ciascuna macchina essendo ingegnerizzata con una cinquantina di proteine, già bell’e pronte e ordinatamente disposte nel sotto-sistema dei singoli robot!

Alla conquista dell’abiogenesi sono stati concepiti svariati modelli, basati sull’autocatalisi di molecole organiche a sofisticazione crescente, fino alla formazione spontanea di composti capaci di riproduzione ed ereditarietà. Ma nessuno di questi modelli affronta, a mio giudizio, il nocciolo del problema, che è formale prima che chimico: poiché non esiste un nesso fisico unidirezionale (nel senso di rapporto tra causa efficiente al tempo t ed effetto misurabile al tempo t’ > t) tra la sequenza nucleotidica (programmata) e la sequenza aminoacida (funzionale), come si possono scientificamente spiegare il simbolismo e la circolarità della catena chiusa (DNA → RNA → proteine → DNA) di corrispondenze e trascrizioni? Le cause materiali ed efficienti, cui si auto-disciplina il metodo scientifico, non hanno la capacità dei programmatori umani di concettualizzare un sistema chiuso, che impiega diversi livelli collegati di rappresentazione simbolica, perché il simbolo appartiene solo all’umano. Le triplette codoniche acquisiscono un significato funzionale nella cibernetica dell’organismo vivente solo quando gli aminoacidi che esse prescrivono sono collegati in un certo ordine, che usa due linguaggi diversi.

Ma come può auto-organizzarsi un sistema olistico operativo e traslativo? I 4 campi della fisica non hanno nulla da dire sul fenomeno della traslazione linguistica. Il rompicapo logico dell’uovo e della gallina resta lì, in piedi, suscitando le vertigini dell’inconoscibile.
La computer science applicata ha molto da imparare dalla chimica degli acidi nucleici. Tratti del DNA sono dispositivi computazionali, in quanto processano input chimici che generano output come risultanti da una sequenza di operatori logici. La chimica lascia trasparire una concettualizzazione informatica, che il successo della vita dimostra essere infinitamente più avanzata della nostra grezza, basata sulla fisica dei semiconduttori. Tutti gli operatori logici (OR, AND, ecc.) e le loro composizioni, che in elettronica simuliamo con circuiti appositi, sono risultati replicabili all’interno di reazioni e fenomeni chimici. E, a un certo livello d’integrazione, la chimica perviene al processo computazionale della programmazione vera e propria. Questi polimeri logici allora, si prestano a riconfigurazioni convenienti, con applicazioni brillanti in medicina, dove la loro dimensione molecolare è un vantaggio competitivo rispetto alle controparti convenzionali a semiconduttore. Così, la logica molecolare è utilizzata nella rilevazione chimica (in particolare intracellulare) di piccoli composti e nella diagnostica “intelligente”.

Conclusioni

Senza tirare in ballo l’alterità psichica dell’Io e il mind-body problem, che sono i problemi (scientifici?) in cima all’albero della vita, già a partire dall’origine di un batterio alcuni scienziati parlano d’indecidibilità, considerandone irriducibile la complessità dell’organizzazione. Niels Bohrgiudicava “la vita consistente con la fisica e la chimica, ma da esse indecidibile” e che “l’esistenza della vita deve essere considerata come un fatto elementare (un assioma) che non può essere spiegato, ma che può solo essere preso come un punto di partenza in biologia” (“Light and Life”, Nature, 1933). Dello stesso parere Jacques Monod (in “Caso e necessità”, 1970) ed Ernst Mayr (in “Is Biology an Autonomous Science?”, 1988). Francis Crick, disperato, preferì buttarsi sulla panspermia.

Anche Stuart Kauffman, che alla ricerca dei meccanismi della vita ha dedicato il suo genio, riconosce nell’ora del ritiro che i suoi modelli fondati su complessità e confini del caos sono solo in minima parte esplicativi, e forse esclusivamente metaforici:
“L’evoluzione della biosfera supera tutte le leggi fondate sulle simmetrie [le leggi della fisica, NdR] e costruisce uno ‘spazio delle fasi’ o delle possibilità che non possiamo pre-determinare” (“The Re-Enchantment of Humanity”, 2011).

Se la fisica può studiare la materia inanimata in spazi di fase predeterminati (come, dopo la classica, fa anche la meccanica quantistica), questo non si può fare secondo Kauffman per la vita. Perché la biosfera costruisce oltre le leggi della fisica “oltre lo stesso Darwin, ed oltre anche ogni principio di ragion sufficiente, in ogni tempo la nicchia adiacente in cui evolverà. Come l’economia, la cultura e la storia umane. Noi siamo oltre Newton, Einstein, Darwin e anche Schrödinger, poiché il divenire della biosfera è fatto solo parzialmente di mutazioni quantistiche a-causali, e tuttavia non è casuale. […] Il mondo è nuovo e […] noi viviamo in un magico incanto” (ibid., grassetto mio).

Una conclusione tanto poetica quanto amara da parte di chi aveva puntato tutto sul rigore matematico per superare le narrazioni ad hoc darwiniane. Di queste aveva detto un tempo:
“L’evoluzione è piena di queste just-so story, o plausibili scenari senza alcuna evidenza empirica, storielle che amiamo raccontarci, ma su cui non dovremmo riporre alcun affidamento razionale” (S. Kauffman, At Home in the Universe, 1995)

Ed ora si ritrova ad aver raccontato altre storie, solo in un diverso stilema…

Io non condivido la perentorietà del giudizio d’indecidibilità sull’abiogenesi. Davanti alla gratuita organizzazione della vita e all’evidenza sperimentale (infalsificata) che la vita nasce solo da vita pre-esistente, provo come Kauffman un “magico incanto”. Però, con Kant (e Galileo prima di lui) distinguo il “giudizio determinante”, proprio della fredda attività razionale, dal “giudizio riflettente” che postula un’unità della Natura con i mondi umani del sentimento e della libertà e così si rifugia tra le calde braccia della teleologia. Una cosa è affermare che esistono problemi indecidibili: questa è una verità dimostrata dal primo teorema di Gödel; altro è affermare che uno specifico problema P è indecidibile: per il momento, noi conosciamo per indecidibili con certezza ben poche questioni (l’ipotesi del continuo di Cantor, il problema della tassellatura di Wang, ecc.). Per l’abiogenesi io non vedo né tocco una verità, perché nulla è stato (ancora) dimostrato con la ragion pura e nulla di determinante può essere partorito dal giudizio estetico.

Si continui dunque lo studio dei fenomeni biologici nel rispetto del metodo scientifico, senza immaginare di superare gli stalli persistenti (in primis: la precipitazione dell’abiogenesi e la speciazione asincrona) con il contrabbando del punto di vista teleologico, o fantasticando di “autonomia della biologia” (E. Mayr) dalle altre scienze (nostalgia del vitalismo?), quando all’opposto le soluzioni possono dipendere solo da una maggiore interdisciplinarità.