di Giorgio Masiero
Nella “Critica del giudizio” (1790), Immanuel Kant esamina i
problemi dell’ordine e del fine in Natura, distinguendo nel giudizio estetico
il bello dal sublime. Noi percepiamo il bello quando uno spettacolo della Natura
ci si presenta in armonia con la nostra sete di libertà: allora ci compiacciamo
in un sentimento che esprime l’incontro felice del sensibile col razionale.
Esistono però alcuni fenomeni (la violenza d’un uragano, l’immensità del
deserto o dell’oceano o del cielo, la profondità d’un abisso, l’energia d’una
grande cascata, ecc.) davanti ai quali sentiamo l’impossibilità dell’intelletto
ad adeguarsi alle cose. Siamo allora in presenza del sublime, dal latino sub
limine, oltre la soglia (del portabile umano). Mentre nella contemplazione
serena del bello il piacere è connesso alla qualità dell’oggetto ammirato,
nella vertigine estatica del sublime il sentimento ci proviene dalla sua
quantità illimitata.
Davanti al sublime, la nostra ragione si sente impotente a
cogliere il significato profondo della Natura e si apre all’infinito e
all’assoluto. Questa apertura è un’emozione estetica, non un predicato
razionale, ma ci dà l’intuizione di trovarci possibilmente di fronte
all’indecidibile. Nel sublime anche, dopo la percezione della nostra piccolezza
con sensi di smarrimento e frustrazione, in un sussulto di razionalità ci
riconosciamo comunque superiori al resto della Natura, stante il nostro essere
umani, cioè le uniche creature dotate di autocoscienza e capaci così di
trascendere la Natura ed ogni sua potenza.
Da giorni medito sul genoma con “giudizi riflettenti”
(direbbe ancora Kant), ovvero non puramente razionali, ma tendenti a stabilire
un accordo tra il razionale ed il sensibile. Ti confesso, lettore, che più mi
addentro in questo fenomeno della Natura vivente, che interseca la biologia con
la chimica e la cibernetica, più provo nelle viscere la consapevolezza di stare
in presenza del sublime, per la complessità terrificante dell’oggetto che
sembra annullarmi come essere razionale.
La necessità
razionale dell’esistenza del programma genetico
Cominciamo con chiederci: esiste davvero un programma
informatico contenuto da qualche parte negli organismi (vegetali, animali e
umani), simile ad un programma lineare digitale della cibernetica, dove esso
controlla l’azione di macchine? Pongo la domanda perché da qualche tempo, forse
per lo sforzo persistentemente vano a trovare un modello dell’abiogenesi, si
alzano voci dubitative o almeno riduttive nel composito campo darwinista.
Ebbene, se non si crede che il pero nasce dal seme della pera per caso, e così
il gattino dall’ovulo fecondato della gatta e il bambino dalla donna, essendo
solo una fortunata serie di eventi ciechi a selezionare di seguito per
settimane i 10 ^24÷10^25 atomi che compongono la struttura ordinata
dell’individuo biologico; se non si può razionalmente credere ciò, si deve
ritenere necessario razionalmente, prima ancora che da ricercare
scientificamente, che nel seme o nell’ovulo fecondato d’una specie esistono già
le istruzioni e il macchinario iniziale per il montaggio d’un individuo della
stessa specie, a partire da un’estrazione selettiva programmata dall’ambiente
della materia e dell’energia necessarie.
Questa intuizione appartiene alla filosofia classica. Tommaso
d’Aquino usa il termine “seminalis ratio”,
che è l’antica idea stoica del “logos
spermatikos”, e ricorda che fu Agostino ad introdurre per primo il concetto
nel pensiero cristiano: “È evidente che i principi attivi e passivi della generazione
delle cose viventi sono i semi da cui si generano le cose viventi. Perciò
Agostino opportunamente ha dato il nome di ‘cause seminali’ (seminales rationes) a tutti i principi
attivi e passivi che presiedono alla generazione naturale e allo sviluppo
[degli organismi viventi]” (Summa
Theologiae, I, q. 115).
Non che il dottore angelico conoscesse il DNA, ovviamente:
non c’erano allora gli strumenti tecnici d’indagine. Ma egli sapeva
dell’esistenza d’una successione prestabilita e ordinata di forze che partendo
da Dio, creatore degli enti e permanente garante della loro non ricaduta nel
nulla, si esprime nella generazione di ogni vivente. Alla catena causale
partecipa la Natura, tramite forze successive di cui Dio Si serve per lo
sviluppo progredente nel tempo del Suo progetto mondano. Tommaso non dice quali
siano le cause naturali, ma dice che ci sono e le ordina: “Le cause possono
essere considerate a diversi livelli. Al primo livello […] sono principalmente
e originariamente nella parola di Dio, come ‘idee prototipali’. Al secondo,
esse sono in Natura, dove sono state tutte insieme create all’inizio, come
‘cause universali’. Al terzo, esse agiscono come ‘cause particolari’ in quelle
cose che nel tempo sono prodotte dalle cause universali, per esempio in questa
pianta e in quell’animale. Al quarto livello, sono nei semi prodotti da animali
e piante. E come le cause primordiali universali produssero i primi effetti,
così i semi producono gli effetti particolari attuali” (ibid.). Se il primo
livello appartiene alla teologia, alla scienza naturale appartengono i livelli
successivi di causazione.
Per la fisica, le “cause universali” sono il campo
elettromagnetico, la gravità, le forze nucleari debole e forte: dal Big Bang,
sono a monte dell’embriogenesi chimica delle diverse specie di ogni tempo. Ai
livelli “terzo” e “quarto”, dove regolano lo sviluppo e prima ancora generano
le unità viventi, Tommaso intendeva letteralmente 8 secoli fa quello che noi
oggi chiamiamo “programma genetico”.
L’esistenza d’un programma genetico è dunque una necessità
di ragione compresa fin dagli albori del pensiero occidentale.
Che cosa significa
programma genetico
Stava alla scienza sperimentale individuare la base
fisico-chimica del programma, e ciò è avvenuto 60 anni fa per merito di Francis
Crick e James Watson con la scoperta della funzione del DNA, come ho ricordato
in un altro articolo. In fondo, l’esistenza d’un programma genetico è un segno
distintivo della vita rispetto alla materia inanimata. Ad una conferenza internazionale
svoltasi a Modena nel 2000 sui fondamentali della vita, per prima cosa fu
richiesto ai partecipanti (tutti docenti universitari) di proporre la loro
personale definizione di “vita”. Anche se nessuna definizione risultò uguale ad
un’altra, si poterono suddividere le risposte in due classi. Una classe risultò
composta delle definizioni più disparate, come: il possesso di una certa
stabilità genetica, ma allo stesso tempo di una sufficiente mutabilità, così da
permettere evoluzione e adattabilità; oppure una reattività efficace agli
stimoli ambientali, così da supportare la sopravvivenza e la riproduzione;
ancora, la capacità di catturare, trasformare ed immagazzinare l’energia per il
proprio utilizzo; ecc., ecc.
L’altra classe comprendeva invece definizioni aventi un
elemento comune: la presenza d’un programma informativo. L’evidenza che nel
mondo inanimato non sia mai stata osservata una sequenza di reazioni chimiche e
trasformazioni fisiche, guidata da un programma d’istruzioni crittate in un codice,
era già stata fatta da Ernst Mayr (uno dei padri della Sintesi Moderna) nel
1988, portandolo a definire come criterio di separazione tra organismi viventi
e materia inanimata l’esistenza o l’assenza d’un codice genetico. La proposta
di Mayr sanciva il riconoscimento in tutta la biologia del cosiddetto Dogma
della biologia molecolare, “DNA → RNA → proteine”, che non era stato
un’invenzione di creazionisti, ma l’assioma fondante della genetica moderna,
così come concepita da Crick, Monod, Dobzhansky, ecc.
Trovare un modello di come un tale programma possa essersi
generato per cause naturali (ovvero, risolvere l’abiogenesi) è un compito
immane, forse gödelianamente indecidibile dalla ragione umana: c’è infatti una
discontinuità tra la chimica di un pianeta privo di vita qual era la Terra 4
miliardi di anni fa, dopo l’LHB (l’intenso bombardamento tardivo, meteoritico),
e la biochimica di appena 200 milioni di anni dopo, con la comparsa combinata
1) di un metabolismo cellulare fondato sulla chimica del
carbonio;
2) d’un programma per realizzarlo istanziato in un polimero,
l’enzima RNA polimerasi per la produzione di mRNA, destinato ad esser traslato
in proteine;
3) di un sotto-linguaggio algoritmico, istanziato in un
altro polimero, il DNA, contenente le sequenze di basi chimiche che forniscono
le istruzioni iniziali all’RNA;
4) di un sistema cibernetico (le reti degli organelli della
struttura cellulare), capace di eseguire le traslazioni di programma e la
proteinogenesi finale.
Anche se la nostra comprensione del genoma è lungi
dall’essere completa, a cominciare dall’individuazione di tutte le sub-routine (con i geni e le loro reti),
lo stato dell’arte ci permette di sapere che il programma genetico è costituito
di algoritmi digitali lineari, uguali a quelli che si studiano in scienza
dell’informazione.
L’informazione del
DNA
Il DNA umano (tutto, compreso ciò che la nostra ignoranza
attuale chiama “spazzatura”) è un polimero costituito di k = 4 nucleotidi,
ripetuti N = 3,2 miliardi di volte. Il numero di disposizioni con ripetizioni
di N elementi su k dati è k^N, che in questo caso diviene k^N = 4^3.200.000.000
= 2^6.400.000.000. Dunque l’informazione sintattica d’un intero genoma è pari a
6,4 miliardi di bit, equivalenti a 800 MB. Davanti ai calcoli, ho cominciato a
sentire un formicolio nello stomaco: era il giudizio riflettente estetico che
mi stava penetrando ed avrebbe finito per soverchiarmi…
Certo, il primo moto è stato di stupore che tanta
informazione risultasse concentrata in una molecola. I dispositivi
convenzionali di memoria di massa hanno oggi capacità di qualche TB (1 TB ~
10^6 MB) distribuita in ~100 cmc. Gli 800 MB del DNA sono concentrati in
~10^(-11) cmc. Il rapporto delle densità d’informazione è quindi 10^10 a favore
dell’hardware al carbonio del DNA,
rispetto a quello al vetro o alla ceramica dei nostri gingilli high-tech, con un gap strutturalmente incolmabile. Nessuna meraviglia che,
all’insaputa degli ideologi della biologia che non hanno mai messo piede in un
laboratorio e la cui fantasia narra i miti del cattivo lavoro e degli scherzi
del caso, il DNA (batterico) sia studiato per essere impiegato come una scheda
di memoria riscrivibile; e sia copiato nelle nanotecnologie per le sue
proprietà di riconoscimento molecolare che lo rendono capace di
auto-assemblarsi in strutture bidimensionali o poliedriche di complessità
inarrivabile. Tali assemblati sono utilizzati con funzioni essenzialmente
strutturali, per l’informazione organizzata in modo ottimale che contengono, e
non come vettori d’informazione biologica. Per la sua compattezza, il DNA serve
da modello anche in crittografia, nella costituzione e nell’utilizzo efficiente
di cifrari sicuri.
Certo, è stato stupefacente per me scoprire la rarefazione
della semantica salvata in sporadiche,preziose configurazioni del polimero.
Infatti, delle k^N stringhe diverse, solo un’estrema minoranza è DNA d’un uomo,
d’un animale o d’una pianta: ognuna di queste poche, sparse “frasi utili”
rispecchia una differente disposizione con ripetizioni dei nucleotidi e questa
sequenza detta quali proteine comporranno l’essere vivente, se l’organismo nel
suo sviluppo metabolico produrrà squame o foglie, quattro gambe o due gambe, o
un gambo… La stragrande maggioranza delle disposizioni sono frasi senza senso,
programmi “hackerati” che non funzionano: pure chimere! Al livello primario
delle relazioni atomiche, la scelta “utile” tra una specie e l’altra e tra un
individuo e l’altro nella stessa specie (cioè la selezione del genotipo)
avviene nella formazione dei (forti) legami 3’5’ fosfodiesterici lungo la
sequenza degli acidi nucleici. Qui, chimicamente, i monomeri polimerizzano in
ordine; e qui, ciberneticamente, sta la selezione del programma in quanto
determinazione di una sequenza ordinata di istruzioni tra tutte le sequenze
possibili. A priori solo improbabilissimamente un legame fosfodiesterico
collaborerà alla semantica funzionale dell’intera sequenza integrandosi prima
con le altre istruzioni agli altri nodi della sua sub-routine genica per la
produzione d’una proteina e poi con le altre sub-routine del polimero per la sintesi
successiva di biofunzioni concorrenti allo sviluppo d’un organismo vivente.
Piuttosto, quasi sempre, una sequenza casuale darà luogo ad un crash del programma, ad un “aborto”
biologico.
Nell’universo delle k^N sequenze sintattiche, le rarissime
sequenze semantiche sono anche topologicamente isolate tra loro. Qualcuno
potrebbe pensare di cambiare un aminoacido alla volta sperando in questo modo
di passare da una sequenza utile ad un’altra. Ma accadrebbe invece, quasi
inevitabilmente, che l’enzima smetterebbe di svolgere le sue precedenti
funzioni, prima d’imparare ad adempiere ai suoi nuovi “doveri”, e cesserebbe di
esistere…, insieme a tutto l’organismo! Il principio selettore delle poche
sequenze vitali dalla turba infinita di quelle senza senso è l’enigma nel
mistero dell’abiogenesi. Qui selezione naturale e caso sono impotenti. Sul
legame fosfodiesterico infatti, un effetto della selezione naturale è
impossibile, perché la selezione agisce solo dopo l’esecuzione del programma,
sui fenotipi già sintetizzati, privilegiando tautologicamente quelli che meglio
si adattano all’habitat. Anche l’effetto del caso è nullo sul legame
fosfodiesterico, se consideriamo che i 200 milioni di anni in cui è precipitata
l’abiogenesi equivalgono a 10^59 tempi di Planck, un periodo nel quale non
possono essere avvenute in un pianeta di 10^50 atomi più di 10^109 reazioni
chimiche: che sono zero rispetto alle 4^580.000 ~ 10^349.000 sequenze diverse
da esplorare del batterio più semplice (come il Mycoplasma genitalium, che ha appena 580.000 coppie di basi e mezzo
migliaio di geni). Nell’ipotesi panspermica, di vita proveniente da un
meteorite LHB, il massimante delle reazioni chimiche sale a 10^143, ancora
infinitesimo rispetto a 10^349.000.
En passant, l’isolamento delle stringhe vitali è anche una
confutazione chimica della Sintesi Moderna: la fiducia neodarwiniana che, una
volta calato dal cielo un progenitore ancestrale, le mutazioni casuali e la
selezione naturale possano spiegare la speciazione asincrona coincide infatti
con la congettura – recentemente smentita anche da un’analisi matematica del
genoma di due specie diverse del genere Mus – dell’esistenza di un cammino
“continuo” che, per cambi di singoli bit, trasformi il DNA di una specie in
quello di ogni altra, passando sempre per applicazioni funzionanti, ovvero per
specie viventi e fertili.
Ancora, ho ammirato l’estrema efficienza del sistema
operativo dell’RNA, capace d’interpretare l’informazione utile alla costruzione
d’un uomo da soli 800 MB di sintassi. Che cosa sono oggi 800 MB in un pc basato
su Mac OS, o MS Windows, o Unix, o qualsiasi altro sistema operativo? L’album
d’un centinaio di foto o la raccolta d’una decina di canzoni. 800 MB sono una
stringa già corta per l’informatica da casa, sono il peso dell’applicativo
Office (interpretato da Windows) che utilizzo come word processor per scrivere questo articolo. Nell’industria, 800 MB
non controllerebbero un tornio a fabbricare un chiodo! Invece, la cibernetica
nucleica che, dal momento del concepimento, guida i ribosomi nel citoplasma a
fare un uomo si accontenta della quantità di sintassi d’un album di canzonette.
E ancora, ho preso atto con stupore che sintassi, linguaggi,
sistema operativo e cibernetica sono uguali per tutte le specie viventi dei
regni vegetale ed animale. Le major dell’I&CT, il cui campo è dominato per
logiche di mercato dall’anarchia di decine di linguaggi e sistemi operativi non
comunicanti, tutti allegramente in lotta contro l’interoperabilità reciproca,
sono servite…
Sarebbero felici di apprendere tali meraviglie gli antichi
filosofi, che alla seminalis ratio
erano arrivati con la ragion pura molti secoli fa. Anche agli scienziati
contemporanei il genoma appare meraviglioso:
“Se una particolare sequenza di aminoacidi fu selezionata a
caso, quanto raro potrebbe essere un tale evento? […] La gran parte delle
sequenze non potrà mai essere sintetizzata del tutto, in nessun tempo” (F.
Crick, “Life Itself: Its Origin and
Nature”, 1981).
Quando però mi volgo a contemplare altre due caratteristiche
del genoma, la meraviglia non nomina più adeguatamente ciò ch’io provo, perché
esso mi diventa inafferrabile, sublime. Queste caratteristiche sono la sua
ridondanza ottimale e la sua circolarità simbolica.
La ridondanza
ottimale del programma genetico
Tutti conosciamo un dizionario bilingue. Metà del libro ha
una prima colonna occupata dalle parole d’una lingua ordinate alfabeticamente,
e una seconda colonna occupata dalle loro corrispondenti nell’altra lingua;
l’altra metà del libro inverte i posti delle due lingue. Traduzione diretta e
inversa. La corrispondenza tra le due colonne non è biunivoca, perché tutte le
lingue parlate sono ridondanti di sinonimi e omonimi.
In informatica una tabella di crittazione/decrittazione è un
dizionario tra due programmi concatenati e consiste in una corrispondenza tra i
loro simboli alfanumerici. Nel codice genetico la corrispondenza tra i 4^3 = 64
codoni dell’RNA ed i 20 aminoacidi (che concorrono alla sintesi proteica) non è
biunivoca: codoni diversi codificano lo stesso aminoacido. Per es., 6 triplette
diverse codificano la leucina. Questa ridondanza si chiama tecnicamente una
“degenerazione” del codice.
Nei programmi artificiali ogni ridondanza origina code che
occupano memoria crescente con l’uso, rallentando l’esecuzione degli algoritmi,
fino a rendere inutilizzabile il programma e richiedere formattazioni e
reinstallazioni. Perciò ogni programmatore cerca di ridurre al minimo le
ridondanze. Quando la loro riduzione diventa un aspetto critico, per es. nelle
telecomunicazioni dove la larghezza di banda non è mai abbastanza, si
utilizzano tecniche approssimative di compressione dei dati, che quasi sempre
comportano parziali perdite d’informazione.
A prescindere dalle ridondanze, tutti i sistemi cibernetici
avanzano inesorabilmente verso il nonsenso, la disfunzione e il fallimento. La
fatale causa del deterioramento graduale del loro funzionamento sta nel secondo
Principio della termodinamica, che dà la freccia del tempo a tutti i moti di
Natura: in complesso, dall’ordine al disordine. Così, ogni forma di energia
degrada in calore inutilizzabile.
Nei sistemi industriali a controllo numerico, il tempo e
l’uso logorano, oltre ai robot, i supporti fisici dove sono salvate le
informazioni. Quando i simboli istanziati, i commutatori ai nodi di controllo e
i circuiti elettronici si deteriorano, le istruzioni formali istanziate perdono
affidabilità semantica. In una striscia di trilioni di 0 e 1, basta lo scambio
d’un simbolo ad arrestare la robotica. La termodinamica evidentemente non ha
effetto sui formalismi astratti progettuali, ma soltanto sui materiali della
loro istanziazione; tuttavia è proprio questa entropia a causare il declino
delle funzioni cibernetiche degli impianti reali, che solo dall’intervento
intenzionale di un agente formale (cioè: un operatore umano) possono essere
ripristinate.
A differenza dell’industria però, il codice genetico degli
organismi viventi istanziato nei due polimeri non ha agenti intenzionali
costantemente all’opera per riparare ogni mutazione casuale,di per sé
negativamente efficace solo a deteriorare i metabolismi. Ecco allora,
inaspettata, la ridondanza nella corrispondenza non biunivoca tra triplette e
aminoacidi a sopperire, rafforzando il codice con un’ottimizzazione
algoritmica! All’analisi informatica, la tabella delle corrispondenze è
risultata un sistema di codificazione a ridondanza apparentemente pianificata a
rallentare l’inquinamento genetico che l’ambiente altrimenti produrrebbe,
minimizzando gli errori di traslazione nell’mRNA tra i codoni e l’inserimento
degli aminoacidi durante la sintesi proteica. (Si noti: l’inquinamento è
rallentato dalla ridondanza, non è azzerato: l’entropia condanna comunque la
vita individuale alla morte, con buona pace delle utopie transumanistiche,
nonché le specie ad una lenta involuzione; così come, comunque, consente nelle
ere l’insorgenza saltuaria di quelle modifiche elementari, adattative
all’ambiente ex post per selezione naturale, che sono le evoluzioni
intraspecifiche).
Sorge allora la domanda: se l’alleanza del caso e del tempo
può solo congiurare negativamente al livello (primo) del genotipo; se la
selezione naturale può solo agire sul fenotipo, che però in quanto prodotto
finito (ultimo) della programmazione risulta inefficace a migliorare gli
algoritmi degli acidi nucleici; quale necessità ha pianificato e ottimizzato la
ridondanza, rendendola una garante basica dell’omeostasi ed una barriera logica
contro due agenti (il caso ed il tempo) incessantemente al lavoro nel genoma
per l’involuzione delle specie e la loro scomparsa?
La scalata alla vetta della (relativa) stabilità non
esibisce l’evidenza di uno zig zag di sentieri evolutivi usciti da una
procedura per tentativi ed errori sviluppatasi casualmente in un tempo lungo
generoso, ma piuttosto quella di una corsa intelligente contro un tempo ostile
resa possibile da una mappa matematica iscritta in una necessità (ancora)
celata. Se la biologia non è una scienza naturale “autonoma”; se, dopo Galileo,
la necessità nelle scienze naturali è data dalle leggi della fisica, la tabella
ridondante di traslazione RNA → aminoacidi suscita in me la vertigine di un
abisso infinito. Non vedo tra i 4 campi della fisica nessun meccanismo
candidabile a far da sorgente.
Gli ideologi della biologia, che non hanno mai visto un business plan e la cui immaginazione
narra di geni egoisti ed autoreferenziali, saranno forse sorpresi di apprendere
che la ridondanza ottimizzata del codice genetico è utilizzata in industria e
in finanza per risolvere problemi non computabili, che nulla hanno a che fare
con la biologia. Abbiamo visto prima che la compressione è normalmente
riduttiva d’informazione. Esiste però una compressione datalossless, che non riduce l’informazione veicolata. Anche questo
tipo di zippaggio purtroppo, è ottenuto in industria con tecniche
approssimative, solo parzialmente soddisfacenti, perché la scelta di un codice
che azzeri le ridondanze è forse un problema di complessità non computabile.
Ebbene, oggi la compressione datalossless
che troviamo realizzata a livello ottimale nel DNA viene utilizzata per
simulare la soluzione di problemi che ci risulterebbero altrimenti insolvibili.
Così, si è scoperto che l’organizzazione assemblativa delle componenti del DNA
è matematicamente ottimizzata non solo in termini di spazio, ma anche di
compressione logica! L’osservazione del DNA è risultata più vantaggiosa del
calcolo tradizionale approssimativo via computer, sia dal punto di vista
dell’energia consumata che dello spazio utilizzato.
La circolarità simbolica
del programma genetico
In informatica, la progettazione dell’algoritmo (che
consiste nella successione dei passi logici elementari, risolutivi di una
classe di problemi) è distinta dalla stesura delle istruzioni in un qualche
linguaggio, la programmazione; e questa è distinta dalla scelta del
metalinguaggio che interpreta quelle istruzioni, e dal meta-metalinguaggio
eventuale che interpreta le istruzioni traslate…; infine, queste operazioni
sono distinte dalle tabelle di crittazione e decrittazione associate a coppie
di linguaggi concatenati e dal sistema operativo usato, fino alla cibernetica
finale che nel nostro caso è la sintesi proteica. Nella divulgazione si
confonde ingenuamente il genoma con il sistema dei geni, ma le cose sono più
complesse.
Come sa bene chi fa programmazione anche solo a livello di
scuola media, la progettazione astratta (rappresentata nel diagramma di flusso)
non sceglie i linguaggi informatici, per es. Pascal o Perl, dove formalizzarsi;
e questi non scelgono i linguaggi interpreti, intermedi e di controllo
dell’hardware, via via fino al linguaggio-macchina che compila finalmente la
catena in istruzioni eseguibili fisicamente. Dato un diagramma di flusso, non
c’è nulla di più gratuito, nel senso di appartenente al mondo umano della
libertà e della volontà, d’ideare una catena di linguaggi informativi e di
sistemi operativi (con le loro regole di traslazione reciproca) che esegua il
diagramma. Questa gratuità si tocca con mano nella pletora anarchica di
programmi e sistemi che competono nel mercato di applicazioni e device.
Prima ancora dell’ottimizzazione della ridondanza, le
traslazioni DNA → RNA → aminoacidi pongono il problema della loro stessa
esistenza simbolica. Alcuni milioni di robot per cellula (i ribosomi) leggono
le molecole di mRNA (che sono la traduzione nel linguaggio dell’RNA delle
sub-routine geniche del DNA) e le trascrivono in aminoacidi secondo le regole
d’una (seconda) traduzione, quelle della tabella ridondante; gli aminoacidi, al
ritmo di due al secondo, vengono agganciati nella costituenda proteina. Tutto
perfetto, ma… i ribosomi necessari alla proteinogenesi sono macchine
controllate, già bell’e pronte e ordinatamente disposte ad una catena di
montaggio, ciascuna macchina essendo ingegnerizzata con una cinquantina di
proteine, già bell’e pronte e ordinatamente disposte nel sotto-sistema dei
singoli robot!
Alla conquista dell’abiogenesi sono stati concepiti svariati
modelli, basati sull’autocatalisi di molecole organiche a sofisticazione
crescente, fino alla formazione spontanea di composti capaci di riproduzione ed
ereditarietà. Ma nessuno di questi modelli affronta, a mio giudizio, il
nocciolo del problema, che è formale prima che chimico: poiché non esiste un
nesso fisico unidirezionale (nel senso di rapporto tra causa efficiente al
tempo t ed effetto misurabile al tempo t’ > t) tra la sequenza nucleotidica
(programmata) e la sequenza aminoacida (funzionale), come si possono
scientificamente spiegare il simbolismo e la circolarità della catena chiusa
(DNA → RNA → proteine → DNA) di corrispondenze e trascrizioni? Le cause
materiali ed efficienti, cui si auto-disciplina il metodo scientifico, non
hanno la capacità dei programmatori umani di concettualizzare un sistema
chiuso, che impiega diversi livelli collegati di rappresentazione simbolica,
perché il simbolo appartiene solo all’umano. Le triplette codoniche
acquisiscono un significato funzionale nella cibernetica dell’organismo vivente
solo quando gli aminoacidi che esse prescrivono sono collegati in un certo
ordine, che usa due linguaggi diversi.
Ma come può auto-organizzarsi un sistema olistico operativo
e traslativo? I 4 campi della fisica non hanno nulla da dire sul fenomeno della
traslazione linguistica. Il rompicapo logico dell’uovo e della gallina resta
lì, in piedi, suscitando le vertigini dell’inconoscibile.
La computer science
applicata ha molto da imparare dalla chimica degli acidi nucleici. Tratti del
DNA sono dispositivi computazionali, in quanto processano input chimici che
generano output come risultanti da una sequenza di operatori logici. La chimica
lascia trasparire una concettualizzazione informatica, che il successo della
vita dimostra essere infinitamente più avanzata della nostra grezza, basata
sulla fisica dei semiconduttori. Tutti gli operatori logici (OR, AND, ecc.) e
le loro composizioni, che in elettronica simuliamo con circuiti appositi, sono
risultati replicabili all’interno di reazioni e fenomeni chimici. E, a un certo
livello d’integrazione, la chimica perviene al processo computazionale della
programmazione vera e propria. Questi polimeri logici allora, si prestano a
riconfigurazioni convenienti, con applicazioni brillanti in medicina, dove la
loro dimensione molecolare è un vantaggio competitivo rispetto alle controparti
convenzionali a semiconduttore. Così, la logica molecolare è utilizzata nella
rilevazione chimica (in particolare intracellulare) di piccoli composti e nella
diagnostica “intelligente”.
Conclusioni
Senza tirare in ballo l’alterità psichica dell’Io e il mind-body problem, che sono i problemi
(scientifici?) in cima all’albero della vita, già a partire dall’origine di un
batterio alcuni scienziati parlano d’indecidibilità, considerandone
irriducibile la complessità dell’organizzazione. Niels Bohrgiudicava “la vita
consistente con la fisica e la chimica, ma da esse indecidibile” e che
“l’esistenza della vita deve essere considerata come un fatto elementare (un
assioma) che non può essere spiegato, ma che può solo essere preso come un
punto di partenza in biologia” (“Light
and Life”, Nature, 1933). Dello stesso parere Jacques Monod (in “Caso e necessità”, 1970) ed Ernst Mayr
(in “Is Biology an Autonomous Science?”,
1988). Francis Crick, disperato, preferì buttarsi sulla panspermia.
Anche Stuart Kauffman, che alla ricerca dei meccanismi della
vita ha dedicato il suo genio, riconosce nell’ora del ritiro che i suoi modelli
fondati su complessità e confini del caos sono solo in minima parte
esplicativi, e forse esclusivamente metaforici:
“L’evoluzione della biosfera supera tutte le leggi fondate
sulle simmetrie [le leggi della fisica, NdR] e costruisce uno ‘spazio delle
fasi’ o delle possibilità che non possiamo pre-determinare” (“The Re-Enchantment of Humanity”, 2011).
Se la fisica può studiare la materia inanimata in spazi di
fase predeterminati (come, dopo la classica, fa anche la meccanica
quantistica), questo non si può fare secondo Kauffman per la vita. Perché la
biosfera costruisce oltre le leggi della fisica “oltre lo stesso Darwin, ed
oltre anche ogni principio di ragion sufficiente, in ogni tempo la nicchia adiacente
in cui evolverà. Come l’economia, la cultura e la storia umane. Noi siamo oltre
Newton, Einstein, Darwin e anche Schrödinger, poiché il divenire della biosfera
è fatto solo parzialmente di mutazioni quantistiche a-causali, e tuttavia non è
casuale. […] Il mondo è nuovo e […] noi viviamo in un magico incanto” (ibid.,
grassetto mio).
Una conclusione tanto poetica quanto amara da parte di chi
aveva puntato tutto sul rigore matematico per superare le narrazioni ad hoc
darwiniane. Di queste aveva detto un tempo:
“L’evoluzione è piena di queste just-so story, o plausibili scenari senza alcuna evidenza empirica,
storielle che amiamo raccontarci, ma su cui non dovremmo riporre alcun
affidamento razionale” (S. Kauffman, At
Home in the Universe, 1995)
Ed ora si ritrova ad aver raccontato altre storie, solo in
un diverso stilema…
Io non condivido la perentorietà del giudizio
d’indecidibilità sull’abiogenesi. Davanti alla gratuita organizzazione della
vita e all’evidenza sperimentale (infalsificata) che la vita nasce solo da vita
pre-esistente, provo come Kauffman un “magico incanto”. Però, con Kant (e
Galileo prima di lui) distinguo il “giudizio determinante”, proprio della
fredda attività razionale, dal “giudizio riflettente” che postula un’unità
della Natura con i mondi umani del sentimento e della libertà e così si rifugia
tra le calde braccia della teleologia. Una cosa è affermare che esistono
problemi indecidibili: questa è una verità dimostrata dal primo teorema di Gödel;
altro è affermare che uno specifico problema P è indecidibile: per il momento,
noi conosciamo per indecidibili con certezza ben poche questioni (l’ipotesi del
continuo di Cantor, il problema della tassellatura di Wang, ecc.). Per
l’abiogenesi io non vedo né tocco una verità, perché nulla è stato (ancora)
dimostrato con la ragion pura e nulla di determinante può essere partorito dal
giudizio estetico.
Si continui dunque lo studio dei fenomeni biologici nel
rispetto del metodo scientifico, senza immaginare di superare gli stalli persistenti
(in primis: la precipitazione dell’abiogenesi e la speciazione asincrona) con
il contrabbando del punto di vista teleologico, o fantasticando di “autonomia
della biologia” (E. Mayr) dalle altre scienze (nostalgia del vitalismo?),
quando all’opposto le soluzioni possono dipendere solo da una maggiore
interdisciplinarità.
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