martedì 16 aprile 2013

Ancora due articoli su Giovanni Testori


Di colui cioè - il Cielo lo abbia in gloria - che sentì la colpa della propria omosessualità.

Per favore, ridateci Giovanni Testori

Ritratto dell'intellettuale anticonformista e senza mezze misure scomparso 20 anni fa

di Vittorio Sgarbi

Non fui suo allievo. Non fui suo seguace né, forse, in senso letterale, neppure suo amico. Ma gli piacqui come giovane studioso e come giovane. Era il 1978, lui aveva 55 anni, io 25. Era arrivato a Castelfranco Veneto non per parlare di Giorgione (durante i festeggiamenti per il quinto centenario della nascita del grande pittore) ma per vedere le mostre che si erano allestite per quell’occasione; e arrivò in coincidenza con un convegno al quale io, giovanissimo studioso, e ispettore della soprintendenza, ero stato chiamato a partecipare. Sono ancora convinto del mio pensiero d’allora, ma il mio intervento era certamente provocatorio. Al ristretto corpus delle opere del pittore proponevo di sottrarre anche il celebre fregio di Casa Pellizzari a Castelfranco. Quale che fosse la bontà dei miei argomenti, Giovanni Testori ne apprezzò la passione e ne diede notizia sul Corriere della sera.

Due anni dopo venne in visita a Vicenza per una mostra importante da me curata: Palladio e la Maniera. Gli piacque molto e ne scrisse una lunga recensione in terza pagina del Corriere. Quell’articolo fu determinante per darmi una piena consapevolezza del mio lavoro proiettandolo dalla dimensione locale a quella nazionale. In riferimento ai miei comportamenti e ricordando di essere stato denominato, in giovinezza, "Angelo biondo" mi definì "Pipistrello biondo". Di lì, fino alla sua morte 13 anni dopo, iniziò il nostro rapporto fatto di ammirazione e di condivisione.

Il mondo dell’arte contemporanea era dominato da cattivi maestri e da artisti alla moda. Testori, dopo i contemporanei Ennio Morlotti, Franco Francese e Gianfranco Ferroni, iniziò un lungo viaggio alla scoperta di giovani, senza ossequi e pregiudizi, e affiancato da due mercanti d’arte, Max Rabino e Alain Toubas, animatori della Compagnia del disegno, preparò, promosse e sostenne decine di mostre di artisti sui quali non era mai scesa l’attenzione della critica. Così iniziammo a guardare Willy Varlin, erede naturale di Soutine, con i suoi ritratti vibranti e dolenti; e imparammo a conoscere lo scultore capace di cuocere la terra come il pane per le sue umanissime terrecotte: Ilario Fioravanti. E vedemmo, con emozione, il commovente e intimistico Paolo Vallorz.

Poi toccò ai giovani italiani, tedeschi e austriaci. E all’orizzonte si videro i volti e i corpi di Giovanni Frangi, di Aurelio Bertoni, di Velasco Vitali, di Fausto Faini, di Alessandro Verdi, di Luca Crocicchi, di Andrea Martinelli; e di Rainer Fetting, di Hermann Albert, di Peter Chevalier, di Klaus Karl Mehrkens; e, ancora, di Hubert Scheibl, di Ludwig Meidner, di Bernd Koberling, di Karl Horst Hödicke, di Herbert Brandl, di Bernd Zimmer, di Gunter Damisch.

Negli anni 80 e 90 con Testori si respirò aria nuova, in assoluta indipendenza di giudizio. E, con le scoperte, vennero le stroncature, come quella memorabile a Gae Aulenti per la sua macchinosa Gare d’Orsay.
Testori, con spirito originale e polemico, ma con profonde radici cristiane, aveva occupato nella cultura italiana il posto lasciato da Pier Paolo Pasolini, con editoriali spesso scandalosi in prima pagina del Corriere. Fu, in quegli anni, l’unico intellettuale italiano autonomo dal dominante pensiero unico, contrapponendosi agli scrittori e pensatori di regime che trovarono il loro organo nel quotidiano La Repubblica.

Testori, che aveva scandalizzato con le sue opere letterarie e teatrali negli anni 50 e 60, fino ad approdare per le sue rappresentazioni al Pier Lombardo con le intense interpretazioni di Franco Parenti e le amorose regie di Andrée Ruth Shammah, si era dichiarato vicino a don Luigi Giussani, al movimento Comunione e liberazione, al settimanale Il Sabato, indisponibile a ogni manifestazione di conformismo culturale e profondamente convinto della malattia mortale della società laica e del relativismo. Potevamo essere certi che le sue posizioni non avrebbero mostrato alcuna acquiescenza verso gli asseriti valori della cultura dominante. In molte occasioni mi ritrovai a condividere le sue posizioni e le sue scelte, applicandomi allo studio degli stessi artisti.

Avanzando negli anni e nell’esperienza, Testori si sentiva sempre più attratto dalla contemporaneità. Ma la sua visione era integrale ed era nutrita da una rara conoscenza dell’arte antica sempre meno frequente, già ai tempi suoi, nella formazione dei critici d’arte contemporanea. Testori era stato, con Mina Gregori, il più importante allievo di Roberto Longhi, condividendo con lui la passione per la grande arte lombarda e padana. Toccò a Testori rivalutare i grandi pittori lombardi dei Sacri monti, a partire da Gaudenzio Ferrari, a Varallo. Così a lui si deve l’illustrazione del gran teatro montano con gli affreschi e le sculture di Tanzio da Varallo, del Morazzone, del Cerano, del Procaccini, riscoperti e ristudiati per la grande mostra sul Seicento lombardo in Palazzo Reale a Milano.

Testori, più di Pasolini, che era stato pure allievo di Longhi, fu poeta, romanziere, drammaturgo, storico dell’arte, critico d’arte, saggista, con una multiforme versatilità che lo ha reso indispensabile e inevitabile per almeno tre decenni.
Dimenticarlo è colpevole.



Solo Testori ci può salvare dai buoni sentimenti

Esce l'ultimo volume delle Opere dello scrittore lombardo, con alcuni dei suoi testi più dirompenti. Un autore ancora oggi contro il pensiero unico

di Luca Doninelli

È finalmente in uscita per Bompiani il terzo, attesissimo volume delle Opere di Giovanni Testori, duemilacinquecento pagine che raccolgono gli scritti datati tra il 1978 e il 1993, anno della morte.

Sono stati gli anni della mia amicizia con lui, quelli del suo discusso sodalizio con Cl, quelli della sua amicizia con Don Giussani, e poi quelli del suo allontanamento da Cl, con cui mantenne alcune grandi amicizie personali: con lo stesso Fondatore, con Emanuele Banterle, con Riccardo Bonacina, con Franco Branciaroli - sua ultima musa - e anche con il sottoscritto. Sono gli anni che vanno da Conversazione con la Morte e Interrogatorio a Maria, testo affidato a una compagnia di ragazzi, alla nascita della Compagnia de «Gli Incamminati», fino al capolavoro estremo Tre lai, scritto nel periodo dell'infermità e trasformato cinque anni dopo la morte del maestro in un memorabile spettacolo firmato da Sandro Lombardi e Federico Tiezzi.

Naturalmente gli amici di Testori, anche in questo periodo molto particolare della sua storia, furono moltissimi, e non bisogna pensare che le svolte (anche ideologiche) che inflisse ai suoi ammiratori cancellassero le passioni trascorse: Testori non ha mai rinnegato nulla del suo passato, che continuò a essere per lui presente, presentissimo anche dopo tutte le «svolte» e tutte le presunte conversioni. Testori ha rappresentato una luce nel buio per tante persone completamente diverse tra loro, da André Ruth Shammah a Vittorio Sgarbi fino a Giovanni Agosti. E il suo linguaggio teatrale, dalla sua morte e sempre più fittamente col passare degli anni, ha interrogato e affascinato drammaturghi (come Franco Scaldati e Antonio Tarantino) e praticamente tutti i nomi più significativi della nuova scena teatrale italiana, da Valter Malosti a Maria Paiato, da Arianna Scommegna a Maurizio Donadoni.

Già queste poche notizie fanno capire al lettore quanto sia difficile produrre un bilancio della fortuna e dell'influenza di Testori sulla cultura del XX secolo e oltre. Testori era work in progress quand'era in vita e continua a esserlo a vent'anni dalla morte. I morti sono sempre meno docili, diceva il titolo di un vecchio romanzo latinoamericano. Per Testori è senz'altro così. Premi, tesi di laurea e di dottorato, saggi critici, spettacoli ispirati a lui si aggiungono, si può dire tutti i giorni, al lungo elenco delle produzioni teatrali sui suoi testi.
Testori ha accettato con fede la morte, e quindi la tomba, nella sua Novate. Ma niente mausolei. Come disse una volta Vittorio Sgarbi, Testori è grande proprio perché sta fuori dalle antologie, fuori dalle storie della letteratura. La sua grandezza risiede non diciamo in un'espulsione (nessuno ha mai espulso Testori da nulla) ma in una diversità radicale che non coincide né col suo stile né col dettato del suo pensiero. Si può essere benissimo testoriani senza approvare le sue scelte stilistiche e senza condividere il suo pensiero, come notò Giovanni Agosti nel suo insuperabile articolo post-mortem.

Qual è, val la pensa domandarsi, il quid che lega alla figura di Testori un numero sempre crescente di persone interessate a tutti gli aspetti della sua opera (pittore, critico d'arte, poeta, romanziere, autore teatrale, polemista)?
Per rispondere, bisogna osservare come la sua posizione rispetto al Novecento abbia trovato sempre di più, dopo la sua morte e dopo la fine del secolo, la sua chiarezza. Se, cioè, Testori poteva apparire «oscuro» o «barocco» anche solo pochi anni prima di morire, oggi la luce che lo investe è più forte. La prima osservazione da fare è che Testori appartiene al Novecento secondo una linea «lombarda» che lo collega, attraverso Gadda, ad Alessandro Manzoni: ma non il Manzoni dei profili storici e delle antologie scolastiche, bensì quello dimesso e dismesso dalla Letteratura con la L maiuscola, in quanto reo d'aver fotografato «così spietatamente le magagne di casa» e d'aver interpretato «acutamente, ai fini d'un ammonimento sublime, i fatti che sogliono ricevere un'espressione nella retorica del giorno».

Io credo che Giovanni Testori ci abbia aiutati come nessun altro a salvarci (o perlomeno a guardarci) dalla «retorica del giorno», che in ogni tempo assume la sua forma effimera «ch'or vien quinci or vien quindi» e oggi ha la faccia delle opinioni politically correct e del cosiddetto Pensiero Unico. I turbamenti del cuore, le contraddizioni, il magone, la necessità di un segno per poter vivere, il grido lacerante del cuore, che è forse la salvezza dalla vera disperazione e dal suicidio, rischiano nel nostro tempo di perdere le parole, di ripiombare nel silenzio, senza più nemmeno l'odio contro i padri e il Padre, senza più preghiere né bestemmie, senza più nemmeno il conforto di una brioscina. Solo buoni sentimenti corretti, moderni, solo pensieri impeccabili. Il nostro profeta è Fabio Fazio, onore a lui.

La crisi in cui versa il Romanzo oggi - sede di un'interminabile ripetizione - ci avvicina al cuore della crisi umana, dell'indicibile che si celebra in forme condannate a non diventare adulte (penso all'hip-hop delle nostre periferie urbane, al graffitismo ecc.). A quell'indicibile, che la cultura vorrebbe far tacere (Testori contrappose sempre la «cultura», portatrice di ideologia, all'«arte», fiotto creaturale anche se spesso demente), il grande maestro novatese cercò di dare delle parole, appoggiandosi ai silenzi eloquenti dei suoi amati artisti - da Fra Galgario a Géricault a Bacon.

Quando morì mio padre, Giovanni mi telefonò chiedendomi come stavo. Non ci sono parole, risposi. No, replicò lui con inattesa veemenza: le parole ci devono essere, è tuo dovere trovarle. Oggi, molto più di venti e trent'anni fa, questa sua guerra al silenzio ipocrita che inghiotte la parte più bella e vera dell'uomo mi pare la sede definitiva della sua opera e della sua vita.

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