di Silvio Brachetta
Non è semplice interpretare e praticare quanto scrive
l’Apostolo san Paolo nelle sue Lettere. Se ne accorse da subito san Pietro, ad
esempio, che riscontrò in esse «alcune cose
difficili da comprendere» e si lamentò di come «gli ignoranti e gli instabili» le travisassero, «al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina»
(2Pt 3, 16). Ci sono due modi, essenzialmente, per assimilare quanto insegna
l’Apostolo delle genti: o affidarsi alla guida sicura del Magistero della
Chiesa, o meditare sulla vita e sulla predicazione dei santi, che in san Paolo
non hanno mai incontrato un ostacolo, ma piuttosto un modello per
l’edificazione personale e per la sequela Christi.
Una delle interpreti paoline più credibili fu la beata carmelitana francese Élisabeth de la Trinité
- suor Elisabetta della Trinità
(1880-1906) - che nel suo epistolario citò diffusamente l’Apostolo. Ma lo citò
perché lo comprese in profondità e riuscì ad incarnarne eroicamente la
dottrina. La suora - al secolo Élisabeth Catez - sottomise se stessa alla
volontà divina e, nell’accettazione decisa delle umiliazioni e delle sofferenze
quotidiane, pervenne in breve alla condizione di olocausto vivente. Finché si spense,
a soli ventisei anni, vittima del morbo di Addison (a quel tempo incurabile)
che le aveva compromesso gravemente le funzioni metaboliche. Si tratta in
genere di una morte orribile, poiché il malato, in assenza di cure adeguate e
di cibo, muore di fame. Elisabetta fu beatificata il 25 novembre 1984 dal
pontefice Giovanni Paolo II.
Eroicità dei
sacrifici quotidiani
Il sacerdote carmelitano Juan
De Bono, giunto in Italia da Malta, la scorsa estate ha diffusamente
parlato della beata Elisabetta della Trinità,
durante gli esercizi spirituali che l’Ordine dei carmelitani scalzi tiene
annualmente presso la Casa incontri diocesana a Roverè (Verona). Padre De Bono è autore, tra l’altro, di un libro
dedicato alla beata. Si tratta di una rielaborazione della sua tesi di laurea,
a conclusione degli studi teologici. Durante gli studi, il padre venne a
conoscenza della vicenda umana e degli scritti di suor Elisabetta. Ne restò
affascinato al punto da dedicarle buona parte del proprio tempo, recandosi
anche in Francia per reperire le fonti necessarie alla stesura della tesi.
La beata - è questa la sua
peculiarità - realizzò in modo eccellente la “piccola Via”, proposta
dalla più celebre coetanea santa Teresa di Lisieux (1873-1897), che consiste
nell’accettazione eroica dei sacrifici quotidiani, per piccoli e banali possano
apparire. Ma non sono per nulla banali dinnanzi a Dio, poiché per essi si
giunge alla salvezza allo stesso modo in cui vi giunsero i martiri, passati in
modo cruento e repentino da questo mondo alla gloria celeste. Piccoli e grandi
sacrifici, immagine del supremo sacrificio del Crocifisso, richiedono in realtà
una medesima virtù eroica che, in genere, è concessa dalla grazia solo ai
penitenti. Questi, perseverando nella preghiera e nei sacramenti, pervengono
presto o tardi alla perfezione, perché corrispondono ai doni dello Spirito
Santo mediante una libera scelta della propria volontà e ottengono così dalla
grazia un rafforzamento di ogni virtù, posta dalla Provvidenza nell’uomo come
capacità di realizzare il volere del Padre.
Invano si cercherebbe qualcosa di sbalorditivo o miracoloso
nella vicenda della beata carmelitana, perché realizzò la “piccola Via” nel nascondimento e nella
sottomissione al volere divino. Così come Maria Santissima, Madre di Dio, si
può ben dire che ella custodì tutte le proprie esperienze «meditandole nel suo cuore» (Lc 2, 19).
Conversione della mente e del cuore
Eppure, fino all’età di sette
anni, la piccola Sabette - così era chiamata Élisabeth dai familiari - non
sembrava promettere nulla di particolare: padre De Bono riferisce di un
carattere collerico, capriccioso, anche se riconducibile alla sua «forte
sensibilità». La sorella Guite (diminutivo familiare di Marguerite) ammise, nei
propri ricordi, che «Elisabetta è stata molto ardente e sensibile». E aggiunse:
«lei ha avuto una natura da combattere; molto vivace, delle vere collere. Molto
diabolica». Anche il Vicario parrocchiale della città francese di residenza dei
Catez (Digione) affermò che Sabette, con il suo carattere, non sarebbe che
potuta divenire «un angelo o un demonio».
Optò decisamente per il paradiso dopo la morte del padre,
Joseph Catez, che gli spirò tra le braccia. Un infarto improvviso troncò
l’affetto paterno e recise pure in lei la convinzione infantile che la realtà
possa essere manipolata a piacimento dai nostri capricci. La forte volontà
della bimba, per nulla fiaccata dall’episodio, mutò però bruscamente
orientamento: con «determinata determinazione» - virtù, ad esempio, di santa
Teresa d’Avila riformatrice del Carmelo, come pure di altri grandi santi -
dirottò il proprio affetto su Gesù Cristo che, da allora, considerò come il suo
«amato Sposo e Signore».
Musicista di Dio e seguace
paolina
Durante l’adolescenza Elisabetta avrebbe volentieri abbandonato
il mondo per entrare in clausura al convento carmelitano di Digione. Ma la
madre, Marie Rolland, aveva per lei ben altri progetti: il matrimonio -
senz’altro - e un avvenire da musicista. Per questo la giovane fu iscritta al
Conservatorio cittadino e rivelò ben presto doti musicali non comuni. Non solo,
ma tramite la disciplina del solfeggio e la comprensione profonda degli Autori,
ella riuscì a «trasformare poi il contenuto» degli spartiti «in prassi di
vita». «Lei è morta da musicista» - precisa Padre
De Bono - «nel senso che trasformò se stessa in musica e quello che
suonava era Dio». La sensibilità musicale pervase l’intera vita della beata
carmelitana, tanto nelle vicende quotidiane, quanto in ciò che lasciò per
iscritto: «un po’ come si dice di Vivaldi» - riflette in un suo libro mons.
Mariano Magrassi, altro grande studioso della beata - Elisabetta «ha scritto la
stessa musica, sempre con note diverse».
E a proposito degli scritti (epistole, in gran parte), Padre De Bono ce li presenta infarciti di citazioni
bibliche, delle quali poco meno della metà riportano passi delle Lettere di san
Paolo. Suor Élisabeth scrive ed incarna l’insegnamento paolino nelle tematiche
più importanti. L’ispirazione maggiore - a parere di Juan De Bono - giunse a suor Elisabetta dal passo
paolino di Ef 1, 11-12: «In lui [in Cristo, ndr] siamo stati fatti anche eredi […]
perché noi fossimo a lode della sua gloria […]». A lode della sua
gloria, in laudem gloriæ ipsius.
Ebbene, questa vocazione - la vocazione di essere la lode della gloria di Gesù
Cristo - «coincide perfettamente con l’aspirazione più profonda»
dell’ideale della beata, dice padre De Bono. Tanto che Elisabetta, a partire
dai due anni prima della morte, firmerà spesso lettere e poesie proprio con lo
pseudonimo “laudem gloriæ”. Non si tratta di parole retoriche, poiché ella
«non scrive dei veri trattati spirituali, ma racconta esperienze di vita».
“I miei Tre”
Nel 1901, al compimento del ventunesimo anno di età,
Elisabetta finalmente riesce ad ottenere dalla mamma il consenso di poter accedere
al Carmelo di Digione. La superiora del convento, madre Germana di Gesù, le fu
di grande aiuto per l’itinerario spirituale, sia durante il noviziato che
nell’ultimo triennio da suora effettiva. Elisabetta riesce anche a diventare
confidente di suor Anna Maria del Bambino Gesù, «considerata dalle consorelle
come una psicopatica e un’amante della vita comoda». Proprio dal forte legame
con madre Germana e suor Anna Maria, Elisabetta seppe sviluppare una
«concezione trinitaria dei rapporti» con le persone. Citando un testo del
teologo Antonio Maria Sicari, padre De Bono conferma la convinzione di suor Élisabeth, secondo cui «la vera lode di gloria
della Trinità viene cantata sulla terra quando tra persone coinvolte nello
stesso desiderio, si realizzano legami di tipo trinitario» e, dunque, tra le
tre carmelitane «si è riprodotto sulla terra» il «mistero dei Tre». E così
anche nella preghiera, la beata Elisabetta si rivolgeva a Dio chiamandolo «i
miei Tre», alludendo appunto al mistero della Trinità. Per tutto il tempo che
rimase al Carmelo - quindi fino alla morte - la beata offrì ogni sua sofferenza
o mortificazione come olocausto a Dio, immolandosi assieme a Gesù Crocifisso.
Confessò quindi e seppe realizzare l’esperienza di san Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più
io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Nell’agonia volle
offrirsi al Padre come un’ostia - conclude don Juan - e pervenne al mistero
della «predestinazione»: non per la salvezza o per la dannazione, ma per
«essere conforme al Figlio» (Rm 8, 29). L’ultimo scritto suor Elisabetta lo
redasse per l’amata priora, madre Germana. Le disse, tra l’altro: «[…] la
piccola ‘lode di gloria’ non canterà più sulla terra […] Il Signore la ama
enormemente. Non le dice come a Pietro “Mi ami più di costoro?” (Gv 21, 15)
Madre ascolti quello che le dice: “Lasciati amare”! “Lasciati amare più di
costoro”: questa è la sua vocazione».
Per approfondire:
Elisabetta
della Trinità, Scritti, OCD 2006
De
Bono Juan, Elisabetta della Trinità, LEV 2002
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