di Mario Palmaro
Giustamente il direttore
della Nuova Bussola Quotidiana ha espresso su queste pagine con
molta chiarezza tutte le sue perplessità di fronte a una strana posizione che
nel mondo cattolico italiano va facendosi strada in materia di unioni gay. Si
tratta di una nuova dottrina che si può riassumere nello slogan: no al
matrimonio tra omosessuali, ma sì al riconoscimento dei diritti civili e di
forme di unioni diversamente denominate.
Ora, la faccenda è di notevole portata, quando si pensi che a sostenere questa posizione sono, fra
gli altri, monsignor Vincenzo Paglia, monsignor Piero Marini, il quotidiano della
CEI Avvenire, il portavoce della sala Stampa
vaticana padre Federico Lombardi, il filosofo del diritto e presidente
dell’Unione Giuristi cattolici Francesco D’Agostino.
Fino a qualche decennio fa, quando fra i cattolici qualcuno
sbandava e la sparava grossa, ce la si cavava
dicendo: beh, è una posizione isolata, è una voce stonata fuori dal coro.
Succedeva così con i teologi ribelli, le comunità di base, i preti operai, i
frate mitra, i cattocomunisti del regime sandinista, i moralisti dell’università
di Nimega, eccetera eccetera. Adesso il quadro si è fatto più complicato, e di
fronte alla presa di posizione che caldeggia forme di riconoscimento delle
unioni diverse dal matrimonio, nessuno può più cavarsela dicendo che si tratta
di sparate solitarie. Anzi: i solitari rischiano di diventare quelli che a tali
posizioni aperturiste provano a opporsi.
Qui assistiamo a un fenomeno organico: dopo aver sostenuto per decenni che non c’era alcun bisogno
di legiferare per tutelare le persone omosessuali o eterosessuali conviventi
more uxorio – ragioni riassunte in modo cristallino da Gianfranco Amato sempre su queste pagine – tutt’a un tratto il mondo cattolico italiano ufficiale fa marcia indietro, e
scopre che invece la tutela ci vuole, e che bisogna fare una legge in materia.
Era giusta la posizione precedente, o quella attuale? Il
principio di non contraddizione impedisce di
ammettere che siano entrambe vere, poiché sono intrinsecamente alternative e
contraddittorie fra loro. Per quale ragione Avvenire e i giuristi di area cattolica prima liquidavano i Dico del
Governo dei “cattolici” Prodi-Bindi come un mostro inaccettabile, e adesso
invece invocano soluzioni giuridiche che ripercorrono quella strada? Che
cosa è successo? Semplice: sta per essere girata una nuova puntata della
telenovela cattolica dedicata al cosiddetto male minore.
Da una decina d’anni, la dottrina del male minore si è impossessata come
un demone di importanti fette del mondo cattolico. In base a questa strategia,
i cattolici in politica - e gli organi di informazione e formazione che li
spalleggiano – non devono più “limitarsi” (sic) ad affermare i principi non
negoziabili opponendosi alle iniziative legislative che li negano, ma devono
assumere l’iniziativa legislativa promuovendo leggi che affermano quei principi
solo in parte, ma che impediscono l’approvazione di leggi peggiori.
La madre di tutte le battaglie per il male minore è stata quella sulla fecondazione artificiale: gli
esponenti dell’ex Pci – sinceramente non mi
ricordo se all’epoca si chiamassero Pds, Ds, o Pd – promossero una legge che
avrebbe legalizzato i bambini in provetta ammettendo sia la fivet omologa che quella eterologa, e
adottando una linea estremamente permissiva. A quel punto, i cattolici
produssero un documento che definiva “buona” una legge che avesse vietato la
fecondazione artificiale eterologa. Tra i promotori principali di quel
manifesto si segnalò il professor Antonio Maria Baggio, lo stesso intellettuale
cattolico che l’altro giorno ha salutato la nomina di Emma Bonino a ministro
degli Esteri dicendo: “Vorrei sottolineare, per esempio, l’inserimento della
signora Bonino nel governo, posta in un luogo come gli Esteri, che lei ha
sempre vissuto in chiave soprattutto di diritti umani e di diritti dei popoli
piuttosto che di rapporti tra gli Stati. Anche questa, vorrei sottolineare, è
una scelta che a me sembra positiva».
La conseguenza operativa di quel manifesto fu la legge 40
del 2004, che fu presentata dai mass media come
“la legge cattolica sulla fecondazione artificiale”, e culturalmente divenne
anche sul piano morale “la via cattolica alla provetta”. Sappiamo che la legge
da allora è oggetto di un’operazione di smantellamento giudiziario, al quale il
mondo cattolico si oppone con particolare tenacia. Al punto che la fivet omologa viene presentata come
buona, e quella eterologa come cattiva. Con il fenomeno legge 40 si compiva una
svolta epocale nel modus operandi del mondo cattolico: si accettava di lavorare
a favore di leggi di compromesso, allo scopo di limitare i danni, rinunciando a
combattere sul piano giuridico, politico, culturale, morale e teologico per
proclamare la verità tutta intera su una questione cruciale di rilevanza
pubblica. Non a caso la legge 40 fotografava la prassi clinica in atto
all’ospedale “cattolico” San Raffaele, il cui comitato etico sosteneva già nel 1996
che la fivet omologa senza embrioni
soprannumerari fosse conforme alla dottrina cattolica sulla procreazione. Tesi
smentita – anche se non pubblicamente – dalla Congregazione per la dottrina
della fede.
Una seconda puntata di quella telenovela venne girata
nell’autunno del 2008, quando, sotto la spinta
del caso Englaro - che avrebbe avuto il suo tragico epilogo nel febbraio del
2009 – il presidente della Conferenza Episcopale cardinale Angelo Bagnasco
decise un altro cambiamento di rotta: sì al testamento biologico, ribattezzato
Dichiarazioni anticipate di trattamento,
le famose Dat. Ogni studioso di bioetica sa che
gli autori cattolici sono sempre stati contrari all’uso di questo strumento.
Quindi anche in questo caso si assisteva allo sdoganamento politico e giuridico
di una soluzione – quella delle Dat – che fino a pochi giorni prima di quel
discorso della Cei era totalmente osteggiato dal mondo cattolico. La legge fu
sostenuta con furore dagli ambienti cattolici ufficiali, ma non passò a causa
della crisi del Governo Berlusconi. Anche in questo caso, il risultato è stato
che il testamento biologico viene presentato nel mondo cattolico come uno
strumento buono, auspicabile, e perfino necessario.
Il caso della giravolta dottrinale sulle unioni gay si può
comprendere solo dentro a questo scenario. Anche
in questo caso, i cattolici temono – e hanno ragione – che la massa di deputati
del Pd, di Sel, dei grillini, insieme a spezzoni dei laici del Pdl e di Scelta
Civica, votino una legge sui gay del tutto simile a quella francese. Ed ecco il
“colpo di genio”: prendere l’iniziativa, promuovendo una legge che riconosca
alcuni diritti civili, che permetta anche di regolamentare le unioni fra
persone dello stesso sesso, rimuovendo l’aspetto sessuale-affettivo del legame,
e permettendo a chiunque – quindi anche ai gay – di beneficiare di tale
normativa. In questo modo – pensano questi autorevoli cattolici – eviteremo che
si usi a sproposito il termine matrimonio, e impediremo le adozioni da parte di
persone conviventi dello stesso sesso.
Come si vede, la logica è sempre la stessa: la linea del Piave morale non è più tracciata da principi
invalicabili proclamati anche con l’azione politica e giuridica. Non ci si
assesta più su posizioni intransigenti, del tipo: no al divorzio, no
all’aborto, no ai bambini in provetta, no all’eutanasia, no al riconoscimento
dell’omosessualità come valore che genera uno status giuridico. Per carità,
queste posizioni non sono apertamente negate. Semplicemente, scompaiono dal
dibattito pubblico. Il politico di riferimento, al quale i cattolici hanno appaltato
i temi eticamente sensibili, su questi principi tace. E diventa molto loquace
nel sostenere le soluzioni di compromesso – ovviamente lodate come punto di
equilibrio alto e civile – che verranno sostenute in sede parlamentare. Dunque
la linea del Piave morale per i cattolici si sposta continuamente: in un certo
momento coincide con il rifiuto dei matrimoni gay; in un momento successivo,
arrivate le nozze gay, coincide con il rifiuto delle adozioni per i gay; in un
momento ancora successivo, giunte le adozioni, il politico cattolico sposta la
trincea al punto in cui si richiede che i gay siano conviventi da almeno cinque
anni, e facciano la raccolta differenziata correttamente e allevino un cucciolo
di cane da almeno tre. E così via.
Insomma: al mondo cattolico sta accadendo quello che
succede, da sempre, ai partiti politici, in
special modo di sinistra: la “linea” del comitato centrale sostituisce e si
mangia la dottrina ideologica, modificandola in continuazione. Per il militante
del Pci italiano, nel 1956 i carri armati sovietici in Ungheria vanno bene, nel
1968 quelli a Praga vanno già meno bene; nel 1978 i carri armati in Polonia non
vanno più bene; nel 2013 il militante ex comunista dichiara: “quali carri
armati?”
Ovviamente, con riferimento alla Chiesa cattolica non stiamo
parlando di una ideologia, ma di una dottrina
divinamente ispirata, fondata sulla Tradizione e sulla Sacra Scrittura. Il
nostro è solo un ragionamento analogico, per capirci. Questa è la ragione per
cui il cattolico – peggio se è un intellettuale, o un giornalista, o perfino un
politico – che oggi insista a testimoniare pubblicamente la non negoziabilità
di certi principi, finisce in fuorigioco, fa la fine del classico giapponese
che combatte nell’isola del Pacifico una guerra che non c’è più.
Ma almeno, uno potrebbe chiedere, questa “dottrina del male minore” porta davvero dei risultati? Sì: il disastro. Quando ero bambino,
mio padre mi ripeteva spesso l’apologo della diga. Per quanto grande e robusta
possa essere una diga – mi diceva – se in quel cemento armato si apre un
piccolo forellino, e l’acqua comincia a passarci attraverso, è solo questione
di tempo, e prima o poi la diga viene giù tutta quanta. Ecco, la dottrina del male minore ignora che ogni
concessione fatta pubblicamente al male e alla menzogna è un buco nella diga
della verità. Prima o poi, tutto è travolto dalla logica, distruttiva, del
compromesso.
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