di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
E così, nell’Orbe cattolico è scoppiata la pace. Salvo
qualche fisiologico bastian contrario, l’elezione di papa Francesco I pare aver
messo d’accordo tutti e sopito ogni sentimento di disfida. Un evento unico in
duemila anni di storia della Chiesa, se si pensa che il bello dell’essere
appassionatamente cattolici, ammesso che si possa ancora dire, è sempre stato
il picchiarsi martellate teologiche in testa tra scuola e scuola, tra ordine e
ordine, tra carisma e carisma.
Dal 13 marzo 2013, il popolo cattolico, con grande concorso
di mondo, ha messo da parte diversità, contese e rancori per partecipare a una
interminabile ola da concerto pop in onore del nuovo papa. Tutti protagonisti
di un grande happening in cui, come in ogni evento del genere, domina la voglia
di sentirsi uguali, di identificarsi in qualcosa e in qualcuno, dimentichi di
ciò che si era fino a un secondo prima di aver comprato il biglietto.
Tanto basta perché ognuno si
senta in diritto di profetare radiosi orizzonti della “Chiesa di papa Frascesco”.
Senza un briciolo di memoria per i drammi che, fino a poc’anzi, pesavano sulla
barca di Pietro minacciando di affondarla. Pedofilia, affarismo, immoralità,
lotte di potere e tutto quanto avrebbe costretto alle dimissioni Benedetto XVI
è sparito dalle prime pagine dei giornali e dai pettegolezzi di sacrestia: non
esistono più. Basta azzardare un semplice “Speriamo…” in coda dal pizzicagnolo,
dove naturalmente anche il più anticlericale degli avventori spiega quanto gli
piace questo nuovo papa, per passare per pericolosi deviazionisti. Quei puntini
di sospensione dopo il timido e precauzionale “Speriamo” non vanno proprio giù
e ci vuole un niente per finire sul banco degli imputati, senza possibilità di
appello, in nome di una misericordia e di una tenerezza che il mondo cattolico
pare aver scoperto solo ora.
Ma questa voglia di misericordia e di tenerezza così
intransigente e intollerante non suona contraddittoria a nessuno. E’ la dura
legge del pop, verrebbe da dire parafrasando Max Pezzali i vecchi 883. Anzi,
vista l’unanime attitudine a leggere questo inizio di pontificato all’insegna
di contraddizioni che non infastidiscono neppure quei cervelli cattolici che
regnante Benedetto XVI tanto amavano il rigore della ragione, forse è giunto il
momento di parlare della dura legge del clerical-pop. Un fenomeno nuovo di
zecca che, quanto a sberleffi al principio di non-contraddizione, non è secondo
ad altri. Per fare solo un esempio, basta pensare a quella folta schiera di
conservatori che nel 2005 si sentirono al settimo cielo perché era stato eletto
Joseph Ratzinger al posto di Jorge Maria Bergoglio e ora sono al settimo cielo
perché c’è Jorge Maria Bergoglio al posto di Joseph Ratzinger.
E se qualcuno fa tanto di analizzare l’inedito unanimismo
che presiede a tali contraddizioni gli viene subito opposto l’inossidabile
argomento dell’assistenza dello Spirito Santo durante il conclave. Che però,
brandito così malamente e senza giudizio, non spiega perché tale unanimismo
sia, appunto, inedito. Per capire le stranezze del mondo d’oggi, persino di
quello cattolico, non basta aver orecchiato distrattamente qualche lezione di
teologia dogmatica, servirebbe avere almeno un po’ di pratica di Max Pezzali.
Ammesso che prima si viaggiasse tre metri sopra il cielo,
bisogna scendere qualche gradino, avendo pazienza di arrivare fino al livello
degli uomini. Qui giunti, sporcandosi le mani con giornali, siti internet,
televisioni, radio, chiacchiere da bar, da ufficio, da navata centrale di
cattedrale o da cappelletta fuori mano, si scopre che cattolici e non cattolici
hanno negli occhi le stesse immagini e sulla bocca le stesse parole d’ordine.
Poche, semplici e indiscutibili come si conviene a ciò che forma l’immaginario
collettivo. Cibo fresco per l’ingordigia dei media, ai quali non può essere
imputato di svolgere diligentemente il loro compito. Quando si alimentano
questi mostri insaziabili, magari con l’illusione di servirsene, si finisce per
venirne divorati, ruminati e rigettati così come pare a loro, sotto altre spoglie
e in altra natura.
Negli anni Settanta, Marshal McLuhan aveva un bell’avvertire
che “il mondo disincarnato in cui ci troviamo a vivere è una minaccia
formidabile alla Chiesa incarnata”. O che il mondo creato dai media elettronici
è una “un ragionevole facsimle del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione
dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo
ingegnere elettronico”. Ma nessuno lo ha ascoltato. “I teologi” diceva “non si
sono ancora nemmeno degnati di gettare uno sguardo su un simile problema”.
Così l’immagine religiosa si è fatta sempre più immaginario
collettivo sino a presentarsi in una sorta di indefinita e indefinibile
aspirazione universale in perfetto stile pop. L’icona esemplare di questo esito
è l’immagine dei due papi, Francesco e Benedetto, uno accanto all’altro. Un
frammento visivo così straniante da sembrare un quadro di Andy Warhol, una
replica dei celebri ritratti multipli di Marilyn Monroe o di Mao. D’altra
parte, Warhol era molto religioso, un parrocchiano così fervoroso e diligente
da riuscire incontrare papa Giovanni Paolo II nel lontano 1980.
Al di là del merito, di pertinenza di storici e teologi, sul
piano formale del linguaggio la visione dei due papi insieme è l’architrave
dell’inedito unanimismo che aleggia attorno a Francesco I. In purissimo spirito
pop-art, le due figure possono essere lette simultaneamente secondo criteri
diversi. Possono essere sovrapposte l’una all’altra, interpretate una come il
negativo dell’altra, oppure una come l’attenuazione o il rafforzamento
dell’altra, ma anche come sfumature diverse di una possibile terza figura e via
di questo passo. È chiaro che, a questo punto, si è innescato un meccanismo
irreversibile di repliche e di rimandi di cui finisce per godere i frutti l’immagine
dominante. Non a caso si dice immagine, poiché qui giunti poco conta che cosa
sia veramente la realtà.
L’effetto più interessante di tale fenomeno sta nella corsa
affannosa ad attribuire un proprio significato ai gesti e alle parole di papa
Francesco illudendosi di escludere tutte quelle antagoniste. Ma in tal modo,
poiché si lavora solo sull’immagine e non sulla realtà, si sta solo
partecipando alla realizzazione di un’opera collettiva. Chi pensa di fornire
una propria esclusiva interpretazione del fenomeno pop per appropriarsene non
fa altro che aggiungere la propria pennellata di colore a un’immagine ben più
forte della somma di tutte le pennellate. Tanto forte che potrebbe persino fare
a meno anche del più piccolo segno colorato. Da questo punto di vista è
genialmente funzionale la rinuncia del nuovo papa ai paramenti tradizionali che
richiamerebbero forme a cui ripugna la pennellata pop. Molto meglio quel bianco
sotto cui si intravvedono in controluce i pantaloni neri, così apparentemente
privo di personalità da indurre al tentativo di appropriarsene senza capire di
esserne assorbiti.
Attribuire un proprio significato a ciò che ha detto, ma
soprattutto fatto, sinora Francesco I non è altro che esercitare a vuoto
l’intelligenza per il semplice motivo che i piani su cui ci si muove sono
diversi. Scrive Lucio Spaziante in un saggio che, a dispetto di un titolo come Sociosemiotica del pop, si mostra di
grande godibilità e intelligenza: “La cultura pop si contraddistingue come una
cultura del fare piuttosto che del sapere, dove per lasciare spazio alla
spontaneità si preferisce non sapere, dove la pratica conta più della teoria.
Chi ascolta rock sa che in quel mondo è per la prima volta padrone di un
territorio. Non ci sono professori, non ci sono migliaia di libri da leggere,
la cultura e la politica da capire. Basta amare un cantante, a volte imitarlo,
indossare gli stessi abiti mentali e fisici e ‘ci si auto genera socialmente’.
Nel pop non c’è un reale sforzo di teorizzazione. I contenuti, per essere
esplicitati, devono essere estratti”. E poi ancora “Il pop riesce a sfondare,
in Italia come altrove, nonostante la barriera linguistica dell’inglese. Il
motivo risiede probabilmente nel fatto che il senso della parola è l’ultima
cosa che si coglie”.
Questa dismissione del senso della parola spiega quel
desiderio di identificarsi nella pop star di turno che domina attualmente nel
mondo cattolico. Una breve indagine tra parrocchie, oratori, associazioni e
movimenti mostrerebbe che ogni singolo fedele ha una propria immagine del papa.
E, se si andasse in fondo, si scoprirebbe che il collante di questa grande ola
è un vago sentimento, poco più che elementare, molto, troppo, anteriore a fede,
dottrina e morale.
Eppure, la pratica del
cattolicesimo ha sempre richiesto l’esercizio dell’intelletto e della volontà.
È con questa esigentissima ascesi della ragione, assieme alla preghiera e al
sangue dei martiri che la Chiesa ha cresciuto i propri figli e convertito il
mondo: non andando nell’arena per un concerto, ma per affrontare i leoni in
nome del Logos. “La culla della Chiesa” scriveva McLuhan “è stato l’alfabeto
greco-romano, che non è stato preparato dall’uomo, ma disegnato dalla
Provvidenza. Il fatto che la cultura greco-romana abbia contraddistinto da
sempre la maggior parte dell’umanità, poi divenuta cristiana, non è mai stato
messo in discussione. Si dà per scontato che i missionari abbiano probabilmente
ricevuto la fede dalla parola scritta”.
Era la metà degli anni Settanta, quando lo studioso canadese
scriveva queste note. Era il periodo d’oro del pop che il mondo cattolico si
avvia drammaticamente a sposare con i soliti quattro o cinque decenni di
ritardo. Il pontefice era un fior di intellettuale come Paolo VI e perciò suona
tanto più profetico tagliente quanto lo McLuhan aggiungeva a conclusione del
suoi discorso: “Vorrei che la gerarchia parlasse di più della nascita della
Chiesa nella culla dell’alfabeto greco-romano. Questa eredità culturale è
indispensabile. Il problema è che essi stessi non conoscono la risposta:
proprio non lo sanno. Non c’è nessuno nella gerarchia, Papa incluso, che sappia
queste cose. Nessuno”.
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