martedì 2 aprile 2013

Antropologia cristiana e Salvezza del mondo


di S. E. Mons. Giampaolo Crepaldi

Relazione al convegno “Il rinnovamento della Chiesa passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti” (Porta Fidei n. 6). Un Contributo dello Studium Generale Marcianum all' Anno della Fede (11 ottobre 2012- 24 novembre 2013).

Premessa

A leggere il titolo di questo mio intervento sono andate crescendo in me due domande. La prima: non è eccessivo mettere in relazione l’antropologia (pur se cristiana) con la salvezza? Il piano antropologico ha bisogno di salvezza, infatti, e quindi non può essere esso stesso a produrla. Giunge poi la seconda domanda: per salvezza del mondo intendiamo la salvezza del mondo “in quanto mondo”, ossia nella sua mondanità? Ma a questo livello, quello della mondanità del mondo, non può esserci salvezza, almeno nella pienezza di significato del termine.
Queste due domande, che immediatamente ci raggiungono appena letto il titolo, ci dicono che il livello in cui esso pone la questione non è l’ultimo livello, ma uno intermedio, che non può essere affrontato da solo, ma presuppone altro. La prima parte della frase – l’antropologia cristiana - presuppone Gesù Cristo, Creatore e Salvatore del mondo, e nella seconda parte – la salvezza del mondo - presuppone la ricapitolazione escatologica di tutte le cose in Cristo, fine della storia e del cosmo. Gesù Cristo sta quindi all’inizio e alla fine.
In altri termini, l’antropologia cristiana e la salvezza del mondo non possono essere poste in relazione tra loro in quanto tali, ma in riferimento ad un “di più” che il titolo non esprime ma che presuppone.

Il minimalismo cattolico

Mi sono attardato in questa premessa perché è in atto ormai da tempo un certo minimalismo cattolico, molto concentrato sull’uomo e sul mondo. La centralità assunta dall’antropologia ne è un esempio. L’intento è di far passare meglio l’annuncio cristiano nella società moderna e secolarizzata, incentrandolo appunto sull’uomo. L’esito però è spesso proprio l’opposto. Solo alcuni esempi. Dal minimalismo teologicoderiva una specie di minimalismo antropologico, sicché quello che si voleva valorizzare – l’uomo – viene alla fine sminuito. Dal minimalismo mariano non è derivato granché in termini di autentica valorizzazione della donna. Dal minimalismo liturgico non è arrivato granché in termini di consapevolezza del significato del culto cattolico. Dal minimalismo epistemologico, con l’abbandono di un approccio metafisico alla verità[1], sostituito da un apparentemente più umile approccio ermeneutico, non è derivata una ripresa della ricerca della verità quanto piuttosto una stanchezza e quasi una estenuazione nei confronti del vero. Per dirla in termini ancora più netti: mentre ci siamo concentrati sull’antropologia, nella cultura vissuta di oggi si è perso interesse per cosa significhi essere uomo, e non ce ne siamo accorti. Il concetto stesso di natura umana è non solo messo in discussione, ma in certi casi completamente messo da parte, sicché certi sviluppi dell’ideologia del gender per esempio portano direttamente alla perdita di ogni confine tra l’uomo, l’animale e la macchina, come hanno ben spiegato di recente i Vescovi spagnoli[2]. Mentre noi ci impegnavamo ad incontrare la libertà umana e a dialogare con essa, l’uomo perdeva interesse ad essere libero[3].
Il Magistero ci segnala da tempo che la crisi della società contemporanea è in fondo una crisi “antropologica”[4]. Ora, la risposta ad una crisi antropologica non può essere antropologica. Scendendo al semplice livello antropologico si perdono di vista i veri motivi per cui l’antropologia è in crisi. Ogni realtà, diceva Romano Guardini, è sempre più di se stessa[5]. Quindi, aggiungo io, non può essere essa stessa né la causa né la soluzione di una sua crisi. La stessa presa di coscienza della crisi, per non parlare poi della sua soluzione, deve partire da un punto di vista diverso e più alto. Ecco perché a mio parere la crisi antropologica è in realtà una crisi teologica. Ed ecco perché alla crisi antropologica si potrà rispondere solo con la “centralità di Dio” piuttosto che con la centralità dell’uomo.

Una strategia tardiva?

Al minimalismo cattolico fa da compagno il riduzionismo. I due concetti sono differenti. Il primo è teologico, il secondo è filosofico. Il riduzionismo è proprio della ragione che, come ci ha insegnato Joseph Ratzinger, si autolimita[6], vale a dire riduce per scelta l’ambito di verità di sua pertinenza. Qualcuno dice che tutta la modernità è un lungo processo di autoriduzione della ragione. L’origine è razionalistica, anche se può sembrare un controsenso. Il razionalismo è l’esaltazione della ragione. Ma proprio questa esaltazione è all’origine del riduzionismo perché l’assolutezza che la ragione pretende per sé può essere conquistata solo eliminando ciò che va oltre la ragione stessa. L’eliminazione di ciò-che-va-oltre impedisce alla ragione di andare “oltre”: in questo consiste l’autolimitazione. Questa chiusura di orizzonti aumenta progressivamente l’ambito dell’irrazionale. E’ il prezzo da pagare da una ragione assoluta che non vuole lasciare nulla fuori di sé e che per fare questo si riduce a nulla.
Sul piano antropologico, oggi questo processo è particolarmente evidente nel campo dell'ideologia ecologista da un lato e dell’ideologia del gender dall’altro: le due maggiori sfide, a mio parere, che riguardano l’antropologia cristiana.
In un primo momento sembrava che l’ideologia ecologista portasse con sé solo il limite di separare ecologia ambientale ed ecologia umana[7]. La dimensione naturale dell’ecologia veniva limitata all’ecologia ambientale: la natura ridotta ad ambiente. Emergeva così la grave discrepanza dei movimenti ecologisti, che difendevano la sopravvivenza delle foche e non dei feti o degli embrioni umani. In questa fase, la ragione ecologista poteva ancora essere colta in contraddizione con se stessa e richiamata ad un criterio di verità. Procedendo, però, ci si è accorti che l’ideologia ecologista aveva fatto nel frattempo dei passi ben più radicali: l’uomo stesso veniva inserito nell’ambiente, annebbiandosi la consapevolezza della sua diversità qualitativa rispetto alle altre creature. Nascono nuove forme di panteismo, di animalismo e di naturalismo neopagano che i Lumi pensavano aver dissolto e che invece proprio essi hanno alla lunga e paradossalmente prodotto.
Questa diluizione della persona nella natura fa coppia con il contrario, ossia l’artificializzazione della vita e dell’identità umana. Questo è particolarmente evidente nella cosiddetta ideologia del gender[8]. In questa tendenza di pensiero ormai ampiamente diffusa, l’identità personale è completamente denaturalizzata in quanto l’orientamento sessuale è considerato un'operazione culturale. In questo modo la costruzione di sé è fatta completamente dipendere dalla libertà, mentre nel naturalismo ecologistico di cui parlavo prima l’identità di sé era sottomessa ai ritmi biologici del tutto. L’ideologia del gender è anche la de-naturalizzazione della società, oltre che della persona, in quanto le relazioni familiari, e quindi sociali, vengono frammentate e moltiplicate in un sistema a rete componibile e scomponibile, astratto ed individualistico.
Le due tendenze che ho presentato – il naturalismo ecologista e l’ideologia del gender – sono apparentemente contrapposte. La prima, infatti, “naturalizza” la persona e le sue relazioni, mentre la seconda la “denaturalizza”. Però, a ben vedere, sono anche convergenti. Infatti nel naturalismo ecologista la natura ha perso il suo carattere finalistico, ossia la capacità di indicare un dover essere. Parallelamente, l’ideologia del gender ha completamente abolito il dover essere frutto di una identità naturale, consegnandosi completamente alla sola volontà del soggetto.
Questo è il panorama di oggi. Il cristianesimo fa spesso dell’antropologia il perno nella propria proposta per la salvezza del mondo. Contemporaneamente il naturalismo ecologista e l’ideologia del gender ci hanno già congedato da tempo dall’antropologia, attuando quanto alcuni visionari, Nietzsche in testa, avevano previsto già molto tempo fa. Ecco perché la strategia della svolta antropologica si rivela, quantomeno, tardiva.

Salvare l’antropologia cristiana

L’antropologia cristiana non potrà salvare alcunché se prima non accetta di essere salvata e se non si presenta come tale, come salvata. L’antropologia cristiana non è semplice antropologia, è l’antropologia dell’uomo salvato. La fede cristiana vissuta nella Chiesa presenta l’uomo non in quanto tale, ma l’uomo salvato da nostro Signore Gesù Cristo. L’antropologia cristiana non è prima antropologia e poi cristiana, ma l’aggettivo “cristiana” la sostanzia, in quanto la presenta come la visione dell’uomo salvato. In questo caso l’aggettivo è più importante del sostantivo. 
C’è oggi una tendenza, anche pastorale oltre che teologica, a presentare il cristianesimo in chiave quasi esclusivamente antropologica: “Cristo, uno di noi”. Come se la sua pertinenza con l’uomo fosse la sua principale caratteristica di verità. Ma quale uomo? L’uomo caduto o l’uomo redento? L’uomo come peccatore o l’uomo come risorsa? Il cristianesimo punta sull’uomo come risorsa, ma non cessa realisticamente di vedere anche l’uomo come peccatore[9]. E nel mentre ci si illudeva che il cristianesimo potesse collimare con un uomo astratto, né caduto né redento, e si riduceva il cristianesimo a misura d’uomo, era proprio l’uomo a venire meno sotto i colpi del nichilismo. Oggi la pastorale si accorge che manca l’umano ed è difficile annunciare Cristo perché manca l’attesa umana, i presupposti umani di desiderio di verità e di libertà. Per questo non è più possibile partire dalla semplice antropologia, bisogna piuttosto ricostruire l’umano non partendo da esso ma da Cristo, alla cui luce l’uomo capisce chi era, chi è e chi sarà.
La Chiesa non ama il mondo per lasciarlo così come è, ma per salvarlo. Per fare questo essa mostra al mondo il mondo salvato. Così è strumento di salvezza. Mostra il mondo salvato mostrando il Salvatore e il Volto della salvezza. Solo dei cristiani veramente rinati ad una nuova antropologia potranno portare salvezza nel mondo. Non si creda che il cristianesimo debba ridursi ad antropologia per salvare il mondo. Deve piuttosto mostrare all’antropologia la nuova creazione, ossia una rinnovata antropologia. L’uomo nuovo, la nuova creatura è l’uomo vecchio salvato. Salvato da se stesso prima di tutto, dalla chiusura nei propri superbi limiti, e salvato dalla propria presunzione di salvarsi da solo.
Ho così un po’ rovesciato il titolo della relazione: antropologia cristiana e salvezza del mondo. La prima a dover essere salvata è l’antropologia, affinché possa essere salvifica per il mondo. Infatti solo se l’antropologia rivela altro e non se stessa è veramente cristiana e può veicolare una salvezza. L’uomo è la via della Chiesa, diceva la Redemptor hominis, ma perché Cristo è la via della Chiesa.
L’antropologia cristiana viene salvata se viene ribadita la centralità di Dio e se la promozione dell’uomo serve ad aprire un posto per Dio nel mondo. Il Magistero di Benedetto XVI, in continuità con i precedenti pontefici, non ha concesso niente ad un cristianesimo inteso come generico umanesimo. Vorrei fare a questo proposito una osservazione sul Concilio Vaticano II. E’ stato detto che il Concilio avrebbe attuato una “svolta antropologica”. Credo però che la lettura corretta del Concilio sia quella proposta dal Cardinale Ratzinger nel 2000, quando ebbe a dire che, secondo lui, il tema centrale che i Padri conciliari si erano proposti era la “centralità di Dio”[10]. Quella della centralità dell’uomo appartiene alle letture non sempre corrette del post Concilio. 

Il nodo della prassi

Se osserviamo come vanno le cose nel nostro tempo veniamo colpiti dalla importanza assunta dalla prassi. Vorrei spiegare questa mia idea, per non correre il rischio di essere equivocato.
Il rapporto teoria-prassi era una questione molto dibattuta qualche decennio fa, quando la filosofia marxista e lo storicismo in genere erano ancora ascoltati. Negli anni Sessanta e Settanta sono stati scritti fiumi di inchiostro su questi argomenti. L’emergenza della prassi era stata evidenziata soprattutto da J. B. Metz, di scuola rahneriana, ed era stata variamente declinata fino alla interpretazione della teologia della liberazione ed oltre. L’accusa alla teologia europea in quanto astratta e deduttiva era allora un luogo comune e alimentava la deellenizzazione del cristianesimo, che Benedetto XVI ha definitivamente criticato a Regensburg e altrove. Pur con le tante difficoltà create da questi percorsi teologici, non si può negare che il problema esistesse.
Torniamo al naturalismo ecologista e all’ideologia del gender di cui ho parlato sopra. Queste ideologie, a ben vedere, non si stanno imponendo con convegni di esperti e con libri di specialisti ma con atteggiamenti, comportamenti, mode e stili di vita. Facendo fare alla gente delle cose. Mettendo nelle loro mani la possibilità tecnica di fare qualcosa. La teoria viene fatta passare imponendo un tipo di abbigliamento, un modo di atteggiarsi in pubblico o di trascorrere il tempo libero, oppure forme di vita socialmente riconoscibili ed apprezzabili. In questo modo si fa passare una nuova comprensione di sé delle persone. L’invenzione della minigonna negli anni Sessanta, della pillola anticoncezionale o della fecondazione artificiale dal 1978, hanno avuto un impatto sulla comprensione della propria identità personale e relazionale molto maggiore di tanti convegni accademici. Se l’ideologia del gender non avesse potuto usufruire della fecondazione artificiale, scoperta nel 1978 con la nascita di Luise Brown, sarebbe rimasta solo una teoria. Così invece è passata attraverso l’agire di tante coppie che, senza approfondire teoricamente le questioni connesse con quella scelta, hanno agito in quel modo. Il modo con cui oggi si inducono i nostri giovani a divertirsi al venerdì o al sabato sera produce una trasformazione antropologica senz’altro maggiore di tanti nostri convegni per esperti. Come si vede da questi pochi esempi, oggi tante forme di negazione della natura umana o addirittura di riformulazione dell’umano passano attraverso modi di vivere e di agire e non mediante l’esposizione di teorie.
Nel post Concilio, come ricordavo, alcune correnti della teologia cattolica hanno cercato di assumere la concretezza storica in tutta la sua importanza, fino a partire metodologicamente da un primato della prassi. Così facendo, però, hanno corso il rischio di cadere nello storicismo. Il primato della prassi, infatti, elimina il concetto di natura e di natura umana e presenta l’uomo come prodotto storico e sociale. Emergeva così il grave problema di tener conto del fatto che la storia, specialmente la storia moderna, presenta l’aspetto importante della prassi, senza tuttavia perdere di vista che la fede cattolica si fonda su uno “stare” e che senza uno “stare” la storia e la prassi stesse non sarebbero più possibili senza cadere nello storicismo: solo ciò che non è storia può illuminare la storia.
Oggi nella Chiesa si parla spesso di stili di vita[11]. E’ un segno di attenzione alla prassi. Nel concreto, però, si finisce spesso per adottare una «visione irenica e ideologica … dimenticando la complessità delle ragioni in questione»[12], assumendo forme di vita secolarizzate, atteggiamenti dal significato antropologico poco chiaro o addirittura contrario alla visione cristiana. In questi casi l’attenzione alla prassi non è adeguatamente compensata da una consapevolezza di ciò che nella vita cristiana “sta” e  non muta.
Certamente la fede è incontro con Cristo che cambia la vita personale e comunitaria. L’antropologia cristiana non è una teoria, ma l’incontro vivo e vitale con la Persona di Gesù il Cristo, come Benedetto XVI ci ha molte volte ricordato. E tuttavia, non si tratta solo di un atteggiamento, perché Gesù Cristo è anche il il Logos, la Sapienza Creatrice. Egli è la Verità, che non muta.
Ritengo che questo complesso di problemi che ruotano attorno al nesso teoria-prassi sia un aspetto della antropologia cristiana da approfondire.

Approccio metafisico ed approccio ermeneutico

La sostituzione dell’approccio metafisico al problema della verità con quello ermeneutico è un modo per affrontare il problema che ho ora evidenziato. Si ritiene che l’approccio metafisico sia astratto e statico in quanto improntato alla natura, mentre la storia è incentrata sulla prassi.
L’approccio metafisico è considerato poco capace di sintonizzarsi sulle esigenze della storia e della prassi; da qui la sua sostituzione con l’approccio ermeneutico.  Quest’ultimo si fonda su tre convinzioni. La prima è l’idea che il messaggio, qualsiasi esso sia, quindi anche il kerigma cristiano, non è mai separato dalla testimonianza e dall’interpretazione che se ne dà. La seconda è che il nostro agire non è mai solo un agire bensì anche una produzione di senso: noi, agendo, produciamo nuova teoria. La terza è che ogni nostro dire non è mai solo informativo ma anche performativo, ossia implica un cambiamento di atteggiamento verso il mondo.
Come valutare questo approccio ermeneutico? Per dirla con molta schiettezza: se l’antropologia cristiana si affida completamente a questa impostazione diventa veramente difficile per essa portare salvezza al mondo. Infatti l’approccio ermeneutico colloca il messaggio dentro il mondo ma, come ho già fatto osservare sopra, la salvezza non può che derivare da un piano trascendente[13].
Rimane fondamentale l’approccio metafisico, che fonda la possibilità di attingere alla verità avente i caratteri della trascendenza. Per questo l’antropologia non può affidarsi solo all’ermeneutica ma deve riprendersi nella metafisica. Però la sfida della storia e della prassi cui ho accennato rimangono e sono sfide vere e reali. Quindi anche l’approccio metafisico all’antropologia cristiana deve fare un passo in avanti. Indico qui in estrema sintesi una via percorribile che, a mio parere, può essere promettente.
C’è un passo della Caritas in veritate che apre la possibilità di questo tipo di ricerca e nello stesso tempo la richiede. Mi riferisco al paragrafo 53 dell’enciclica. Qui, Benedetto XVI, dopo aver richiamato l’osservazione di Paolo VI nella Populorum progressio secondo cui «il mondo soffre per mancanza di pensiero», indica al pensiero la strada di un nuovo sviluppo. Lo fa riprendendo l’origine trinitaria della categoria della relazione, che il cardinale Ratzinger aveva individuato già nella sua opera “Introduzione al cristianesimo”[14], auspicando lo sviluppo di una «metafisica della relazione tra le persone»[15].
La relazionalità delle Persone Divine illumina anche la relazionalità della persona umana. La teologia della Trinità svela un nuovo piano dell’essere, un piano in cui la relazione non è più accidente ma appartiene alla sostanza. Questo comporta che nella relazione le persone si costruiscano ontologicamente e comunitariamente. Siamo qui in un nuovo piano dell’essere, né solo naturale e statico né solo storico e processuale. Non c’è più solo la sostanza, fissa nella sua staticità, né l’uomo è completamente immerso nella prassi sociale. La persona è costruzione relazionale. I due esempi proposti da Benedetto XVI nel paragrafo 53 della Caritas in veritate sono molto esplicativi. Si tratta della comunità familiare e della comunità ecclesiale, in cui la persona fa l’esperienza vitale di entrare in una comunità relazionale non accidentale a cui non sacrifica la propria natura, quanto piuttosto la valorizza incontrandosi con gli altri in una dimensione costruttiva del sé e del noi. Mi sembra che questa sia la strada che l’antropologia cristiana deve sviluppare per essere salvata e per essere salvifica per il mondo.  
Cenni conclusivi
Le riflessioni di questi due ultimi paragrafi si ricollegano a quanto avevo detto all’inizio. L’antropologia cristiana deve esprimere più di se stessa. Sarà salvifica se sarà salvata. Questi spunti finali indicano una via affinché questo possa avvenire, mediante un investimento adeguato del pensiero. La “metafisica della relazionalità costruttiva”, così chiamerei le indicazioni che nascono dai passi della Caritas in veritate che ho utilizzato,  è radicata nell’essere e nello stesso tempo nella storia, senza cadere in forme di immanentismo, che ogni primato della prassi nasconde dentro di sé.

Note

[1] Se ne lamentava Giovanni Paolo II in Fides et ratio n. 61.
[2] Cf Conferencia Episcopal Española, "La verdad del amor humano. Orientaciones sobre el amor conyugal, la ideología de género y la legislación familiar", nn. 52-65. 
[3] Uno dei pensatori della modernità illuminista con cui la teologia cattolica ha avuto modo di discutere è senz’altro Jürgen Habermas. Massimo Borghesi valuta positivamente il notevole percorso fatto da Habermas, che è giunto ad affermare che il riconoscimento della natura è condizione per l’esercizio della libertà.  Ma siamo sicuri, si chiede Borghesi, che oggi si sia ancora interessati ad essere liberi? Non è che gli esiti della modernità illuminista siano ormai sfuggiti di mano? Può essere che la modernità sia andata già oltre Habermas, oltre al dialogo sull’uomo e la sua libertà mostrando un sostanziale disinteresse per esso (Cf M. Borghesi, I presupposti naturali del poter-essere-se-stessi. La polarità natura-libertà di Jürgen Habermas, in F. Russo (a cura di), Natura cultura libertà, Armando, Roma 2010, pp. 65-98).
[4] Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate, n. 75.
[5] «Ogni essere è più che se stesso; ogni avvenimento significa più che non il suo stretto compiersi. Tutto si riferisce a qualcosa che sta al di sopra o al di là. E solo a partire da là riceve la sua pienezza. Se esso scompare le cose e  le situazioni si svuotano di senso» (R. Guardini, La fine dell’epoca moderna,Morcelliana, Brescia 19938, p. 97).
[6] Cf Benedetto XVI, Discorso nell’aula magna dell’Università di Regensburg  (12 settembre 2006), in Benedetto XVI, Chi crede non è mai solo. Viaggio in Baviera. Tutte le parole del Papa, Cantagalli, Siena 2006, p. 25.
[7] Cf. G. Crepaldi-P. Togni, Ecologia ambientale ed ecologia umana. Politiche dell’ambiente e Dottrina sociale della Chiesa, Cantagalli, Siena 2007.
[8] Cf Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana per la presentazione degli auguri natalizi, 21 dicembre 2012. Cf anche E. Montfort, Il concetto di genere nelle nostre società postmoderne, in G. Crepaldi e S. Fontana, Quarto Rapporto sulla Dottrina  sociale della Chiesa nel mondo, Cantagalli, Siena 2012, pp. 133-155.
[9] «L’uomo tende verso il bene ma è pure capace di male, può trascendere il suo interesse immediato e, tuttavia, rimanere ad esso legato (Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Centesimus annus, n. 25).
[10] J. Card. Ratzinger, Intervento sull’ecclesiologia della Costituzione “Lumen Gentium” al convegno internazionale sull’attuazione del Concilio ecumenico Vaticano II promosso dal comitato del Grande Giubileo dell’anno 2000, 27 febbraio 2000.
[11] Cf Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate, n. 51.
[12] Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita pubblica, 24 Novembre 2002, n. 4..
[13] «Tutto quanto è in grado di sussistere unicamente grazie all’interpretazione, in realtà ha bell’e finito di sussistere» (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 200312, p. 102); ma per fortuna «l’uomo non è prigioniero della stanza degli specchi delle interpretazioni; egli può e deve cercare il pertugio verso il vero che sta sotto le parole e che in esse e attraverso esse si mostra» (J. Ratzinger, Fede, verità e cultura. Riflessioni in relazione all’enciclica Fides et ratio, Madrid, 16 febbraio 2000, supplemento a “Tracce”, marzo 2000, p. 11).
[14] Cf J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 200312, pp. 121-148.
[15]  Cf le osservazioni di S. Fontana, “Metafisica della relazione tra persone”.  Note su un possibile itinerario di ricerca, in F. Carderi – M. Mantovani – G. Perillo (a cura di), Momenti del Logos, Ricerche del Progetto LERS (Logos, Episteme, Ratio, Scientia) in memoria di Marilena Amerise e di Marco Arosio, Edizioni Nuova Cultura, Roma 2012.

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