di Riccardo Cascioli
Riconosciamo le unioni delle
persone dello stesso sesso, ma non chiamiamole matrimonio. L’ultimo a sostenere
questa bizzarra posizione è stato l’arcivescovo Piero Marini, delegato
pontificio per i Congressi Eucaristici, in una intervista rilasciata al
quotidiano La Naciòn il 20 aprile a
margine del Congresso Eucaristico in Costa Rica.
Rispondendo a una domanda sulla laicità dello Stato,
monsignor Marini - che è stato per molti anni
cerimoniere di papa Giovanni Paolo II - ha detto testualmente: «E’ necessario
riconoscere le unioni delle persone dello stesso sesso, perché ci sono molte
coppie che soffrono perché non vedono riconosciuti i loro diritti civili;
quello che non si può riconoscere è che questa coppia sia un matrimonio».
L’uscita di monsignor Marini è sconcertante, ma non è
affatto sorprendente. Perché prima di Marini
altri eminenti ecclesiastici si sono fatti portavoce di questa posizione, a
dimostrazione che nella Chiesa sta prendendo piede una preoccupante cultura
omosessualista. Il che non significa che chi sposa queste posizioni abbia
necessariamente tendenze omosessuali, semplicemente manifesta una sudditanza al
pensiero oggi dominante e cerca di trovare un compromesso tra questo e la
dottrina della Chiesa.
Del resto si ricorderà che all’inizio di febbraio era stato
monsignor Vincenzo Paglia a esporre la stessa
teoria nella sua prima, infelice, uscita da presidente del Pontificio Consiglio
per la Famiglia. E’ davvero curioso - per non dire altro - che di fronte
all’attacco globale contro la famiglia cui stiamo assistendo, che arriva da
potentissime lobby internazionali, il presidente del Pontificio Consiglio si
senta in dovere di esordire spezzando una lancia per il riconoscimento delle
unioni gay. Unioni che notoriamente sono il cavallo di Troia per distruggere la
famiglia fondata sul matrimonio.
Pensare che quel Pontificio
Consiglio per la Famiglia era stato voluto da Giovanni Paolo II proprio per
fare fronte in quella che lui stesso aveva definito la battaglia decisiva del
Terzo millennio; e aveva messo a dirigerlo il cardinale colombiano Alfonso
Lopez Trujillo, sulla cui dedizione alla causa non ci potevano essere dubbi.
Ma né l’uscita di monsignor Marini né tantomeno quella di
monsignor Paglia sono casuali o estemporanee.
Questa infatti è ormai diventata la posizione ufficiale della Chiesa italiana,
e lo dimostra l’editoriale pubblicato da Avvenire lo scorso 13 aprile a commento delle inaudite parole del presidente della Corte Costituzionale
Franco Gallo, che invitava il Parlamento al riconoscimento delle unioni gay.
Nell’occasione il professor
Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani ed
editorialista di punta del quotidiano della Conferenza Episcopale, cercava di
minimizzare le parole di Gallo affermando che in effetti non aveva richiesto la
parificazione delle unioni gay al matrimonio, ma semplicemente di garantire i
diritti civili delle stesse.
E D’Agostino aggiungeva che la cosa andava sicuramente bene a
patto di riconoscere tutte le convivenze:
«Esistono infatti molteplici forme di convivenza espressive di bisogni umani
autentici, - affermava D’Agostino - a volte accompagnate anche da rilevanti
interessi economici: in questo novero possono farsi rientrare le convivenze tra
fratelli, tra genitori e figli, quelle comunitarie (ad esempio a ispirazione
religiosa), quelle attivate da e tra studenti universitari negli anni (non
brevi) necessari a conseguire una laurea, quelle tra lavoratori immigrati,
eventualmente in attesa di un ricongiungimento familiare... tutte queste forme
di convivenza hanno una loro legittimità proprio perché si basano su istanze
sociali e non sulla pretesa di possedere una valenza para-coniugale».
E poi concludeva: «Se il
legislatore ritiene che alcune convivenze siano socialmente meritevoli di
tutela patrimoniale (in specie per la possibilità che un convivente possa
trovarsi senza sua colpa in una situazione di difficoltà economica) intervenga
pure, anche con urgenza, ma lo faccia per tutti i conviventi e non solo per
quei conviventi che danno rilievo sessuale alla loro unione».
E’ lo stesso concetto che sta dietro al disegno di legge sui
“contratti di solidarietà” proposto da alcuni
parlamentari cattolici, evidentemente fuorviati da qualche monsignore. Questo
approccio, in realtà, fa acqua da tutte le parti.
Anzitutto, hanno mai visto D’Agostino e Paglia
manifestazioni o petizioni di studenti, fratelli,
lavoratori immigrati per vedersi riconosciuto il diritto non si sa bene a quale
scambio patrimoniale? No, semplicemente perché per situazioni di questo genere
ci sono già abbondanti strumenti di diritto privato, come del resto La Nuova BQ aveva già dettagliato a suo tempo. Casomai sono le famiglie, soprattutto quelle con figli, ad
avere bisogno dell’intervento del legislatore.
Curiosamente anche il
professor D’Agostino ne era consapevole almeno fino al 13 marzo scorso. In
quella data, infatti, intervistato dal sito Aleteia,
a una domanda sulle tutele patrimoniali per le
coppie gay rispondeva: «I membri di una coppia gay hanno già a disposizione
diversi strumenti di tutela: possono nominarsi reciprocamente eredi
testamentari, istituire polizze sulla vita a favore del partner, intestare
contratti di affitto ad entrambi. Molte situazioni della vita quotidiana sono
risolte dal diritto comune». Chissà perché nel giro di qualche settimana dice
qualcosa di diverso. Comunque quello che vale per i gay vale per chiunque
altro.
Però ve li vedete due o tre studenti universitari intestarsi reciprocamente le polizze sulla vita o due immigrati
in attesa di ricongiungimento familiare nominarsi eredi testamentari, cosa che
peraltro potrebbero già fare adesso senza bisogno di una legge ad hoc?
Allora a cosa dovrebbero servire i “contratti di
solidarietà” o come altro li vogliamo chiamare?
Cerchiamo di non essere ipocriti, i “contratti di solidarietà” servono
semplicemente a mascherare il primo passo verso il pieno riconoscimento delle
unioni gay.
C’è poi un secondo punto su cui D’Agostino equivoca.
Commentando le parole del presidente della Corte
Costituzionale, egli infatti si appoggia all’articolo 2 della Costituzione che
«parla genericamente di tutela di formazioni sociali nelle quali si svolga la
personalità dell’uomo» per affermare che «tra queste è ben possibile far
rientrare le convivenze».
Spiacente, ma non era questa l’intenzione di chi ha scritto
e discusso quell’articolo, e non soltanto perché
allora le convivenze non andassero di moda. Il professor D’Agostino, ma anche
monsignor Paglia e monsignor Marini farebbero bene ad andarsi a
rileggere la relazione di Giorgio La Pira della I Sottocommissione della
Costituente in cui spiega i
“principii relativi ai rapporti civili”, tenendo presente che la formulazione
dell’articolo 2 si deve proprio a La Pira.
Ebbene, per chi ha scritto la Costituzione le “formazioni
sociali” hanno anzitutto il loro fondamento nei
diritti naturali della persona e sono tutti quei corpi intermedi che tutelano
la persona dall’invadenza dello Stato: comunità familiare, di lavoro,
religiosa, e così via.
La preoccupazione evidente
era allora quella di evitare un nuovo totalitarismo, per questo si blindavano
le formazioni sociali a tutela della persona. Tutto il contrario di quello che
si vuole fare oggi riconoscendo le unioni gay: distruggere la famiglia per
costruire un rapporto individuo-Stato. Ed avviarsi così a una nuova forma di
totalitarismo.
E’ la famiglia la prima formazione sociale che intende
l’articolo 2 della Costituzione, e non si può
riconoscere giuridicamente una qualsiasi convivenza senza elevarla -
esplicitamente o implicitamente - al rango di comunità familiare. Smentendo
così clamorosamente il punto di partenza da cui partono D’Agostino e co.,
ovvero che sia possibile riconoscere le convivenze senza intaccare il valore
della famiglia fondata sul matrimonio.
Vale a dire: chi sta portando i cattolici su questa strada si
sta assumendo una responsabilità gravissima.
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