lunedì 1 aprile 2013

Fra Vaticano e Quirinale: la sorprendente vitalità della Chiesa


di Vittorio Messori

Sin dalla prima riunione generale in vista del Conclave, i Cardinali si erano posto un obiettivo inderogabile: dare alla città di Roma un vescovo - e, dunque, dare un papa alla Chiesa - prima della Pasqua. Non sembrava ammissibile che si fosse ancora in regime di Sede Vacante quando la liturgia raggiunge il suo culmine, e al contempo il suo inizio, celebrando quella risurrezione di Gesù su cui tutta la fede si basa. Obiettivo non solo raggiunto ma largamente superato: stamani il successore di Benedetto XVI dà la sua benedizione “all’Urbe e all’Orbe”, avendo potuto condurre con doverosa calma anche tutte le celebrazioni previste per la Settimana Santa. Altrettanto hanno potuto fare i suoi elettori della Sistina, molti dei quali arcivescovi delle maggiori città del mondo, diocesi che non potevano essere disertate dai loro Pastori proprio nel tempo più importante del ciclo liturgico.

Una tentazione istintiva porterebbe al raffronto con le istituzioni italiane, incapaci di dare un governo al Paese e probabilmente anche di eleggere un Presidente della Repubblica. Uno stallo per il quale non si vede una via d’uscita, neppure ripetendo le elezioni che potrebbero ricreare la stessa situazione di blocco insuperabile. Naturalmente, il confronto è improponibile (da un lato l’ultima monarchia davvero assoluta, dall’altro una democrazia parlamentare) ma può almeno servire per comprendere qualcosa in più della Chiesa. Il suo corpo elettorale, infatti, ha esso pure un primato nel globo: è il più ristretto e al contempo il più cosmopolita, venendo i votanti, letteralmente, da tutti e cinque i Continenti. Molti non si conoscono tra loro, si incontrano a Roma, per la prima volta, nelle riunioni che precedono il Conclave e lì solo hanno modo di vedersi in volto e di confrontarsi. In quegli incontri (sia detto en passant) da tempo la lingua franca non è più il latino ma l’italiano, spesso eccellente poiché tutti, o quasi, i sacerdoti che nella Chiesa raggiungono posti elevati hanno nei loro curricula lauree o, almeno, specializzazioni negli atenei pontifici romani. Coloro che collezionano motivi di rancore che il nostro Paese dovrebbe nutrire verso “il Vaticano”, dimenticano che è proprio grazie ad esso se il mondo cattolico è il solo in cui l’italiano sia lingua internazionale.

Parliamo qui, anche per esperienza personale: ovunque, nel mondo, non solo vescovi ma anche teologi e laici studiosi di questioni cristiane, conoscono e praticano il nostro idioma. Il quale, tra l’altro, deve al Papato anche il suo sviluppo come mezzo col quale i diversi popoli della Penisola potessero intendersi tra loro. In effetti, nell’Italia spezzettata in molti stati, soltanto nella grande Curia romana lavoravano - a centinaia se non migliaia - funzionari e addetti alla funzioni più diverse, provenienti da ogni angolo tra le Alpi e la Sicilia. E’ anche grazie a loro che il volgare toscano divenne la lingua quotidiana che ancora pratichiamo. Nelle Congregazioni, i “ministeri“ vaticani, si scriveva in latino ma si parlava – unico ambito nella penisola – in una lingua che via via si adattava alla vita concreta, da idioma quasi solo letterario che era. Era ciò che il cattolico Alessandro Manzoni tentava di ricordare al massone Francesco De Sanctis, patriottico inventore dello schema di una letteratura “nazionale“ che ancora seguiamo, ma che sembrò dimenticare il ruolo decisivo della Corte e del Governo papale nella creazione dell’idioma in cui quella letteratura si esprime.

Ovviamente, la lingua è essenziale per comprendersi ma, per accordarsi su una persona da eleggere a Capo della Chiesa intera, occorre soprattutto un concordia di intenti che sembrerebbe utopica in una istituzione sparsa sulla terra intera e dove tutte le culture e le situazioni sociali sono rappresentate. Ma è necessario accordarsi, per giunta, adeguandosi a una legge che esige per l’elezione una maggioranza di ben due terzi dei votanti. Eppure, anche questa volta ciò che sembrava improbabile si è realizzato presto e bene: pochissime votazioni, meno di due giorni di conclave ed ecco la fumata bianca, ecco che la Chiesa aveva il suo nuovo papa, ecco la fila dei Grandi Elettori passare uno ad uno davanti al non più arcivescovo di Buenos Aires per giurargli obbedienza. Ecco, stamane, il già monsignor Bergoglio, ora papa Francesco, rinnovare il lieto annunzio della Risurrezione, a nome di tutta la Chiesa e in tutte le lingue del mondo. La rapidità di questa elezione (alla pari, peraltro, di quella di molti conclavi precedenti) è un buon segno, per il credente: è una conferma che, malgrado ogni crisi, la fede che quegli uomini condividono, costituisce un legame che opera al di là di ogni umana divisione. Discordi, i cardinali, non solo per origine ma anche, spesso, per prospettive sulla organizzazione della istituzione ecclesiale: eppure, saldamenti uniti sul Credo, base di ogni scelta, e sulla indicazione di chi, tra loro, dia speranze ragionevoli e fondate di meglio viverlo e difenderlo.

Ma ci sono altri pensieri che suscita la prima Pasqua del primo sudamericano divenuto Pontefice con una simile rapidità di elezione. Dalle finestre del Palazzo Apostolico da cui oggi Francesco dà la sua benedizione, si vede benissimo un altro palazzo, quello del Quirinale, dove i papi avevano abitato per secoli e la cui serratura fu scassinata una sera di settembre del 1870 da un paio di bersaglieri del Genio militare italiano, su ordine del generale Raffaele Cadorna. Bisognava far presto, sgombrare tutti quegli altari, sostituire i troppi quadri religiosi, esorcizzare la sacralità: quella doveva divenire la nuova reggia del re d’Italia, Vittorio Emanuele II. Il papato era ormai un fantasma, nessun potenza pur formalmente “cattolica” si era scomodata per difenderlo, da Porta Pia aveva fatto irruzione, a suon di cannonate, la modernità. Il decrepito, anacronistico pontefice avrebbe potuto andarsene in esilio (l’Inghilterra anglicana offriva, un po’ beffarda, ospitalità a Malta per quella reliquia del Medio Evo) ma, anche se fosse restato in Vaticano, non avrebbe disturbato più di tanto: la Chiesa non aveva futuro, nessuna persona colta ed aggiornata poteva più prenderla sul serio.

Ma proprio nella Torino dei Savoia un prete, tal don Giovanni Bosco, scuoteva il capo, ricordando ai suoi giovani una profezia che aveva sentito da qualche parte: «La dinastia di chi ruba alla Chiesa di Dio, non giunge alla quarta generazione». Guarda caso, proprio una sera di un otto di settembre – la grande festa popolare della Natività di Maria - il terzo rappresentante di quella dinastia che si era installata al Quirinale scardinando il portone, scappava tra paura e caos, mentre la “Nuova Italia” si disfaceva e i generali scappavano, travestiti in borghese, lasciando i soldati al loro destino. Nella Roma abbandonata, solo il Papa restava al suo posto e non a caso, nel luglio dell’anno seguente, tutta la città, spontaneamente, correva acclamante in piazza San Pietro. Oggi, grazie a Dio, la situazione è ben diversa, ma ancora una volta l’Italia – proprio in quel Quirinale - è bloccata, incapace di uscire dalla sua crisi, mentre la Chiesa che i nostri avi davano per spacciata è in crisi anch’essa, ma ha reagito con prontezza all’imprevisto di una inedita “rinuncia“ di un Papa, ha eletto prontamente un successore ed è di nuovo pronta ad affrontare le sfide del futuro.

Ma sì, ne siamo consapevoli: sembrano pensieri curiosi in un giorno di Pasqua, ma proprio l’istituzione che oggi celebra la Risurrezione del Cristo è quella che ha la più lunga storia alle spalle. In fondo, è naturale che susciti riflessioni del genere in chi della storia è curioso. Quel papa dall’inedito nome di Francesco, che stiamo imparando a conoscere e che benedice stamani il mondo, non è che l’ultimo anello di una catena ininterrotta, destinata ad allungarsi quanto l’intera vicenda umana.

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