di Vittorio Messori
Sin dalla prima riunione generale in vista del Conclave, i
Cardinali si erano posto un obiettivo inderogabile: dare alla città di Roma un
vescovo - e, dunque, dare un papa alla Chiesa - prima della Pasqua. Non
sembrava ammissibile che si fosse ancora in regime di Sede Vacante quando la
liturgia raggiunge il suo culmine, e al contempo il suo inizio, celebrando
quella risurrezione di Gesù su cui tutta la fede si basa. Obiettivo non solo
raggiunto ma largamente superato: stamani il successore di Benedetto XVI dà la
sua benedizione “all’Urbe e all’Orbe”, avendo potuto condurre con doverosa
calma anche tutte le celebrazioni previste per la Settimana Santa. Altrettanto
hanno potuto fare i suoi elettori della Sistina, molti dei quali arcivescovi
delle maggiori città del mondo, diocesi che non potevano essere disertate dai
loro Pastori proprio nel tempo più importante del ciclo liturgico.
Una tentazione istintiva porterebbe al raffronto con le
istituzioni italiane, incapaci di dare un governo al Paese e probabilmente
anche di eleggere un Presidente della Repubblica. Uno stallo per il quale non
si vede una via d’uscita, neppure ripetendo le elezioni che potrebbero ricreare
la stessa situazione di blocco insuperabile. Naturalmente, il confronto è
improponibile (da un lato l’ultima monarchia davvero assoluta, dall’altro una
democrazia parlamentare) ma può almeno servire per comprendere qualcosa in più
della Chiesa. Il suo corpo elettorale, infatti, ha esso pure un primato nel
globo: è il più ristretto e al contempo il più cosmopolita, venendo i votanti,
letteralmente, da tutti e cinque i Continenti. Molti non si conoscono tra loro,
si incontrano a Roma, per la prima volta, nelle riunioni che precedono il
Conclave e lì solo hanno modo di vedersi in volto e di confrontarsi. In quegli incontri
(sia detto en passant) da tempo la
lingua franca non è più il latino ma l’italiano, spesso eccellente poiché
tutti, o quasi, i sacerdoti che nella Chiesa raggiungono posti elevati hanno nei
loro curricula lauree o, almeno, specializzazioni negli atenei pontifici
romani. Coloro che collezionano motivi di rancore che il nostro Paese dovrebbe
nutrire verso “il Vaticano”, dimenticano che è proprio grazie ad esso se il
mondo cattolico è il solo in cui l’italiano sia lingua internazionale.
Parliamo qui, anche per esperienza personale: ovunque, nel
mondo, non solo vescovi ma anche teologi e laici studiosi di questioni
cristiane, conoscono e praticano il nostro idioma. Il quale, tra l’altro, deve
al Papato anche il suo sviluppo come mezzo col quale i diversi popoli della
Penisola potessero intendersi tra loro. In effetti, nell’Italia spezzettata in
molti stati, soltanto nella grande Curia romana lavoravano - a centinaia se non
migliaia - funzionari e addetti alla funzioni più diverse, provenienti da ogni
angolo tra le Alpi e la Sicilia. E’ anche grazie a loro che il volgare toscano
divenne la lingua quotidiana che ancora pratichiamo. Nelle Congregazioni, i
“ministeri“ vaticani, si scriveva in latino ma si parlava – unico ambito nella
penisola – in una lingua che via via si adattava alla vita concreta, da idioma
quasi solo letterario che era. Era ciò che il cattolico Alessandro Manzoni
tentava di ricordare al massone Francesco De Sanctis, patriottico inventore
dello schema di una letteratura “nazionale“ che ancora seguiamo, ma che sembrò
dimenticare il ruolo decisivo della Corte e del Governo papale nella creazione
dell’idioma in cui quella letteratura si esprime.
Ovviamente, la lingua è essenziale per comprendersi ma, per
accordarsi su una persona da eleggere a Capo della Chiesa intera, occorre
soprattutto un concordia di intenti che sembrerebbe utopica in una istituzione
sparsa sulla terra intera e dove tutte le culture e le situazioni sociali sono
rappresentate. Ma è necessario accordarsi, per giunta, adeguandosi a una legge
che esige per l’elezione una maggioranza di ben due terzi dei votanti. Eppure,
anche questa volta ciò che sembrava improbabile si è realizzato presto e bene:
pochissime votazioni, meno di due giorni di conclave ed ecco la fumata bianca,
ecco che la Chiesa aveva il suo nuovo papa, ecco la fila dei Grandi Elettori
passare uno ad uno davanti al non più arcivescovo di Buenos Aires per giurargli
obbedienza. Ecco, stamane, il già monsignor Bergoglio, ora papa Francesco,
rinnovare il lieto annunzio della Risurrezione, a nome di tutta la Chiesa e in
tutte le lingue del mondo. La rapidità di questa elezione (alla pari, peraltro,
di quella di molti conclavi precedenti) è un buon segno, per il credente: è una
conferma che, malgrado ogni crisi, la fede che quegli uomini condividono,
costituisce un legame che opera al di là di ogni umana divisione. Discordi, i
cardinali, non solo per origine ma anche, spesso, per prospettive sulla
organizzazione della istituzione ecclesiale: eppure, saldamenti uniti sul
Credo, base di ogni scelta, e sulla indicazione di chi, tra loro, dia speranze
ragionevoli e fondate di meglio viverlo e difenderlo.
Ma ci sono altri pensieri che suscita la prima Pasqua del
primo sudamericano divenuto Pontefice con una simile rapidità di elezione.
Dalle finestre del Palazzo Apostolico da cui oggi Francesco dà la sua
benedizione, si vede benissimo un altro palazzo, quello del Quirinale, dove i
papi avevano abitato per secoli e la cui serratura fu scassinata una sera di
settembre del 1870 da un paio di bersaglieri del Genio militare italiano, su
ordine del generale Raffaele Cadorna. Bisognava far presto, sgombrare tutti
quegli altari, sostituire i troppi quadri religiosi, esorcizzare la sacralità:
quella doveva divenire la nuova reggia del re d’Italia, Vittorio Emanuele II.
Il papato era ormai un fantasma, nessun potenza pur formalmente “cattolica” si
era scomodata per difenderlo, da Porta Pia aveva fatto irruzione, a suon di cannonate,
la modernità. Il decrepito, anacronistico pontefice avrebbe potuto andarsene in
esilio (l’Inghilterra anglicana offriva, un po’ beffarda, ospitalità a Malta
per quella reliquia del Medio Evo) ma, anche se fosse restato in Vaticano, non
avrebbe disturbato più di tanto: la Chiesa non aveva futuro, nessuna persona
colta ed aggiornata poteva più prenderla sul serio.
Ma proprio nella Torino dei Savoia un prete, tal don
Giovanni Bosco, scuoteva il capo, ricordando ai suoi giovani una profezia che
aveva sentito da qualche parte: «La dinastia di chi ruba alla Chiesa di Dio,
non giunge alla quarta generazione». Guarda caso, proprio una sera di un otto
di settembre – la grande festa popolare della Natività di Maria - il terzo
rappresentante di quella dinastia che si era installata al Quirinale
scardinando il portone, scappava tra paura e caos, mentre la “Nuova Italia” si
disfaceva e i generali scappavano, travestiti in borghese, lasciando i soldati
al loro destino. Nella Roma abbandonata, solo il Papa restava al suo posto e
non a caso, nel luglio dell’anno seguente, tutta la città, spontaneamente,
correva acclamante in piazza San Pietro. Oggi, grazie a Dio, la situazione è
ben diversa, ma ancora una volta l’Italia – proprio in quel Quirinale - è bloccata,
incapace di uscire dalla sua crisi, mentre la Chiesa che i nostri avi davano
per spacciata è in crisi anch’essa, ma ha reagito con prontezza all’imprevisto
di una inedita “rinuncia“ di un Papa, ha eletto prontamente un successore ed è
di nuovo pronta ad affrontare le sfide del futuro.
Ma sì, ne siamo consapevoli: sembrano pensieri curiosi in un
giorno di Pasqua, ma proprio l’istituzione che oggi celebra la Risurrezione del
Cristo è quella che ha la più lunga storia alle spalle. In fondo, è naturale
che susciti riflessioni del genere in chi della storia è curioso. Quel papa
dall’inedito nome di Francesco, che stiamo imparando a conoscere e che benedice
stamani il mondo, non è che l’ultimo anello di una catena ininterrotta,
destinata ad allungarsi quanto l’intera vicenda umana.
© www.vittoriomessori.it
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