lunedì 22 aprile 2013

Il programma sublime


di Giorgio Masiero

Nella “Critica del giudizio” (1790), Immanuel Kant esamina i problemi dell’ordine e del fine in Natura, distinguendo nel giudizio estetico il bello dal sublime. Noi percepiamo il bello quando uno spettacolo della Natura ci si presenta in armonia con la nostra sete di libertà: allora ci compiacciamo in un sentimento che esprime l’incontro felice del sensibile col razionale. Esistono però alcuni fenomeni (la violenza d’un uragano, l’immensità del deserto o dell’oceano o del cielo, la profondità d’un abisso, l’energia d’una grande cascata, ecc.) davanti ai quali sentiamo l’impossibilità dell’intelletto ad adeguarsi alle cose. Siamo allora in presenza del sublime, dal latino sub limine, oltre la soglia (del portabile umano). Mentre nella contemplazione serena del bello il piacere è connesso alla qualità dell’oggetto ammirato, nella vertigine estatica del sublime il sentimento ci proviene dalla sua quantità illimitata.

Davanti al sublime, la nostra ragione si sente impotente a cogliere il significato profondo della Natura e si apre all’infinito e all’assoluto. Questa apertura è un’emozione estetica, non un predicato razionale, ma ci dà l’intuizione di trovarci possibilmente di fronte all’indecidibile. Nel sublime anche, dopo la percezione della nostra piccolezza con sensi di smarrimento e frustrazione, in un sussulto di razionalità ci riconosciamo comunque superiori al resto della Natura, stante il nostro essere umani, cioè le uniche creature dotate di autocoscienza e capaci così di trascendere la Natura ed ogni sua potenza.

Da giorni medito sul genoma con “giudizi riflettenti” (direbbe ancora Kant), ovvero non puramente razionali, ma tendenti a stabilire un accordo tra il razionale ed il sensibile. Ti confesso, lettore, che più mi addentro in questo fenomeno della Natura vivente, che interseca la biologia con la chimica e la cibernetica, più provo nelle viscere la consapevolezza di stare in presenza del sublime, per la complessità terrificante dell’oggetto che sembra annullarmi come essere razionale.

La necessità razionale dell’esistenza del programma genetico

Cominciamo con chiederci: esiste davvero un programma informatico contenuto da qualche parte negli organismi (vegetali, animali e umani), simile ad un programma lineare digitale della cibernetica, dove esso controlla l’azione di macchine? Pongo la domanda perché da qualche tempo, forse per lo sforzo persistentemente vano a trovare un modello dell’abiogenesi, si alzano voci dubitative o almeno riduttive nel composito campo darwinista. Ebbene, se non si crede che il pero nasce dal seme della pera per caso, e così il gattino dall’ovulo fecondato della gatta e il bambino dalla donna, essendo solo una fortunata serie di eventi ciechi a selezionare di seguito per settimane i 10 ^24÷10^25 atomi che compongono la struttura ordinata dell’individuo biologico; se non si può razionalmente credere ciò, si deve ritenere necessario razionalmente, prima ancora che da ricercare scientificamente, che nel seme o nell’ovulo fecondato d’una specie esistono già le istruzioni e il macchinario iniziale per il montaggio d’un individuo della stessa specie, a partire da un’estrazione selettiva programmata dall’ambiente della materia e dell’energia necessarie.

Questa intuizione appartiene alla filosofia classica. Tommaso d’Aquino usa il termine “seminalis ratio”, che è l’antica idea stoica del “logos spermatikos”, e ricorda che fu Agostino ad introdurre per primo il concetto nel pensiero cristiano: “È evidente che i principi attivi e passivi della generazione delle cose viventi sono i semi da cui si generano le cose viventi. Perciò Agostino opportunamente ha dato il nome di ‘cause seminali’ (seminales rationes) a tutti i principi attivi e passivi che presiedono alla generazione naturale e allo sviluppo [degli organismi viventi]” (Summa Theologiae, I, q. 115).

Non che il dottore angelico conoscesse il DNA, ovviamente: non c’erano allora gli strumenti tecnici d’indagine. Ma egli sapeva dell’esistenza d’una successione prestabilita e ordinata di forze che partendo da Dio, creatore degli enti e permanente garante della loro non ricaduta nel nulla, si esprime nella generazione di ogni vivente. Alla catena causale partecipa la Natura, tramite forze successive di cui Dio Si serve per lo sviluppo progredente nel tempo del Suo progetto mondano. Tommaso non dice quali siano le cause naturali, ma dice che ci sono e le ordina: “Le cause possono essere considerate a diversi livelli. Al primo livello […] sono principalmente e originariamente nella parola di Dio, come ‘idee prototipali’. Al secondo, esse sono in Natura, dove sono state tutte insieme create all’inizio, come ‘cause universali’. Al terzo, esse agiscono come ‘cause particolari’ in quelle cose che nel tempo sono prodotte dalle cause universali, per esempio in questa pianta e in quell’animale. Al quarto livello, sono nei semi prodotti da animali e piante. E come le cause primordiali universali produssero i primi effetti, così i semi producono gli effetti particolari attuali” (ibid.). Se il primo livello appartiene alla teologia, alla scienza naturale appartengono i livelli successivi di causazione.

Per la fisica, le “cause universali” sono il campo elettromagnetico, la gravità, le forze nucleari debole e forte: dal Big Bang, sono a monte dell’embriogenesi chimica delle diverse specie di ogni tempo. Ai livelli “terzo” e “quarto”, dove regolano lo sviluppo e prima ancora generano le unità viventi, Tommaso intendeva letteralmente 8 secoli fa quello che noi oggi chiamiamo “programma genetico”.
L’esistenza d’un programma genetico è dunque una necessità di ragione compresa fin dagli albori del pensiero occidentale.

Che cosa significa programma genetico

Stava alla scienza sperimentale individuare la base fisico-chimica del programma, e ciò è avvenuto 60 anni fa per merito di Francis Crick e James Watson con la scoperta della funzione del DNA, come ho ricordato in un altro articolo. In fondo, l’esistenza d’un programma genetico è un segno distintivo della vita rispetto alla materia inanimata. Ad una conferenza internazionale svoltasi a Modena nel 2000 sui fondamentali della vita, per prima cosa fu richiesto ai partecipanti (tutti docenti universitari) di proporre la loro personale definizione di “vita”. Anche se nessuna definizione risultò uguale ad un’altra, si poterono suddividere le risposte in due classi. Una classe risultò composta delle definizioni più disparate, come: il possesso di una certa stabilità genetica, ma allo stesso tempo di una sufficiente mutabilità, così da permettere evoluzione e adattabilità; oppure una reattività efficace agli stimoli ambientali, così da supportare la sopravvivenza e la riproduzione; ancora, la capacità di catturare, trasformare ed immagazzinare l’energia per il proprio utilizzo; ecc., ecc.

L’altra classe comprendeva invece definizioni aventi un elemento comune: la presenza d’un programma informativo. L’evidenza che nel mondo inanimato non sia mai stata osservata una sequenza di reazioni chimiche e trasformazioni fisiche, guidata da un programma d’istruzioni crittate in un codice, era già stata fatta da Ernst Mayr (uno dei padri della Sintesi Moderna) nel 1988, portandolo a definire come criterio di separazione tra organismi viventi e materia inanimata l’esistenza o l’assenza d’un codice genetico. La proposta di Mayr sanciva il riconoscimento in tutta la biologia del cosiddetto Dogma della biologia molecolare, “DNA → RNA → proteine”, che non era stato un’invenzione di creazionisti, ma l’assioma fondante della genetica moderna, così come concepita da Crick, Monod, Dobzhansky, ecc.

Trovare un modello di come un tale programma possa essersi generato per cause naturali (ovvero, risolvere l’abiogenesi) è un compito immane, forse gödelianamente indecidibile dalla ragione umana: c’è infatti una discontinuità tra la chimica di un pianeta privo di vita qual era la Terra 4 miliardi di anni fa, dopo l’LHB (l’intenso bombardamento tardivo, meteoritico), e la biochimica di appena 200 milioni di anni dopo, con la comparsa combinata
1) di un metabolismo cellulare fondato sulla chimica del carbonio;
2) d’un programma per realizzarlo istanziato in un polimero, l’enzima RNA polimerasi per la produzione di mRNA, destinato ad esser traslato in proteine;
3) di un sotto-linguaggio algoritmico, istanziato in un altro polimero, il DNA, contenente le sequenze di basi chimiche che forniscono le istruzioni iniziali all’RNA;
4) di un sistema cibernetico (le reti degli organelli della struttura cellulare), capace di eseguire le traslazioni di programma e la proteinogenesi finale.

Anche se la nostra comprensione del genoma è lungi dall’essere completa, a cominciare dall’individuazione di tutte le sub-routine (con i geni e le loro reti), lo stato dell’arte ci permette di sapere che il programma genetico è costituito di algoritmi digitali lineari, uguali a quelli che si studiano in scienza dell’informazione.

L’informazione del DNA

Il DNA umano (tutto, compreso ciò che la nostra ignoranza attuale chiama “spazzatura”) è un polimero costituito di k = 4 nucleotidi, ripetuti N = 3,2 miliardi di volte. Il numero di disposizioni con ripetizioni di N elementi su k dati è k^N, che in questo caso diviene k^N = 4^3.200.000.000 = 2^6.400.000.000. Dunque l’informazione sintattica d’un intero genoma è pari a 6,4 miliardi di bit, equivalenti a 800 MB. Davanti ai calcoli, ho cominciato a sentire un formicolio nello stomaco: era il giudizio riflettente estetico che mi stava penetrando ed avrebbe finito per soverchiarmi…

Certo, il primo moto è stato di stupore che tanta informazione risultasse concentrata in una molecola. I dispositivi convenzionali di memoria di massa hanno oggi capacità di qualche TB (1 TB ~ 10^6 MB) distribuita in ~100 cmc. Gli 800 MB del DNA sono concentrati in ~10^(-11) cmc. Il rapporto delle densità d’informazione è quindi 10^10 a favore dell’hardware al carbonio del DNA, rispetto a quello al vetro o alla ceramica dei nostri gingilli high-tech, con un gap strutturalmente incolmabile. Nessuna meraviglia che, all’insaputa degli ideologi della biologia che non hanno mai messo piede in un laboratorio e la cui fantasia narra i miti del cattivo lavoro e degli scherzi del caso, il DNA (batterico) sia studiato per essere impiegato come una scheda di memoria riscrivibile; e sia copiato nelle nanotecnologie per le sue proprietà di riconoscimento molecolare che lo rendono capace di auto-assemblarsi in strutture bidimensionali o poliedriche di complessità inarrivabile. Tali assemblati sono utilizzati con funzioni essenzialmente strutturali, per l’informazione organizzata in modo ottimale che contengono, e non come vettori d’informazione biologica. Per la sua compattezza, il DNA serve da modello anche in crittografia, nella costituzione e nell’utilizzo efficiente di cifrari sicuri.

Certo, è stato stupefacente per me scoprire la rarefazione della semantica salvata in sporadiche,preziose configurazioni del polimero. Infatti, delle k^N stringhe diverse, solo un’estrema minoranza è DNA d’un uomo, d’un animale o d’una pianta: ognuna di queste poche, sparse “frasi utili” rispecchia una differente disposizione con ripetizioni dei nucleotidi e questa sequenza detta quali proteine comporranno l’essere vivente, se l’organismo nel suo sviluppo metabolico produrrà squame o foglie, quattro gambe o due gambe, o un gambo… La stragrande maggioranza delle disposizioni sono frasi senza senso, programmi “hackerati” che non funzionano: pure chimere! Al livello primario delle relazioni atomiche, la scelta “utile” tra una specie e l’altra e tra un individuo e l’altro nella stessa specie (cioè la selezione del genotipo) avviene nella formazione dei (forti) legami 3’5’ fosfodiesterici lungo la sequenza degli acidi nucleici. Qui, chimicamente, i monomeri polimerizzano in ordine; e qui, ciberneticamente, sta la selezione del programma in quanto determinazione di una sequenza ordinata di istruzioni tra tutte le sequenze possibili. A priori solo improbabilissimamente un legame fosfodiesterico collaborerà alla semantica funzionale dell’intera sequenza integrandosi prima con le altre istruzioni agli altri nodi della sua sub-routine genica per la produzione d’una proteina e poi con le altre sub-routine del polimero per la sintesi successiva di biofunzioni concorrenti allo sviluppo d’un organismo vivente. Piuttosto, quasi sempre, una sequenza casuale darà luogo ad un crash del programma, ad un “aborto” biologico.

Nell’universo delle k^N sequenze sintattiche, le rarissime sequenze semantiche sono anche topologicamente isolate tra loro. Qualcuno potrebbe pensare di cambiare un aminoacido alla volta sperando in questo modo di passare da una sequenza utile ad un’altra. Ma accadrebbe invece, quasi inevitabilmente, che l’enzima smetterebbe di svolgere le sue precedenti funzioni, prima d’imparare ad adempiere ai suoi nuovi “doveri”, e cesserebbe di esistere…, insieme a tutto l’organismo! Il principio selettore delle poche sequenze vitali dalla turba infinita di quelle senza senso è l’enigma nel mistero dell’abiogenesi. Qui selezione naturale e caso sono impotenti. Sul legame fosfodiesterico infatti, un effetto della selezione naturale è impossibile, perché la selezione agisce solo dopo l’esecuzione del programma, sui fenotipi già sintetizzati, privilegiando tautologicamente quelli che meglio si adattano all’habitat. Anche l’effetto del caso è nullo sul legame fosfodiesterico, se consideriamo che i 200 milioni di anni in cui è precipitata l’abiogenesi equivalgono a 10^59 tempi di Planck, un periodo nel quale non possono essere avvenute in un pianeta di 10^50 atomi più di 10^109 reazioni chimiche: che sono zero rispetto alle 4^580.000 ~ 10^349.000 sequenze diverse da esplorare del batterio più semplice (come il Mycoplasma genitalium, che ha appena 580.000 coppie di basi e mezzo migliaio di geni). Nell’ipotesi panspermica, di vita proveniente da un meteorite LHB, il massimante delle reazioni chimiche sale a 10^143, ancora infinitesimo rispetto a 10^349.000.

En passant, l’isolamento delle stringhe vitali è anche una confutazione chimica della Sintesi Moderna: la fiducia neodarwiniana che, una volta calato dal cielo un progenitore ancestrale, le mutazioni casuali e la selezione naturale possano spiegare la speciazione asincrona coincide infatti con la congettura – recentemente smentita anche da un’analisi matematica del genoma di due specie diverse del genere Mus – dell’esistenza di un cammino “continuo” che, per cambi di singoli bit, trasformi il DNA di una specie in quello di ogni altra, passando sempre per applicazioni funzionanti, ovvero per specie viventi e fertili.

Ancora, ho ammirato l’estrema efficienza del sistema operativo dell’RNA, capace d’interpretare l’informazione utile alla costruzione d’un uomo da soli 800 MB di sintassi. Che cosa sono oggi 800 MB in un pc basato su Mac OS, o MS Windows, o Unix, o qualsiasi altro sistema operativo? L’album d’un centinaio di foto o la raccolta d’una decina di canzoni. 800 MB sono una stringa già corta per l’informatica da casa, sono il peso dell’applicativo Office (interpretato da Windows) che utilizzo come word processor per scrivere questo articolo. Nell’industria, 800 MB non controllerebbero un tornio a fabbricare un chiodo! Invece, la cibernetica nucleica che, dal momento del concepimento, guida i ribosomi nel citoplasma a fare un uomo si accontenta della quantità di sintassi d’un album di canzonette.

E ancora, ho preso atto con stupore che sintassi, linguaggi, sistema operativo e cibernetica sono uguali per tutte le specie viventi dei regni vegetale ed animale. Le major dell’I&CT, il cui campo è dominato per logiche di mercato dall’anarchia di decine di linguaggi e sistemi operativi non comunicanti, tutti allegramente in lotta contro l’interoperabilità reciproca, sono servite…
Sarebbero felici di apprendere tali meraviglie gli antichi filosofi, che alla seminalis ratio erano arrivati con la ragion pura molti secoli fa. Anche agli scienziati contemporanei il genoma appare meraviglioso:
“Se una particolare sequenza di aminoacidi fu selezionata a caso, quanto raro potrebbe essere un tale evento? […] La gran parte delle sequenze non potrà mai essere sintetizzata del tutto, in nessun tempo” (F. Crick, “Life Itself: Its Origin and Nature”, 1981).
Quando però mi volgo a contemplare altre due caratteristiche del genoma, la meraviglia non nomina più adeguatamente ciò ch’io provo, perché esso mi diventa inafferrabile, sublime. Queste caratteristiche sono la sua ridondanza ottimale e la sua circolarità simbolica.

La ridondanza ottimale del programma genetico

Tutti conosciamo un dizionario bilingue. Metà del libro ha una prima colonna occupata dalle parole d’una lingua ordinate alfabeticamente, e una seconda colonna occupata dalle loro corrispondenti nell’altra lingua; l’altra metà del libro inverte i posti delle due lingue. Traduzione diretta e inversa. La corrispondenza tra le due colonne non è biunivoca, perché tutte le lingue parlate sono ridondanti di sinonimi e omonimi.
In informatica una tabella di crittazione/decrittazione è un dizionario tra due programmi concatenati e consiste in una corrispondenza tra i loro simboli alfanumerici. Nel codice genetico la corrispondenza tra i 4^3 = 64 codoni dell’RNA ed i 20 aminoacidi (che concorrono alla sintesi proteica) non è biunivoca: codoni diversi codificano lo stesso aminoacido. Per es., 6 triplette diverse codificano la leucina. Questa ridondanza si chiama tecnicamente una “degenerazione” del codice.

Nei programmi artificiali ogni ridondanza origina code che occupano memoria crescente con l’uso, rallentando l’esecuzione degli algoritmi, fino a rendere inutilizzabile il programma e richiedere formattazioni e reinstallazioni. Perciò ogni programmatore cerca di ridurre al minimo le ridondanze. Quando la loro riduzione diventa un aspetto critico, per es. nelle telecomunicazioni dove la larghezza di banda non è mai abbastanza, si utilizzano tecniche approssimative di compressione dei dati, che quasi sempre comportano parziali perdite d’informazione.
A prescindere dalle ridondanze, tutti i sistemi cibernetici avanzano inesorabilmente verso il nonsenso, la disfunzione e il fallimento. La fatale causa del deterioramento graduale del loro funzionamento sta nel secondo Principio della termodinamica, che dà la freccia del tempo a tutti i moti di Natura: in complesso, dall’ordine al disordine. Così, ogni forma di energia degrada in calore inutilizzabile.

Nei sistemi industriali a controllo numerico, il tempo e l’uso logorano, oltre ai robot, i supporti fisici dove sono salvate le informazioni. Quando i simboli istanziati, i commutatori ai nodi di controllo e i circuiti elettronici si deteriorano, le istruzioni formali istanziate perdono affidabilità semantica. In una striscia di trilioni di 0 e 1, basta lo scambio d’un simbolo ad arrestare la robotica. La termodinamica evidentemente non ha effetto sui formalismi astratti progettuali, ma soltanto sui materiali della loro istanziazione; tuttavia è proprio questa entropia a causare il declino delle funzioni cibernetiche degli impianti reali, che solo dall’intervento intenzionale di un agente formale (cioè: un operatore umano) possono essere ripristinate.

A differenza dell’industria però, il codice genetico degli organismi viventi istanziato nei due polimeri non ha agenti intenzionali costantemente all’opera per riparare ogni mutazione casuale,di per sé negativamente efficace solo a deteriorare i metabolismi. Ecco allora, inaspettata, la ridondanza nella corrispondenza non biunivoca tra triplette e aminoacidi a sopperire, rafforzando il codice con un’ottimizzazione algoritmica! All’analisi informatica, la tabella delle corrispondenze è risultata un sistema di codificazione a ridondanza apparentemente pianificata a rallentare l’inquinamento genetico che l’ambiente altrimenti produrrebbe, minimizzando gli errori di traslazione nell’mRNA tra i codoni e l’inserimento degli aminoacidi durante la sintesi proteica. (Si noti: l’inquinamento è rallentato dalla ridondanza, non è azzerato: l’entropia condanna comunque la vita individuale alla morte, con buona pace delle utopie transumanistiche, nonché le specie ad una lenta involuzione; così come, comunque, consente nelle ere l’insorgenza saltuaria di quelle modifiche elementari, adattative all’ambiente ex post per selezione naturale, che sono le evoluzioni intraspecifiche).

Sorge allora la domanda: se l’alleanza del caso e del tempo può solo congiurare negativamente al livello (primo) del genotipo; se la selezione naturale può solo agire sul fenotipo, che però in quanto prodotto finito (ultimo) della programmazione risulta inefficace a migliorare gli algoritmi degli acidi nucleici; quale necessità ha pianificato e ottimizzato la ridondanza, rendendola una garante basica dell’omeostasi ed una barriera logica contro due agenti (il caso ed il tempo) incessantemente al lavoro nel genoma per l’involuzione delle specie e la loro scomparsa?

La scalata alla vetta della (relativa) stabilità non esibisce l’evidenza di uno zig zag di sentieri evolutivi usciti da una procedura per tentativi ed errori sviluppatasi casualmente in un tempo lungo generoso, ma piuttosto quella di una corsa intelligente contro un tempo ostile resa possibile da una mappa matematica iscritta in una necessità (ancora) celata. Se la biologia non è una scienza naturale “autonoma”; se, dopo Galileo, la necessità nelle scienze naturali è data dalle leggi della fisica, la tabella ridondante di traslazione RNA → aminoacidi suscita in me la vertigine di un abisso infinito. Non vedo tra i 4 campi della fisica nessun meccanismo candidabile a far da sorgente.

Gli ideologi della biologia, che non hanno mai visto un business plan e la cui immaginazione narra di geni egoisti ed autoreferenziali, saranno forse sorpresi di apprendere che la ridondanza ottimizzata del codice genetico è utilizzata in industria e in finanza per risolvere problemi non computabili, che nulla hanno a che fare con la biologia. Abbiamo visto prima che la compressione è normalmente riduttiva d’informazione. Esiste però una compressione datalossless, che non riduce l’informazione veicolata. Anche questo tipo di zippaggio purtroppo, è ottenuto in industria con tecniche approssimative, solo parzialmente soddisfacenti, perché la scelta di un codice che azzeri le ridondanze è forse un problema di complessità non computabile. Ebbene, oggi la compressione datalossless che troviamo realizzata a livello ottimale nel DNA viene utilizzata per simulare la soluzione di problemi che ci risulterebbero altrimenti insolvibili. Così, si è scoperto che l’organizzazione assemblativa delle componenti del DNA è matematicamente ottimizzata non solo in termini di spazio, ma anche di compressione logica! L’osservazione del DNA è risultata più vantaggiosa del calcolo tradizionale approssimativo via computer, sia dal punto di vista dell’energia consumata che dello spazio utilizzato.

La circolarità simbolica del programma genetico

In informatica, la progettazione dell’algoritmo (che consiste nella successione dei passi logici elementari, risolutivi di una classe di problemi) è distinta dalla stesura delle istruzioni in un qualche linguaggio, la programmazione; e questa è distinta dalla scelta del metalinguaggio che interpreta quelle istruzioni, e dal meta-metalinguaggio eventuale che interpreta le istruzioni traslate…; infine, queste operazioni sono distinte dalle tabelle di crittazione e decrittazione associate a coppie di linguaggi concatenati e dal sistema operativo usato, fino alla cibernetica finale che nel nostro caso è la sintesi proteica. Nella divulgazione si confonde ingenuamente il genoma con il sistema dei geni, ma le cose sono più complesse.
Come sa bene chi fa programmazione anche solo a livello di scuola media, la progettazione astratta (rappresentata nel diagramma di flusso) non sceglie i linguaggi informatici, per es. Pascal o Perl, dove formalizzarsi; e questi non scelgono i linguaggi interpreti, intermedi e di controllo dell’hardware, via via fino al linguaggio-macchina che compila finalmente la catena in istruzioni eseguibili fisicamente. Dato un diagramma di flusso, non c’è nulla di più gratuito, nel senso di appartenente al mondo umano della libertà e della volontà, d’ideare una catena di linguaggi informativi e di sistemi operativi (con le loro regole di traslazione reciproca) che esegua il diagramma. Questa gratuità si tocca con mano nella pletora anarchica di programmi e sistemi che competono nel mercato di applicazioni e device.

Prima ancora dell’ottimizzazione della ridondanza, le traslazioni DNA → RNA → aminoacidi pongono il problema della loro stessa esistenza simbolica. Alcuni milioni di robot per cellula (i ribosomi) leggono le molecole di mRNA (che sono la traduzione nel linguaggio dell’RNA delle sub-routine geniche del DNA) e le trascrivono in aminoacidi secondo le regole d’una (seconda) traduzione, quelle della tabella ridondante; gli aminoacidi, al ritmo di due al secondo, vengono agganciati nella costituenda proteina. Tutto perfetto, ma… i ribosomi necessari alla proteinogenesi sono macchine controllate, già bell’e pronte e ordinatamente disposte ad una catena di montaggio, ciascuna macchina essendo ingegnerizzata con una cinquantina di proteine, già bell’e pronte e ordinatamente disposte nel sotto-sistema dei singoli robot!

Alla conquista dell’abiogenesi sono stati concepiti svariati modelli, basati sull’autocatalisi di molecole organiche a sofisticazione crescente, fino alla formazione spontanea di composti capaci di riproduzione ed ereditarietà. Ma nessuno di questi modelli affronta, a mio giudizio, il nocciolo del problema, che è formale prima che chimico: poiché non esiste un nesso fisico unidirezionale (nel senso di rapporto tra causa efficiente al tempo t ed effetto misurabile al tempo t’ > t) tra la sequenza nucleotidica (programmata) e la sequenza aminoacida (funzionale), come si possono scientificamente spiegare il simbolismo e la circolarità della catena chiusa (DNA → RNA → proteine → DNA) di corrispondenze e trascrizioni? Le cause materiali ed efficienti, cui si auto-disciplina il metodo scientifico, non hanno la capacità dei programmatori umani di concettualizzare un sistema chiuso, che impiega diversi livelli collegati di rappresentazione simbolica, perché il simbolo appartiene solo all’umano. Le triplette codoniche acquisiscono un significato funzionale nella cibernetica dell’organismo vivente solo quando gli aminoacidi che esse prescrivono sono collegati in un certo ordine, che usa due linguaggi diversi.

Ma come può auto-organizzarsi un sistema olistico operativo e traslativo? I 4 campi della fisica non hanno nulla da dire sul fenomeno della traslazione linguistica. Il rompicapo logico dell’uovo e della gallina resta lì, in piedi, suscitando le vertigini dell’inconoscibile.
La computer science applicata ha molto da imparare dalla chimica degli acidi nucleici. Tratti del DNA sono dispositivi computazionali, in quanto processano input chimici che generano output come risultanti da una sequenza di operatori logici. La chimica lascia trasparire una concettualizzazione informatica, che il successo della vita dimostra essere infinitamente più avanzata della nostra grezza, basata sulla fisica dei semiconduttori. Tutti gli operatori logici (OR, AND, ecc.) e le loro composizioni, che in elettronica simuliamo con circuiti appositi, sono risultati replicabili all’interno di reazioni e fenomeni chimici. E, a un certo livello d’integrazione, la chimica perviene al processo computazionale della programmazione vera e propria. Questi polimeri logici allora, si prestano a riconfigurazioni convenienti, con applicazioni brillanti in medicina, dove la loro dimensione molecolare è un vantaggio competitivo rispetto alle controparti convenzionali a semiconduttore. Così, la logica molecolare è utilizzata nella rilevazione chimica (in particolare intracellulare) di piccoli composti e nella diagnostica “intelligente”.

Conclusioni

Senza tirare in ballo l’alterità psichica dell’Io e il mind-body problem, che sono i problemi (scientifici?) in cima all’albero della vita, già a partire dall’origine di un batterio alcuni scienziati parlano d’indecidibilità, considerandone irriducibile la complessità dell’organizzazione. Niels Bohrgiudicava “la vita consistente con la fisica e la chimica, ma da esse indecidibile” e che “l’esistenza della vita deve essere considerata come un fatto elementare (un assioma) che non può essere spiegato, ma che può solo essere preso come un punto di partenza in biologia” (“Light and Life”, Nature, 1933). Dello stesso parere Jacques Monod (in “Caso e necessità”, 1970) ed Ernst Mayr (in “Is Biology an Autonomous Science?”, 1988). Francis Crick, disperato, preferì buttarsi sulla panspermia.

Anche Stuart Kauffman, che alla ricerca dei meccanismi della vita ha dedicato il suo genio, riconosce nell’ora del ritiro che i suoi modelli fondati su complessità e confini del caos sono solo in minima parte esplicativi, e forse esclusivamente metaforici:
“L’evoluzione della biosfera supera tutte le leggi fondate sulle simmetrie [le leggi della fisica, NdR] e costruisce uno ‘spazio delle fasi’ o delle possibilità che non possiamo pre-determinare” (“The Re-Enchantment of Humanity”, 2011).

Se la fisica può studiare la materia inanimata in spazi di fase predeterminati (come, dopo la classica, fa anche la meccanica quantistica), questo non si può fare secondo Kauffman per la vita. Perché la biosfera costruisce oltre le leggi della fisica “oltre lo stesso Darwin, ed oltre anche ogni principio di ragion sufficiente, in ogni tempo la nicchia adiacente in cui evolverà. Come l’economia, la cultura e la storia umane. Noi siamo oltre Newton, Einstein, Darwin e anche Schrödinger, poiché il divenire della biosfera è fatto solo parzialmente di mutazioni quantistiche a-causali, e tuttavia non è casuale. […] Il mondo è nuovo e […] noi viviamo in un magico incanto” (ibid., grassetto mio).

Una conclusione tanto poetica quanto amara da parte di chi aveva puntato tutto sul rigore matematico per superare le narrazioni ad hoc darwiniane. Di queste aveva detto un tempo:
“L’evoluzione è piena di queste just-so story, o plausibili scenari senza alcuna evidenza empirica, storielle che amiamo raccontarci, ma su cui non dovremmo riporre alcun affidamento razionale” (S. Kauffman, At Home in the Universe, 1995)

Ed ora si ritrova ad aver raccontato altre storie, solo in un diverso stilema…

Io non condivido la perentorietà del giudizio d’indecidibilità sull’abiogenesi. Davanti alla gratuita organizzazione della vita e all’evidenza sperimentale (infalsificata) che la vita nasce solo da vita pre-esistente, provo come Kauffman un “magico incanto”. Però, con Kant (e Galileo prima di lui) distinguo il “giudizio determinante”, proprio della fredda attività razionale, dal “giudizio riflettente” che postula un’unità della Natura con i mondi umani del sentimento e della libertà e così si rifugia tra le calde braccia della teleologia. Una cosa è affermare che esistono problemi indecidibili: questa è una verità dimostrata dal primo teorema di Gödel; altro è affermare che uno specifico problema P è indecidibile: per il momento, noi conosciamo per indecidibili con certezza ben poche questioni (l’ipotesi del continuo di Cantor, il problema della tassellatura di Wang, ecc.). Per l’abiogenesi io non vedo né tocco una verità, perché nulla è stato (ancora) dimostrato con la ragion pura e nulla di determinante può essere partorito dal giudizio estetico.

Si continui dunque lo studio dei fenomeni biologici nel rispetto del metodo scientifico, senza immaginare di superare gli stalli persistenti (in primis: la precipitazione dell’abiogenesi e la speciazione asincrona) con il contrabbando del punto di vista teleologico, o fantasticando di “autonomia della biologia” (E. Mayr) dalle altre scienze (nostalgia del vitalismo?), quando all’opposto le soluzioni possono dipendere solo da una maggiore interdisciplinarità.

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