Di colui cioè - il Cielo lo abbia in gloria - che sentì
la colpa della propria omosessualità.
Per favore, ridateci
Giovanni Testori
Ritratto
dell'intellettuale anticonformista e senza mezze misure scomparso 20 anni fa
di Vittorio Sgarbi
Non fui suo allievo. Non fui suo seguace né, forse, in senso
letterale, neppure suo amico. Ma gli piacqui come giovane studioso e come
giovane. Era il 1978, lui aveva 55 anni, io 25. Era arrivato a Castelfranco
Veneto non per parlare di Giorgione (durante i festeggiamenti per il quinto
centenario della nascita del grande pittore) ma per vedere le mostre che si
erano allestite per quell’occasione; e arrivò in coincidenza con un convegno al
quale io, giovanissimo studioso, e ispettore della soprintendenza, ero stato
chiamato a partecipare. Sono ancora convinto del mio pensiero d’allora, ma il
mio intervento era certamente provocatorio. Al ristretto corpus delle opere del
pittore proponevo di sottrarre anche il celebre fregio di Casa Pellizzari a
Castelfranco. Quale che fosse la bontà dei miei argomenti, Giovanni Testori ne
apprezzò la passione e ne diede notizia sul Corriere della sera.
Due anni dopo venne in visita a Vicenza per una mostra
importante da me curata: Palladio e la Maniera. Gli piacque molto e ne scrisse
una lunga recensione in terza pagina del Corriere.
Quell’articolo fu determinante per darmi una piena consapevolezza del mio
lavoro proiettandolo dalla dimensione locale a quella nazionale. In riferimento
ai miei comportamenti e ricordando di essere stato denominato, in giovinezza,
"Angelo biondo" mi definì "Pipistrello biondo". Di lì, fino
alla sua morte 13 anni dopo, iniziò il nostro rapporto fatto di ammirazione e
di condivisione.
Il mondo dell’arte contemporanea era dominato da cattivi
maestri e da artisti alla moda. Testori, dopo i contemporanei Ennio Morlotti,
Franco Francese e Gianfranco Ferroni, iniziò un lungo viaggio alla scoperta di
giovani, senza ossequi e pregiudizi, e affiancato da due mercanti d’arte, Max
Rabino e Alain Toubas, animatori della Compagnia del disegno, preparò, promosse
e sostenne decine di mostre di artisti sui quali non era mai scesa l’attenzione
della critica. Così iniziammo a guardare Willy Varlin, erede naturale di Soutine,
con i suoi ritratti vibranti e dolenti; e imparammo a conoscere lo scultore
capace di cuocere la terra come il pane per le sue umanissime terrecotte: Ilario
Fioravanti. E vedemmo, con emozione, il commovente e intimistico Paolo Vallorz.
Poi toccò ai giovani italiani, tedeschi e austriaci. E
all’orizzonte si videro i volti e i corpi di Giovanni Frangi, di Aurelio
Bertoni, di Velasco Vitali, di Fausto Faini, di Alessandro Verdi, di Luca
Crocicchi, di Andrea Martinelli; e di Rainer Fetting, di Hermann Albert, di Peter
Chevalier, di Klaus Karl Mehrkens; e, ancora, di Hubert Scheibl, di Ludwig
Meidner, di Bernd Koberling, di Karl Horst Hödicke, di Herbert Brandl, di Bernd
Zimmer, di Gunter Damisch.
Negli anni 80 e 90 con Testori si respirò aria nuova, in
assoluta indipendenza di giudizio. E, con le scoperte, vennero le stroncature,
come quella memorabile a Gae Aulenti per la sua macchinosa Gare d’Orsay.
Testori, con spirito originale e polemico, ma con profonde
radici cristiane, aveva occupato nella cultura italiana il posto lasciato da Pier
Paolo Pasolini, con editoriali spesso scandalosi in prima pagina del Corriere. Fu, in
quegli anni, l’unico intellettuale italiano autonomo dal dominante pensiero
unico, contrapponendosi agli scrittori e pensatori di regime che trovarono il
loro organo nel quotidiano La Repubblica.
Testori, che aveva scandalizzato con le sue opere letterarie
e teatrali negli anni 50 e 60, fino ad approdare per le sue
rappresentazioni al Pier Lombardo con le intense interpretazioni di Franco
Parenti e le amorose regie di Andrée Ruth Shammah, si era dichiarato vicino a don
Luigi Giussani, al movimento Comunione e liberazione, al settimanale Il Sabato, indisponibile a ogni manifestazione di
conformismo culturale e profondamente convinto della malattia mortale della
società laica e del relativismo. Potevamo essere certi che le sue posizioni non
avrebbero mostrato alcuna acquiescenza verso gli asseriti valori della cultura
dominante. In molte occasioni mi ritrovai a condividere le sue posizioni e le
sue scelte, applicandomi allo studio degli stessi artisti.
Avanzando negli anni e nell’esperienza, Testori si sentiva
sempre più attratto dalla contemporaneità. Ma la sua visione era integrale ed
era nutrita da una rara conoscenza dell’arte antica sempre meno frequente, già
ai tempi suoi, nella formazione dei critici d’arte contemporanea. Testori era
stato, con Mina Gregori, il più importante allievo di Roberto Longhi,
condividendo con lui la passione per la grande arte lombarda e padana. Toccò a
Testori rivalutare i grandi pittori lombardi dei Sacri monti, a partire da Gaudenzio
Ferrari, a Varallo. Così a lui si deve l’illustrazione del gran teatro montano
con gli affreschi e le sculture di Tanzio da Varallo, del Morazzone, del Cerano,
del Procaccini, riscoperti e ristudiati per la grande mostra sul Seicento
lombardo in Palazzo Reale a Milano.
Testori, più di Pasolini, che era stato pure allievo di Longhi,
fu poeta, romanziere, drammaturgo, storico dell’arte, critico d’arte, saggista,
con una multiforme versatilità che lo ha reso indispensabile e inevitabile per
almeno tre decenni.
Dimenticarlo è colpevole.
© Panorama
Solo Testori ci può
salvare dai buoni sentimenti
Esce l'ultimo volume delle Opere dello
scrittore lombardo, con alcuni dei suoi testi
più dirompenti. Un autore ancora oggi contro il pensiero unico
di Luca Doninelli
È finalmente in uscita per
Bompiani il terzo, attesissimo volume delle Opere di Giovanni Testori,
duemilacinquecento pagine che raccolgono gli scritti datati tra il 1978 e il
1993, anno della morte.
Sono stati gli anni della mia
amicizia con lui, quelli del suo discusso sodalizio con Cl, quelli della sua
amicizia con Don Giussani, e poi quelli del suo allontanamento da Cl, con cui
mantenne alcune grandi amicizie personali: con lo stesso Fondatore, con
Emanuele Banterle, con Riccardo Bonacina, con Franco Branciaroli - sua ultima
musa - e anche con il sottoscritto. Sono gli anni che vanno da Conversazione
con la Morte e Interrogatorio a Maria, testo affidato a una compagnia di
ragazzi, alla nascita della Compagnia de «Gli Incamminati», fino al capolavoro
estremo Tre lai, scritto nel periodo dell'infermità e trasformato cinque anni
dopo la morte del maestro in un memorabile spettacolo firmato da Sandro
Lombardi e Federico Tiezzi.
Naturalmente gli amici di
Testori, anche in questo periodo molto particolare della sua storia, furono
moltissimi, e non bisogna pensare che le svolte (anche ideologiche) che
inflisse ai suoi ammiratori cancellassero le passioni trascorse: Testori non ha
mai rinnegato nulla del suo passato, che continuò a essere per lui presente,
presentissimo anche dopo tutte le «svolte» e tutte le presunte conversioni.
Testori ha rappresentato una luce nel buio per tante persone completamente
diverse tra loro, da André Ruth Shammah a Vittorio Sgarbi fino a Giovanni
Agosti. E il suo linguaggio teatrale, dalla sua morte e sempre più fittamente
col passare degli anni, ha interrogato e affascinato drammaturghi (come Franco
Scaldati e Antonio Tarantino) e praticamente tutti i nomi più significativi
della nuova scena teatrale italiana, da Valter Malosti a Maria Paiato, da
Arianna Scommegna a Maurizio Donadoni.
Già queste poche notizie
fanno capire al lettore quanto sia difficile produrre un bilancio della fortuna
e dell'influenza di Testori sulla cultura del XX secolo e oltre. Testori era work in progress quand'era in vita e
continua a esserlo a vent'anni dalla morte. I morti sono sempre meno docili,
diceva il titolo di un vecchio romanzo latinoamericano. Per Testori è
senz'altro così. Premi, tesi di laurea e di dottorato, saggi critici,
spettacoli ispirati a lui si aggiungono, si può dire tutti i giorni, al lungo
elenco delle produzioni teatrali sui suoi testi.
Testori ha accettato con fede
la morte, e quindi la tomba, nella sua Novate. Ma niente mausolei. Come disse
una volta Vittorio Sgarbi, Testori è grande proprio perché sta fuori dalle
antologie, fuori dalle storie della letteratura. La sua grandezza risiede non
diciamo in un'espulsione (nessuno ha mai espulso Testori da nulla) ma in una
diversità radicale che non coincide né col suo stile né col dettato del suo
pensiero. Si può essere benissimo testoriani senza approvare le sue scelte
stilistiche e senza condividere il suo pensiero, come notò Giovanni Agosti nel
suo insuperabile articolo post-mortem.
Qual è, val la pensa
domandarsi, il quid che lega alla figura di Testori un numero sempre crescente
di persone interessate a tutti gli aspetti della sua opera (pittore, critico
d'arte, poeta, romanziere, autore teatrale, polemista)?
Per rispondere, bisogna
osservare come la sua posizione rispetto al Novecento abbia trovato sempre di
più, dopo la sua morte e dopo la fine del secolo, la sua chiarezza. Se, cioè,
Testori poteva apparire «oscuro» o «barocco» anche solo pochi anni prima di
morire, oggi la luce che lo investe è più forte. La prima osservazione da fare è
che Testori appartiene al Novecento secondo una linea «lombarda» che lo
collega, attraverso Gadda, ad Alessandro Manzoni: ma non il Manzoni dei profili
storici e delle antologie scolastiche, bensì quello dimesso e dismesso dalla
Letteratura con la L maiuscola, in quanto reo d'aver fotografato «così
spietatamente le magagne di casa» e d'aver interpretato «acutamente, ai fini
d'un ammonimento sublime, i fatti che sogliono ricevere un'espressione nella
retorica del giorno».
Io credo che Giovanni Testori
ci abbia aiutati come nessun altro a salvarci (o perlomeno a guardarci) dalla
«retorica del giorno», che in ogni tempo assume la sua forma effimera «ch'or
vien quinci or vien quindi» e oggi ha la faccia delle opinioni politically correct e del cosiddetto
Pensiero Unico. I turbamenti del cuore, le contraddizioni, il magone, la
necessità di un segno per poter vivere, il grido lacerante del cuore, che è
forse la salvezza dalla vera disperazione e dal suicidio, rischiano nel nostro
tempo di perdere le parole, di ripiombare nel silenzio, senza più nemmeno
l'odio contro i padri e il Padre, senza più preghiere né bestemmie, senza più
nemmeno il conforto di una brioscina. Solo buoni sentimenti corretti, moderni,
solo pensieri impeccabili. Il nostro profeta è Fabio Fazio, onore a lui.
La crisi in cui versa il
Romanzo oggi - sede di un'interminabile ripetizione - ci avvicina al cuore
della crisi umana, dell'indicibile che si celebra in forme condannate a non
diventare adulte (penso all'hip-hop delle nostre periferie urbane, al
graffitismo ecc.). A quell'indicibile, che la cultura vorrebbe far tacere
(Testori contrappose sempre la «cultura», portatrice di ideologia, all'«arte»,
fiotto creaturale anche se spesso demente), il grande maestro novatese cercò di
dare delle parole, appoggiandosi ai silenzi eloquenti dei suoi amati artisti -
da Fra Galgario a Géricault a Bacon.
Quando morì mio padre,
Giovanni mi telefonò chiedendomi come stavo. Non ci sono parole, risposi. No,
replicò lui con inattesa veemenza: le parole ci devono essere, è tuo dovere
trovarle. Oggi, molto più di venti e trent'anni fa, questa sua guerra al
silenzio ipocrita che inghiotte la parte più bella e vera dell'uomo mi pare la
sede definitiva della sua opera e della sua vita.
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