di Fabrice Hadjadj
Per gentile concessione dell’autore traduciamo
un inedito del filosofo Fabrice Hadjadj, apparso sul sito printempsfrancais.fr e intitolato ”Meravigliatevi!
Per un manifesto dei meravigliati”.
Non siamo degli
indignati. Ciò che ci anima è un sentimento più primitivo, più positivo, più
accogliente: si tratta di quella passione che Cartesio considera la prima e la
più fondamentale di tutte: l’ammirazione. Essa è prima perché la si sperimenta
di fronte alle cose che ci precedono, che ci sorprendono, che non abbiamo
pianificato noi: i gigli dei campi, gli uccelli del cielo, i volti, tutte le
primavere… Prima di soddisfarci dell’opera delle nostre mani e della vittoria
dei nostri princìpi, ammiriamo questo dato naturale.
Questa è la
colorazione affettiva che tentiamo di fare entrare nelle nostre azioni. Esse
non sono motivate da uno stato d’animo triste o di rivendicazione. Non sono
imbevute di amarezza. Non vorrebbero essere altro che rendimenti di grazie.
Perché, a partire da questa ammirazione primigenia, esse devono fiorire in
gratitudine verso la vita ricevuta, verso la nostra origine terrestre e
carnale: il fatto che non ci siamo fatti da soli, ma che siamo nati, da un uomo
e da una donna, secondo un ordine che sfuggiva a essi stessi.
Lungi dall’essere
degli spiritualisti o dei moralizzatori, riconosciamo quella che Nietzsche
chiamava «la grande ragione del corpo» e anche «lo spirito che opera dalla vita
in giù». Sì, noi siamo meravigliati dall’ordinazione reciproca dei sessi, dal
genio della genitalità. Certo, questa organizzazione stupefacente è come il
naso in mezzo al nostro volto: tendiamo a non vederlo. Ci inorgogliamo di avere
costruito una torcia, e dimentichiamo lo splendore del sole; idolatriamo la
magia delle nostre macchine, e disprezziamo la meraviglia della nostra carne.
Questa meraviglia la nascondiamo sotto le parole «biologico», «determinismo»,
«animalità», e assumiamo un’aria di superiorità, vantando le libere prodezze
della nostra fabbrica. E tuttavia, che cosa c’è di più stupefacente di questa
unione degli esseri più differenti, l’uomo e la donna? E cosa c’è di più
sorprendente del loro abbraccio, chiuso sul suo proprio godimento, e che
tuttavia si strappa, secondo natura, per permettere l’avvento di un altro, di
un’altra differenza ancora: la futura piccola peste, il già disturbante, colui
che chiamiamo «il bambino»? Jules Supervielle esprime con una precisione più
che scientifica che la riduzione biologistica ci nasconde: «Ed era necessario
che un lusso d’innocenza/ concludesse il furore dei nostri sensi?».
Perciò le nostre
manifestazioni non sono quelle di una corporazione, ma quelle dei nostri corpi.
Non partono da uno scopo politico o partitico, ma da un riconoscimento antropologico.
Non cercano di prendere il potere, ma di rendere una testimonianza culturale a
un dato di natura, in uno slancio di gratitudine. In greco «natura» si dice
«fisis», parola che viene dal verbo «fuein», che significa «apparire» o. più
precisamente, «manifestarsi». La natura non è anzitutto una riserva di energie,
né una miniera di materiali manipolabili secondo la nostra volontà, ma una
manifestazione di forme organizzate, spesso splendide al nostro sguardo.
Certo, la natura è
anche ferita, disordinata: c’è la sofferenza, c’è la morte, c’è l’ingiustizia.
Ma queste rovine ci fanno orrore proprio perché abbiamo anzitutto intravisto la
sua generosità zampillante: se non avessimo percepito la bontà delle sue forme,
non saremmo scandalizzati da ciò che la sfigura… Le nostre manifestazioni non
hanno dunque altro motivo che di attestare lo splendore di questa
manifestazione primigenia. Non riguardano il rapporto di forze. Si fondano su
un’esigenza di ospitalità verso questa presenza reale, fisica, iniziale (non segare
il ramo su cui siamo seduti, non pretendere di far sbocciare il fiore forzando
il bocciolo). Ed è a causa di questo che le nostre manifestazioni dureranno
fintanto che ci saranno peni e vulve, e la loro ordinazione reciproca anzitutto
involontaria, e la loro fecondità che mette in discussione la nostra avarizia.
Ma è esattamente
questa esigenza di ospitalità, questa relazione di meraviglia e di gratitudine
verso la nostra origine, diciamo pure questo rapporto di debolezza, che
risultano insopportabili a coloro che concepiscono tutto in termini di rapporti
di forza. Vorrebbero che noi non fossimo altro che una fazione. Preferirebbero
che mettessimo le bombe. Questa violenza gli risulterebbe meno violenta della
nostra manifestazione elementare, quella della semplice presenza fisica di un
uomo e di una donna, e di un bambino di cui essi sono anche il padre e la
madre… Se non si trattasse che della nostra opinione, se non fosse altro che la
nostra arroganza, potrebbero farci tacere. Ma come far tacere la presenza
silenziosa del corpo sessuato?
Che ci sia permesso –
dopo il richiamo di ciò che siamo per essenza: dei meravigliati – di insistere
su cinque conseguenze importanti per noi come per gli altri. Perché non siamo
al riparo dall’ingratitudine, e a forza di non essere riconosciuti nel nostro
meravigliarci, l’indignazione può finire per offuscare questo fondamentale
meravigliarsi, e rischiamo di cadere sia nello scoraggiamento, sia in una
violenza illegittima.
1. Alcuni ci accusano
di essere dei «fascisti», procedimento linguistico molto riduttivo, che
permette di designare un nemico senza ascoltarlo, e che si richiama
precisamente ai procedimenti del fascismo storico. Altri ci tacciano
semplicemente di essere dei «reazionari», come se il fatto di reagire fosse in
sé un male, e non un segno di vitalità, e come se la retorica del «progresso»,
che è stata tanto utile al Terrore e al totalitarismo, non fosse ormai
esaurita. Altri diranno che facciamo quello che facciamo perché siamo dei
«cattolici», o degli «ebrei integralisti», o dei «fondamentalisti musulmani»…
Ma no, siamo soltanto
dei francesi, e più semplicemente ncora sia degli uomini e delle donne, molto
lontani da qualsiasi puritanesimo e da qualsiasi fondamentalismo, ci incantano
le natiche e non ci repelle l’ammirazione della congiunzione improbabile del
«pisello» e della «passerina» e del pancione che ne deriva. Con maggiore
precisione ci si potrebbe collocare fra i fautori di un’ecologia integrale. Ma
questo genere di classificazione viene rifuggita per timore di dover
riconoscere le contraddizioni dei numerosi movimenti ecologisti odierni, ma
anche perché non c’è niente, in fondo, che ci si può rimproverare, ovvero il
rimprovero può colpirci soltanto colpendo anche il dato rappresentato dalla
carne. Se siamo fascisti, bisognerebbe concludere che la natura stessa è
fascista, e che è necessario eliminarla, cosa che presenta un certo numero di
inconvenienti.
2. Molti non
comprendono perché manifestiamo contro una riforma del codice civile che
soddisfa gli interessi di qualcuno mentre non lede i nostri (non si parla,
comunque, degli interessi del bambino). Effettivamente, ecco qualcosa che
lascia senza parola gli utilitaristi di ogni sponda: non manifestiamo per il
trionfo dei nostri interessi particolari. Cerchiamo soltanto di testimoniare
ciò che è anteriore a ogni interesse, cioè il dono della nascita.
3. È esattamente ciò
che arriva a nascondere lo slogan dell’«uguaglianza» che ci viene servito in
tutte le salse, senza riflettere su ciò che questo termine significa, sulle
minacce di livellamento che comporta, ovvero su quelle di «riduzione» che ha
sempre contenuto. C’è un’evidente e naturale diseguaglianza fra la coppia
formata da un uomo e una donna e quella di due uomini o di due donne.
Per rendere uguali le
condizioni, è necessario ricorrere all’artificio, e passare dalla nascita alla
fabbricazione, dal “born” al “made”… Dietro la pretesa legalizzazione
giuridica, c’è dunque un assoggettamento tecnocratico, e il progetto di
produrre persone non come persone, dunque, ma come prodotti, in base ai nostri
capricci, secondo la legge della domanda e dell’offerta, in conformità ai
desideri fomentati dalla pubblicità: «Un bambino à la carte, la vostra piccola
cosa, l’accessorio della vostra autorealizzazione, il terzo compensatorio delle
vostre frustrazioni; infine, per una modica somma, il barboncino umano!».
4. Ecco perché non
siamo «omofobi». Siamo meravigliati dai gays veramente gai, dai «folli» senza
gabbia, dai saggi dell’inversione. L’amore della differenza sessuale, così
fondamentale, con quello della differenza generazionale (genitori/figli), ci
insegna ad accogliere tutte le differenze secondarie. Se io, uomo, amo le
donne, così estranee al mio sesso, come potrei non avere simpatia, se non
amicizia, per gli omosessuali, che mi sono, in definitiva, molto meno estranei?
D’altra parte ce ne
sono sempre stati, che non avevano paura di affermare la loro differenza, di
assumere una certa eccentricità, un lavoro ai margini. Allo stesso modo, noi
crediamo che ciò che è veramente «omofobo» è lo pseudo-«matrimonio gay». Siamo
di fronte a un tentativo di imborghesimento, di normalizzazione dell’omofilia,
di annientamento della sua scortesia sotto il codice civile. Che bel dono
questo «matrimonio» che non è altro che un arrangiamento patrimoniale o un
divorzio rinviato! Purché gli omosessuali rientrino nei ranghi, e che siano
sterilizzati soprattutto nella fecondità che è loro propria.
Perché, chi ignora la
loro fecondità artistica, politica e, letteraria, nella compassione? Gli
antichi Greci la intendevano così: liberi dai doveri familiari, potevano
consacrarsi maggiormente al servizio della Polis. Sapevano che i loro amori
avevano qualcosa di contro-natura, ma non per questo disprezzavano la natura
(di là, molto spesso, l’amore per la loro madre – vedi Proust o Barthes), e vi
trovavano risorse per l’arte.
5. Come potremmo,
meravigliati come siamo, lanciarci in azioni violente, denigratorie, esclusive?
Una volta di più: non cerchiamo una vittoria politica. Non siamo nemmeno sicuri
che ci sia veramente qualcosa da salvare in questo matrimonio privatizzato, che
non ha più nulla di repubblicano da parecchio tempo. Ed è per questo che,
malgrado la sconfitta legislativa (ma quando vediamo la trappola mediatica e
partitica nella quale si trovano i nostri legislatori, ci domandiamo se davvero
dobbiamo occuparci di questo), noi continueremo a manifestare: senza armi,
senza odio, persino senza slogan, ma con la nostra piccola epifania di creature
di carne, ossa e spirito.
(traduzione di Rodolfo
Casadei)
© Tempi
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