di S. E. Mons. Giampaolo Crepaldi
Relazione al convegno “Il rinnovamento della Chiesa passa
anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti” (Porta
Fidei n. 6). Un Contributo dello Studium Generale Marcianum all' Anno della
Fede (11 ottobre 2012- 24 novembre 2013).
Premessa
A leggere il titolo di questo mio intervento sono andate
crescendo in me due domande. La prima: non è eccessivo mettere in relazione
l’antropologia (pur se cristiana) con la salvezza? Il piano antropologico ha
bisogno di salvezza, infatti, e quindi non può essere esso stesso a produrla.
Giunge poi la seconda domanda: per salvezza del mondo intendiamo la salvezza
del mondo “in quanto mondo”, ossia nella sua mondanità? Ma a questo livello,
quello della mondanità del mondo, non può esserci salvezza, almeno nella
pienezza di significato del termine.
Queste due domande, che immediatamente ci raggiungono appena letto il
titolo, ci dicono che il livello in cui esso pone la questione non è l’ultimo
livello, ma uno intermedio, che non può essere affrontato da solo, ma
presuppone altro. La prima parte della frase – l’antropologia cristiana -
presuppone Gesù Cristo, Creatore e Salvatore del mondo, e nella seconda parte –
la salvezza del mondo - presuppone la ricapitolazione escatologica di tutte le
cose in Cristo, fine della storia e del cosmo. Gesù Cristo sta quindi
all’inizio e alla fine.
In altri termini, l’antropologia cristiana e la salvezza del mondo non
possono essere poste in relazione tra loro in quanto tali, ma in riferimento ad
un “di più” che il titolo non esprime ma che presuppone.
Il minimalismo
cattolico
Mi sono attardato in questa premessa perché è in atto ormai
da tempo un certo minimalismo
cattolico, molto concentrato sull’uomo e sul mondo. La centralità assunta
dall’antropologia ne è un esempio. L’intento è di far passare meglio l’annuncio
cristiano nella società moderna e secolarizzata, incentrandolo appunto
sull’uomo. L’esito però è spesso proprio l’opposto. Solo alcuni esempi. Dal minimalismo teologicoderiva una
specie di minimalismo antropologico, sicché quello che si voleva valorizzare –
l’uomo – viene alla fine sminuito. Dal minimalismo
mariano non è derivato
granché in termini di autentica valorizzazione della donna. Dal minimalismo liturgico non è arrivato granché in termini di
consapevolezza del significato del culto cattolico. Dal minimalismo epistemologico, con
l’abbandono di un approccio metafisico alla verità[1], sostituito da un apparentemente più umile
approccio ermeneutico, non è derivata una ripresa della ricerca della verità
quanto piuttosto una stanchezza e quasi una estenuazione nei confronti del
vero. Per dirla in termini ancora più netti: mentre ci siamo concentrati
sull’antropologia, nella cultura vissuta di oggi si è perso interesse per cosa
significhi essere uomo, e non ce ne siamo accorti. Il concetto stesso di natura
umana è non solo messo in discussione, ma in certi casi completamente messo da
parte, sicché certi sviluppi dell’ideologia del gender per esempio portano
direttamente alla perdita di ogni confine tra l’uomo, l’animale e la macchina,
come hanno ben spiegato di recente i Vescovi spagnoli[2]. Mentre noi ci impegnavamo ad incontrare la
libertà umana e a dialogare con essa, l’uomo perdeva interesse ad essere libero[3].
Il Magistero ci segnala da tempo che la crisi della società contemporanea
è in fondo una crisi “antropologica”[4]. Ora, la risposta ad una crisi antropologica non
può essere antropologica. Scendendo al semplice livello antropologico si
perdono di vista i veri motivi per cui l’antropologia è in crisi. Ogni realtà,
diceva Romano Guardini, è sempre più di se stessa[5]. Quindi, aggiungo io, non può essere essa stessa
né la causa né la soluzione di una sua crisi. La stessa presa di coscienza
della crisi, per non parlare poi della sua soluzione, deve partire da un punto
di vista diverso e più alto. Ecco perché a mio parere la crisi antropologica è
in realtà una crisi teologica. Ed ecco perché alla crisi antropologica si potrà
rispondere solo con la “centralità di Dio” piuttosto che con la centralità
dell’uomo.
Una strategia
tardiva?
Al minimalismo cattolico fa da compagno il riduzionismo. I
due concetti sono differenti. Il primo è teologico, il secondo è filosofico. Il
riduzionismo è proprio della ragione che, come ci ha insegnato Joseph
Ratzinger, si autolimita[6], vale a dire riduce per scelta l’ambito di verità
di sua pertinenza. Qualcuno dice che tutta la modernità è un lungo processo di
autoriduzione della ragione. L’origine è razionalistica, anche se può sembrare
un controsenso. Il razionalismo è l’esaltazione della ragione. Ma proprio
questa esaltazione è all’origine del riduzionismo perché l’assolutezza che la
ragione pretende per sé può essere conquistata solo eliminando ciò che va oltre
la ragione stessa. L’eliminazione di ciò-che-va-oltre impedisce alla ragione di andare “oltre”: in
questo consiste l’autolimitazione. Questa chiusura di orizzonti aumenta
progressivamente l’ambito dell’irrazionale. E’ il prezzo da pagare da una
ragione assoluta che non vuole lasciare nulla fuori di sé e che per fare questo
si riduce a nulla.
Sul piano antropologico, oggi questo processo è particolarmente evidente
nel campo dell'ideologia ecologista da
un lato e dell’ideologia del gender dall’altro:
le due maggiori sfide, a mio parere, che riguardano l’antropologia cristiana.
In un primo momento sembrava che l’ideologia ecologista portasse con sé solo il limite di
separare ecologia ambientale ed ecologia umana[7]. La dimensione naturale dell’ecologia veniva
limitata all’ecologia ambientale: la natura ridotta ad ambiente. Emergeva così
la grave discrepanza dei movimenti ecologisti, che difendevano la sopravvivenza
delle foche e non dei feti o degli embrioni umani. In questa fase, la ragione
ecologista poteva ancora essere colta in contraddizione con se stessa e
richiamata ad un criterio di verità. Procedendo, però, ci si è accorti che
l’ideologia ecologista aveva fatto nel frattempo dei passi ben più radicali:
l’uomo stesso veniva inserito nell’ambiente, annebbiandosi la consapevolezza
della sua diversità qualitativa rispetto alle altre creature. Nascono nuove
forme di panteismo, di animalismo e di naturalismo neopagano che i Lumi
pensavano aver dissolto e che invece proprio essi hanno alla lunga e
paradossalmente prodotto.
Questa diluizione della persona nella natura fa coppia con il contrario,
ossia l’artificializzazione della vita e dell’identità umana. Questo è
particolarmente evidente nella cosiddetta ideologia
del gender[8]. In questa tendenza di pensiero ormai
ampiamente diffusa, l’identità personale è completamente denaturalizzata in
quanto l’orientamento sessuale è considerato un'operazione culturale. In questo
modo la costruzione di sé è fatta completamente dipendere dalla libertà, mentre
nel naturalismo ecologistico di cui parlavo prima l’identità di sé era
sottomessa ai ritmi biologici del tutto. L’ideologia del gender è anche la
de-naturalizzazione della società, oltre che della persona, in quanto le
relazioni familiari, e quindi sociali, vengono frammentate e moltiplicate in un
sistema a rete componibile e scomponibile, astratto ed individualistico.
Le due tendenze che ho presentato – il naturalismo ecologista e
l’ideologia del gender – sono apparentemente contrapposte. La prima, infatti,
“naturalizza” la persona e le sue relazioni, mentre la seconda la
“denaturalizza”. Però, a ben vedere, sono anche convergenti. Infatti nel
naturalismo ecologista la natura ha perso il suo carattere finalistico, ossia
la capacità di indicare un dover essere. Parallelamente, l’ideologia del gender
ha completamente abolito il dover essere frutto di una identità naturale,
consegnandosi completamente alla sola volontà del soggetto.
Questo è il panorama di oggi. Il cristianesimo fa spesso dell’antropologia
il perno nella propria proposta per la salvezza del mondo. Contemporaneamente
il naturalismo ecologista e l’ideologia del gender ci hanno già congedato da
tempo dall’antropologia, attuando quanto alcuni visionari, Nietzsche in testa,
avevano previsto già molto tempo fa. Ecco perché la strategia della svolta
antropologica si rivela, quantomeno, tardiva.
Salvare
l’antropologia cristiana
L’antropologia cristiana non potrà salvare alcunché se prima
non accetta di essere salvata e se non si presenta come tale, come salvata.
L’antropologia cristiana non è semplice antropologia, è l’antropologia
dell’uomo salvato. La fede cristiana vissuta nella Chiesa presenta l’uomo non
in quanto tale, ma l’uomo salvato da nostro Signore Gesù Cristo. L’antropologia
cristiana non è prima antropologia e poi cristiana, ma l’aggettivo “cristiana”
la sostanzia, in quanto la presenta come la visione dell’uomo salvato. In
questo caso l’aggettivo è più importante del sostantivo.
C’è oggi una tendenza, anche pastorale oltre che teologica, a presentare
il cristianesimo in chiave quasi esclusivamente antropologica: “Cristo, uno di
noi”. Come se la sua pertinenza con l’uomo fosse la sua principale
caratteristica di verità. Ma quale uomo? L’uomo caduto o l’uomo redento? L’uomo
come peccatore o l’uomo come risorsa? Il cristianesimo punta sull’uomo come
risorsa, ma non cessa realisticamente di vedere anche l’uomo come peccatore[9]. E nel mentre ci si illudeva che il cristianesimo
potesse collimare con un uomo astratto, né caduto né redento, e si riduceva il
cristianesimo a misura d’uomo, era proprio l’uomo a venire meno sotto i colpi
del nichilismo. Oggi la pastorale si accorge che manca l’umano ed è difficile
annunciare Cristo perché manca l’attesa umana, i presupposti umani di desiderio
di verità e di libertà. Per questo non è più possibile partire dalla semplice
antropologia, bisogna piuttosto ricostruire l’umano non partendo da esso ma da
Cristo, alla cui luce l’uomo capisce chi era, chi è e chi sarà.
La Chiesa non ama il mondo per lasciarlo così come è, ma per salvarlo. Per
fare questo essa mostra al mondo il mondo salvato. Così è strumento di
salvezza. Mostra il mondo salvato mostrando il Salvatore e il Volto della
salvezza. Solo dei cristiani veramente rinati ad una nuova antropologia
potranno portare salvezza nel mondo. Non si creda che il cristianesimo debba
ridursi ad antropologia per salvare il mondo. Deve piuttosto mostrare
all’antropologia la nuova creazione, ossia una rinnovata antropologia. L’uomo
nuovo, la nuova creatura è l’uomo vecchio salvato. Salvato da se stesso prima
di tutto, dalla chiusura nei propri superbi limiti, e salvato dalla propria
presunzione di salvarsi da solo.
Ho così un po’ rovesciato il titolo della relazione: antropologia
cristiana e salvezza del mondo. La prima a dover essere salvata è
l’antropologia, affinché possa essere salvifica per il mondo. Infatti solo se
l’antropologia rivela altro e non se stessa è veramente cristiana e può
veicolare una salvezza. L’uomo è la via della Chiesa, diceva la Redemptor hominis, ma perché Cristo è
la via della Chiesa.
L’antropologia cristiana viene salvata se viene ribadita la centralità di
Dio e se la promozione dell’uomo serve ad aprire un posto per Dio nel mondo. Il
Magistero di Benedetto XVI, in continuità con i precedenti pontefici, non ha
concesso niente ad un cristianesimo inteso come generico umanesimo. Vorrei fare
a questo proposito una osservazione sul Concilio Vaticano II. E’ stato detto
che il Concilio avrebbe attuato una “svolta antropologica”. Credo però che la
lettura corretta del Concilio sia quella proposta dal Cardinale Ratzinger nel
2000, quando ebbe a dire che, secondo lui, il tema centrale che i Padri
conciliari si erano proposti era la “centralità di Dio”[10]. Quella della centralità dell’uomo appartiene
alle letture non sempre corrette del post Concilio.
Il nodo della prassi
Se osserviamo come vanno le cose nel nostro tempo veniamo
colpiti dalla importanza assunta dalla prassi. Vorrei spiegare questa mia idea,
per non correre il rischio di essere equivocato.
Il rapporto teoria-prassi era una questione molto dibattuta qualche
decennio fa, quando la filosofia marxista e lo storicismo in genere erano
ancora ascoltati. Negli anni Sessanta e Settanta sono stati scritti fiumi di
inchiostro su questi argomenti. L’emergenza della prassi era stata evidenziata
soprattutto da J. B. Metz, di scuola rahneriana, ed era stata variamente
declinata fino alla interpretazione della teologia della liberazione ed oltre.
L’accusa alla teologia europea in quanto astratta e deduttiva era allora un
luogo comune e alimentava la deellenizzazione del cristianesimo, che Benedetto
XVI ha definitivamente criticato a Regensburg e altrove. Pur con le tante
difficoltà create da questi percorsi teologici, non si può negare che il
problema esistesse.
Torniamo al naturalismo ecologista e all’ideologia del gender di cui ho
parlato sopra. Queste ideologie, a ben vedere, non si stanno imponendo con
convegni di esperti e con libri di specialisti ma con atteggiamenti,
comportamenti, mode e stili di vita. Facendo fare alla gente delle cose.
Mettendo nelle loro mani la possibilità tecnica di fare qualcosa. La teoria
viene fatta passare imponendo un tipo di abbigliamento, un modo di atteggiarsi
in pubblico o di trascorrere il tempo libero, oppure forme di vita socialmente
riconoscibili ed apprezzabili. In questo modo si fa passare una nuova
comprensione di sé delle persone. L’invenzione della minigonna negli anni
Sessanta, della pillola anticoncezionale o della fecondazione artificiale dal
1978, hanno avuto un impatto sulla comprensione della propria identità
personale e relazionale molto maggiore di tanti convegni accademici. Se
l’ideologia del gender non avesse potuto usufruire della fecondazione
artificiale, scoperta nel 1978 con la nascita di Luise Brown, sarebbe rimasta
solo una teoria. Così invece è passata attraverso l’agire di tante coppie che,
senza approfondire teoricamente le questioni connesse con quella scelta, hanno
agito in quel modo. Il modo con cui oggi si inducono i nostri giovani a
divertirsi al venerdì o al sabato sera produce una trasformazione antropologica
senz’altro maggiore di tanti nostri convegni per esperti. Come si vede da
questi pochi esempi, oggi tante forme di negazione della natura umana o
addirittura di riformulazione dell’umano passano attraverso modi di vivere e di
agire e non mediante l’esposizione di teorie.
Nel post Concilio, come ricordavo, alcune correnti della teologia
cattolica hanno cercato di assumere la concretezza storica in tutta la sua
importanza, fino a partire metodologicamente da un primato della prassi. Così
facendo, però, hanno corso il rischio di cadere nello storicismo. Il primato
della prassi, infatti, elimina il concetto di natura e di natura umana e
presenta l’uomo come prodotto storico e sociale. Emergeva così il grave
problema di tener conto del fatto che la storia, specialmente la storia
moderna, presenta l’aspetto importante della prassi, senza tuttavia perdere di
vista che la fede cattolica si fonda su uno “stare” e che senza uno “stare” la
storia e la prassi stesse non sarebbero più possibili senza cadere nello
storicismo: solo ciò che non è storia può illuminare la storia.
Oggi nella Chiesa si parla spesso di stili di vita[11]. E’ un segno di attenzione alla prassi. Nel
concreto, però, si finisce spesso per adottare una «visione irenica e
ideologica … dimenticando la complessità delle ragioni in questione»[12], assumendo forme di vita secolarizzate,
atteggiamenti dal significato antropologico poco chiaro o addirittura contrario
alla visione cristiana. In questi casi l’attenzione alla prassi non è
adeguatamente compensata da una consapevolezza di ciò che nella vita cristiana
“sta” e non muta.
Certamente la fede è incontro con Cristo che cambia la vita personale e
comunitaria. L’antropologia cristiana non è una teoria, ma l’incontro vivo e
vitale con la Persona di Gesù il Cristo, come Benedetto XVI ci ha molte volte
ricordato. E tuttavia, non si tratta solo di un atteggiamento, perché Gesù
Cristo è anche il il Logos, la Sapienza Creatrice. Egli è la Verità, che non
muta.
Ritengo che questo complesso di problemi che ruotano attorno al nesso teoria-prassi
sia un aspetto della antropologia cristiana da approfondire.
Approccio metafisico
ed approccio ermeneutico
La sostituzione dell’approccio metafisico al problema della
verità con quello ermeneutico è un modo per affrontare il problema che ho ora
evidenziato. Si ritiene che l’approccio metafisico sia astratto e statico in
quanto improntato alla natura, mentre la storia è incentrata sulla prassi.
L’approccio metafisico è considerato poco capace di sintonizzarsi sulle
esigenze della storia e della prassi; da qui la sua sostituzione con
l’approccio ermeneutico. Quest’ultimo si fonda su tre convinzioni. La
prima è l’idea che il messaggio, qualsiasi esso sia, quindi anche il kerigma
cristiano, non è mai separato dalla testimonianza e dall’interpretazione che se
ne dà. La seconda è che il nostro agire non è mai solo un agire bensì anche una
produzione di senso: noi, agendo, produciamo nuova teoria. La terza è che ogni
nostro dire non è mai solo informativo ma anche performativo, ossia implica un
cambiamento di atteggiamento verso il mondo.
Come valutare questo approccio ermeneutico? Per dirla con molta
schiettezza: se l’antropologia cristiana si affida completamente a questa
impostazione diventa veramente difficile per essa portare salvezza al mondo. Infatti
l’approccio ermeneutico colloca il messaggio dentro il mondo ma, come ho già
fatto osservare sopra, la salvezza non può che derivare da un piano trascendente[13].
Rimane fondamentale l’approccio metafisico, che fonda la possibilità di
attingere alla verità avente i caratteri della trascendenza. Per questo
l’antropologia non può affidarsi solo all’ermeneutica ma deve riprendersi nella
metafisica. Però la
sfida della storia e della prassi cui ho accennato rimangono e sono sfide vere
e reali. Quindi anche l’approccio metafisico all’antropologia cristiana deve
fare un passo in avanti. Indico qui in estrema sintesi una via percorribile
che, a mio parere, può essere promettente.
C’è un passo della Caritas
in veritate che apre la
possibilità di questo tipo di ricerca e nello stesso tempo la richiede. Mi
riferisco al paragrafo 53 dell’enciclica. Qui, Benedetto XVI, dopo aver
richiamato l’osservazione di Paolo VI nella Populorum
progressio secondo cui
«il mondo soffre per mancanza di pensiero», indica al pensiero la strada di un
nuovo sviluppo. Lo fa riprendendo l’origine trinitaria della categoria della
relazione, che il cardinale Ratzinger aveva individuato già nella sua opera
“Introduzione al cristianesimo”[14], auspicando lo sviluppo di una «metafisica della
relazione tra le persone»[15].
La relazionalità delle Persone Divine illumina anche la relazionalità
della persona umana. La teologia della Trinità svela un nuovo piano
dell’essere, un piano in cui la relazione non è più accidente ma appartiene
alla sostanza. Questo comporta che nella relazione le persone si costruiscano
ontologicamente e comunitariamente. Siamo qui in un nuovo piano dell’essere, né
solo naturale e statico né solo storico e processuale. Non c’è più solo la
sostanza, fissa nella sua staticità, né l’uomo è completamente immerso nella
prassi sociale. La persona è costruzione relazionale. I due esempi proposti da
Benedetto XVI nel paragrafo 53 della Caritas
in veritate sono molto
esplicativi. Si tratta della comunità familiare e della comunità ecclesiale, in
cui la persona fa l’esperienza vitale di entrare in una comunità relazionale
non accidentale a cui non sacrifica la propria natura, quanto piuttosto la
valorizza incontrandosi con gli altri in una dimensione costruttiva del sé e
del noi. Mi sembra che questa sia la strada che l’antropologia cristiana deve
sviluppare per essere salvata e per essere salvifica per il mondo.
Cenni conclusivi
Le riflessioni di questi due ultimi paragrafi si ricollegano a quanto
avevo detto all’inizio. L’antropologia cristiana deve esprimere più di se
stessa. Sarà salvifica se sarà salvata. Questi spunti finali indicano una via
affinché questo possa avvenire, mediante un investimento adeguato del pensiero.
La “metafisica della relazionalità costruttiva”, così chiamerei le indicazioni
che nascono dai passi della Caritas
in veritate che ho
utilizzato, è radicata nell’essere e nello stesso tempo nella storia,
senza cadere in forme di immanentismo, che ogni primato della prassi nasconde
dentro di sé.
Note
[1] Se ne lamentava Giovanni Paolo II in Fides et ratio n. 61.
[2] Cf
Conferencia Episcopal Española, "La
verdad del amor humano. Orientaciones sobre el amor conyugal, la ideología de
género y la legislación familiar", nn.
52-65.
[3] Uno
dei pensatori della modernità illuminista con cui la teologia cattolica ha
avuto modo di discutere è senz’altro Jürgen Habermas. Massimo Borghesi valuta
positivamente il notevole percorso fatto da Habermas, che è giunto ad affermare
che il riconoscimento della natura è condizione per l’esercizio della libertà.
Ma siamo sicuri, si chiede Borghesi, che oggi si sia ancora interessati ad
essere liberi? Non è che gli esiti della modernità illuminista siano ormai
sfuggiti di mano? Può essere che la modernità sia andata già oltre Habermas,
oltre al dialogo sull’uomo e la sua libertà mostrando un sostanziale
disinteresse per esso (Cf M. Borghesi, I
presupposti naturali del poter-essere-se-stessi. La polarità natura-libertà di
Jürgen Habermas, in F. Russo (a cura di), Natura
cultura libertà, Armando, Roma 2010, pp. 65-98).
[4] Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate, n. 75.
[5] «Ogni essere è più che se stesso; ogni
avvenimento significa più che non il suo stretto compiersi. Tutto si riferisce
a qualcosa che sta al di sopra o al di là. E solo a partire da là riceve la sua
pienezza. Se esso scompare le cose e le situazioni si svuotano di senso»
(R. Guardini, La fine
dell’epoca moderna,Morcelliana, Brescia
19938, p. 97).
[6] Cf Benedetto XVI, Discorso nell’aula magna dell’Università
di Regensburg (12 settembre 2006), in Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo. Viaggio in
Baviera. Tutte le parole del Papa, Cantagalli, Siena 2006, p. 25.
[7] Cf.
G. Crepaldi-P. Togni, Ecologia
ambientale ed ecologia umana. Politiche dell’ambiente e Dottrina sociale della
Chiesa, Cantagalli, Siena 2007.
[8] Cf
Benedetto XVI, Discorso
alla Curia romana per la presentazione degli auguri natalizi, 21 dicembre
2012. Cf anche E. Montfort, Il
concetto di genere nelle nostre società postmoderne, in G. Crepaldi e S.
Fontana, Quarto
Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, Cantagalli,
Siena 2012, pp. 133-155.
[9] «L’uomo
tende verso il bene ma è pure capace di male, può trascendere il suo interesse
immediato e, tuttavia, rimanere ad esso legato (Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Centesimus annus, n. 25).
[10] J.
Card. Ratzinger, Intervento sull’ecclesiologia della Costituzione “Lumen
Gentium” al convegno internazionale sull’attuazione del Concilio ecumenico
Vaticano II promosso dal comitato del Grande Giubileo dell’anno 2000, 27
febbraio 2000.
[11] Cf
Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas
in veritate, n. 51.
[12] Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni
riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita pubblica, 24 Novembre 2002, n. 4..
[13] «Tutto
quanto è in grado di sussistere unicamente grazie all’interpretazione, in
realtà ha bell’e finito di sussistere» (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul
simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 200312, p. 102); ma per fortuna «l’uomo
non è prigioniero della stanza degli specchi delle interpretazioni; egli può e
deve cercare il pertugio verso il vero che sta sotto le parole e che in esse e
attraverso esse si mostra» (J. Ratzinger, Fede,
verità e cultura. Riflessioni in relazione all’enciclica Fides et ratio, Madrid, 16 febbraio
2000, supplemento a “Tracce”, marzo 2000, p. 11).
[14] Cf J. Ratzinger, Introduzione
al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 200312,
pp. 121-148.
[15] Cf le osservazioni di S. Fontana, “Metafisica della relazione tra
persone”. Note su un possibile itinerario di ricerca, in F. Carderi – M.
Mantovani – G. Perillo (a cura di), Momenti
del Logos, Ricerche del Progetto LERS (Logos, Episteme, Ratio, Scientia) in
memoria di Marilena Amerise e di Marco Arosio, Edizioni Nuova Cultura, Roma
2012.
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