di Piero Vassallo
Geniale interprete e innovatore della filosofia del senso
comune e guida instancabile della società di pensiero, che ha elevato un
robusto argine a difesa della ragione e della verità cattolica, monsignor
Antonio Livi ripropone opportunamente "Il
senso comune, la filosofia dell'essere e le formule dogmatiche", un
magistrale saggio scritto negli anni Venti del secolo scorso, dal domenicano
padre Garrigou-Lagrange (1859-1941).
Edito in Roma dalla Casa editrice Leonardo nel corrente
2013, il volume, che è introdotto da una nota editoriale di Livi e da un
convincente saggio di Mario Padovano, suggerisce un severo esame della
filosofia nominalistica/irrazionalista, la fonte dalla quale discendono le due
correnti della catastrofe antropologica in atto: l'attivismo frenetico e
insaziabile degli omologati, che officiano il rito del carpe diem cravattaro, e la collera degli esclusi, che
trasferiscono la rivoluzione faustiana nel margine segnato dal risentimento e/o
dall'ira no-global.
Nella scena post-ideologica, la riflessione di
Garrigou-Lagrange oggi più che mai si legge come un manuale scritto per gli
studiosi e i politici, ai quali compete (competerà) la guida dei popoli al
presente sconcertati e afflitti dagli imperativi gridati dal sistema della
menzogna e dell'azione per l'azione.
Sulla dottrina del senso comune, esposta nel saggio
dell'illustre domenicano Garrigou-Lagrange, in seguito saranno pubblicate altre
note nel sito Riscossa Cristiana.
Adesso sembra urgente riassumere le acute e lungimiranti
critiche, che l'indimenticabile guida degli studiosi neoscolastici attivi nell'Angelicum,
indirizzò alle teorie di stampo nominalista ed eracliteo, formulate da Henri
Bergson (1859-1941) e in seguito sviluppate e propagandate dai suoi allievi e
dai suoi seguaci.
Le tesi bergsoniane, infatti, anticipano e in qualche modo
accreditano le suggestioni neopagane e oltre-umane, ultimamente diffuse dagli
interpreti dell'ateismo, i quali hanno allestito la scena girevole del
disordine economico e della disperazione anarcoide.
Ora il primo attacco lanciato dalla scolastica bergsoniana
contro la metafisica punta all'alterazione e al discredito del senso comune,
che è di conseguenza abbassato al livello dell'ignoranza e del pregiudizio.
Le Roy, fedele e intransigente esegeta di Bergson, dichiara
appunto che "Il senso comune
contiene, allo stato confuso e informe, non so quale residuo di tutte le
opinioni filosofiche di tutti i sistemi che hanno avuto qualche successo".
Di qui la proposta di regredire a una (presunta) percezione primitiva, oceano di immagini
indistinte e in flusso incessante, nel quale l'uomo sarebbe immerso prima di
subire l'influsso della metafisica.
Le Roy sostiene che l'uscita dalla immagine confusionaria
della realtà - "il continuo
eterogeneo e sfuggente, che percepiamo in un primo tempo" - può essere
attuata unicamente dall'esigenza utilitaria: "L'esistenza dei corpi separati non ci è data immediatamente, è il
risultato della preferenza data alle impressioni tattili" piuttosto
che alla continuità che risulta alla vista.
D'altra parte Bergson affermava che c'è molto di più nel
movimento che nell'immobilità, dunque è dal movimento (dal divenire piuttosto
che dall'essere) che la speculazione deve incominciare.
Osserva Garrigou-Lagrange: "Bergson si colloca, come Eraclito, da un punto di vista empirico e così
per lui l'immobilità è semplicemente lo stato di quiete e se prevale la quiete
non ci può essere movimento".
Alla vista di colui che invece si colloca dal punto di vista
dell'intelligenza "ciò che resta
immobile è prima di tutto ciò che è, in opposizione a ciò che non è ancora ma
deve diventare; analogamente. L'immutabile è ciò che è e non può non essere, in
opposizione a ciò che non avendo in sé la ragion sufficiente della sua
esistenza può cessare di esistere".
In ultima analisi è accertato che l'evoluzionismo
bergsoniano contiene la negazione del principio di identità e non contraddizione:
"Il divenire, infatti, è unione del
diverso (es. un oggetto viola diviene rosso); dire che l'unione incausata del
diverso è possibile è come dire che il diverso per sé è uno e lo stesso almeno
di una unità di unione: es. ciò che è viola per sé e come tale
(incondizionatamente) diviene rosso, benché in quanto viola sia non rosso".
Quasi prevedendo la dissoluzione della filosofia moderna,
Garrigou-Lagrange sostiene che l'anti-intellettualismo di Bergson è un
hegelismo al rovescio e pertanto annuncia che "i due sistemi si toccano, e dovranno fatalmente incontrarsi, perché
l'uno e l'altro, figli di Eraclito, vogliono essere una filosofia del del
divenire e della fusione dei contrari".
E' in tal modo pre-annunciata la corsa al regresso
dell'immanentismo moderno, fondato sulla visione del mondo secondo Eraclito e
Cratilo, e indirizzato a vedere nelle cose l'informe strumento della disperata
azione degli uomini: "una pasta
plastica e malleabile o attività vivente tracciata di figure e disposta di
sistemi di relazioni secondo le comodità della vita pratica".
Garrigou-Lagrange osserva che nell'universo bergsoniano
"Non esistono corpi indipendenti,
non esiste quantità reale. Bisogna dire lo stesso della sostanza e della causa?
Evidentemente. E' la continuità qualitativa eterogenea e sfuggente la sola
realtà".
All'orizzonte è la dissoluzione oltre umana della filosofia
moderna. Al proposito è citato dall'autore un giudizio formulato da Jacob,
nella "Revue de Métaphysique et del
Morale" del 1898: "La nuova
filosofia sta esattamente agli antipodi del razionalismo di Platone e
Aristotele. ... Contingenza fondamentale, divenire illimitato, vita interiore
anteriore all'intelligenza e all'intelligibilità e creatrice dell'una e
dell'altra. ... E' l'antica materia che torna in primo piano e scaccia l'idea.
Qui (molto più che in Herbert Spencer [1820-1903]) ogni norma intellettuale
sparisce, la verità non conserva più alcuna significazione che la eleva al di
sopra dell'esperienza pura e semplice".
Infine l'inversione dell'indirizzo della ricerca filosofica:
"Ritrovare il sensibile sotto
l'intelligibile [presunto] menzognero che lo ricopre e che lo maschera e non
come si diceva un tempo l'intelligibile sotto il sensibile che lo dissimula".
La ricerca indirizzata all'affermazione dell'errore indirizza
al Nietzsche che affermava "non
crederei al Cristianesimo neppure se mi fosse dimostrato scientificamente".
Il disperato pensiero nietzscheano domina in un'età affascinata e alienata
dall'errore, e svela la radice irrazionalista della frenesia faustiana e
dell'angoscia gnostica in scena nel teatro postmoderno.
Agli interpreti e ai continuatori dell'opera di San Tommaso,
Garrigou-Lagrange, Fabro e Livi, va dunque riconosciuto il merito di aver
sollevato il coperchio che occulta la tenebrosa essenza dell'ultramoderno e di
aver indicato la via del ritorno alla ragione.
Nessun commento:
Posta un commento