venerdì 19 aprile 2013

Il silenzio dei vescovi nella sfida del colle. Con Bergoglio finisce l’“interventismo”


di Paolo Rodari

Le ultime parole, pronunciate ieri, disegnano un profilo vago: «Per il Quirinale serve una persona di grande livello, di grande onestà, riconosciuta a livello nazionale e internazionale».

Qualche giorno fa, un accenno ugualmente timido. «Vede la possibilità di una donna al Quirinale?», gli hanno chiesto a margine di un convegno a Genova. «Perché no? L’importante è il livello, la capacità personale, il profilo intellettuale e morale», ha risposto il capo della Conferenza episcopale italiana pensando alle uniche due candidate al Colle che non dispiacciono alla Chiesa, il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri e la guardasigilli Paola Severino.

Per il resto silenzio. La volontà di restare fuori dalla mischia. E di alzare la voce soltanto per chiedere che il Paese si dia in fretta un governo che permetta di uscire dall’«incomprensibile stallo».

Una posizione prudente che riflette però anche un certo timore di sbagliare, di andare oltre il consentito soprattutto agli occhi di Papa Francesco che ancora, rispetto alla Cei, non ha sciolto le riserve: cosa intende fare il nuovo Papa del titolo di “primate d’Italia” che gli permette di indirizzare a suo modo la politica dell’intero episcopato? Quale Cei nascerà nell’era Bergoglio? Si tornerà alla Chiesa di Ruini che, battendo sui valori, restava al centro di un quadro di sostanziale pluralismo politico? Si adotterà il modello del segretario di Stato Bertone nel quale – con Berlusconi premier grazie al lavoro di Gianni Letta, con Monti grazie al supporto di Federico Toniato – la cosa importante era stringere legami con chi aveva il potere per dare, e soprattutto per ricevere, benefici? Oppure nascerà qualcosa di diverso, una Cei il cui capo, come ha auspicato ieri il cardinale Coccopalmerio, non sarà più eletto dal Papa ma dai vescovi stessi?

La risposta ancora non c’è. Ed è per questo che nessuno, nella Chiesa italiana, si sbilancia. E così in Vaticano dove, dicono, la candidatura del cattolico adulto Romano Prodi non è vista dal segretario di Stato Bertone, ma anche da Bagnasco, come il massimo dei sogni possibili. Ma quanto contano oggi Bertone e Bagnasco?

Di certo non come una volta. Sono lontani, infatti, i tempi degli editoriali dell’Osservatore Romano (era il 2008) che spiegavano ai fedeli come i «due colli del Quirinale e del Vaticano» fossero «molto vicini». O quelli in cui lo stesso quotidiano (era il 2006), nel giorno in cui si aprivano le votazioni per il Quirinale, addirittura si spinse a tracciare un identikit del candidato ideale che costituiva una clamorosa bocciatura di Massimo D’Alema e l’indicazione esplicita di una figura in tutto identica a Giorgio Napolitano. Ora tutto questo non c’è più.
Tanto che se è vero che la stessa Cancellieri è stata invitata a Messa nella residenza Santa Marta da Papa Francesco, ciò non costituisce un’indicazione preferenziale da parte del Pontefice che, fra l’altro, si è limitato a porre al Ministro un breve saluto.

Bagnasco conosce Cancellieri dai tempi in cui il ministro era prefetto a Genova. «Sicuramente aiuterà anche Bologna», disse non a caso il porporato nel 2010 quando Cancellieri divenne commissario prefettizio sotto le due torri.
Ma la realtà è che come Cancellieri, anche altri possono vantare solide entrature nei sacri palazzi. Oltre a Severino, avvocato dello Ior, Giuliano Amato può contare su forti legami con maggiorenti di curia che risalgono addirittura agli anni nei quali fu la mente della revisione del Concordato.

E poi il costituzionalista Sabino Cassese, stimato e in più occasioni consultato oltre Tevere per questioni giuridiche controverse in virtù della sua specializzazione di internazionalista. Nomi, dunque, apprezzati e che scavalcano quei due canali istituzionali – dalla Cei alla Segreteria di Stato – che mai come oggi paiono fuori dalla grande partita per il Quirinale.

Non così nei tempi passati. Ricorda Gianni Gennari – teologo romano alle cui messe negli anni ’70, i tempi del compromesso storico, partecipavano tutte le domeniche Franco Rodano e Tonino Tatò – che nel ’78 il Pci di Berlinguer propose Pertini per il Quirinale e che Benigno Zaccagnini, segretario della Dc, era rammaricato del fatto che i Dc non lo volevano votare, e incontrandolo quasi per caso, data la loro amicizia e vicinanza nel periodo della tragedia Moro, gli chiese cosa si pensasse di Pertini in Vaticano.

La risposta fu che era considerato un galantuomo, anche se non credente, e che godeva simpatie negli ambienti della Segreteria di Stato del cardinale Casaroli. Zaccagnini dunque volle insistere, e quasi impose alla Dc il voto favorevole. Infatti, il giorno dopo quel colloquio, Pertini fu Presidente della Repubblica.

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